Amazon a Treviso tra Casale e Roncade
di Leonardo Mezzalira
Amazon e la bassa trevigiana: a che punto siamo?
In un articolo di qualche tempo fa abbiamo raccontato l’iter poco ortodosso che ha portato all’approvazione della costruzione del maxipolo logistico (presumibilmente di Amazon o altro colosso della logistica) a Casale sul Sile: un progetto gigantesco che andrebbe a trasformare un’area di circa 500.000 metri quadri, aggirando i limiti posti dalla legge regionale sul consumo di suolo del 2017. E abbiamo colto l’occasione per fare alcune riflessioni che intrecciavano la dimensione ambientale, quella sociale e del lavoro e quella politica.
Quest’estate abbiamo incontrato di nuovo gli attivisti e le attiviste del Coordinamento No Maxi Polo per fare il punto sullo stato del progetto (ne abbiamo parlato qui). Nella stessa occasione abbiamo raccolto informazioni su un’altra ipotesi parallela, quella della costruzione di un hub logistico a Roncade, accanto a un casello dell’A4. Come del maxipolo, anche di questo progetto si è occupato in particolare Fabio Tullio di Legambiente Treviso, che negli anni ha anche raccolto numerosi materiali consultabili all’interno della mappa delle criticità curata dai circoli trevigiani dell’associazione assieme al collettivo GRA Grande Raccordo Ambientale, tra i promotori proprio del Coordinamento No Maxi Polo Casale – Quarto D’altino – Roncade.
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Si tratta di un grande polo di smistamento che dovrebbe insistere su un’area di circa 230.000 metri quadri, contenente un capannone alto più di 25 metri sito ad appena dieci chilometri dalla zona destinata al maxipolo di Casale, lungo la già trafficatissima Treviso-Mare. Chiaramente è un intervento contrario ad ogni logica di pianificazione, di ripensamento dell’uso del suolo e di risanamento delle ferite del territorio. Ma ci sono diverse aggravanti.
La prima è relativa, di nuovo, all’iter di approvazione del progetto. A differenza di Casale, a Roncade Amazon Italia si è palesata fin dal 2020 come destinataria dello stabilimento, tramite la ditta Techbau SPA specializzata nei servizi alle grandi compagnie di e-commerce, su terreni riconducibili alla famiglia Mosole, noti cavatori trevigiani. Per l’approvazione della variante urbanistica si è scelta la strada della domanda al SUAP, Sportello unico delle attività produttive: un iter semplificato, che funziona in deroga rispetto ai limiti al consumo di suolo, e che rende il comune ospitante il principale decisore. A seguito della richiesta il Comune di Roncade ha presentato un’interrogazione alla Regione per sapere se l’iter fosse adeguato, e la regione ha dato parere positivo.
Viene spontaneo chiedersi se un intervento di tale portata non meriti di essere sottoposto ad una regia più alta rispetto al livello comunale. Ma c’è di più: la logistica di un’attività commerciale può essere considerata un’«attività produttiva», o dev’essere trattata come attività commerciale? Le conseguenze sono ampie, e vanno dal tipo di tassazione alla quantità di oneri di urbanizzazione che chi costruisce deve pagare al Comune: se l’attività è commerciale gli oneri sono molto maggiori, perché l’impatto dell’opera, ad esempio sulla viabilità, è molto più alto. Lasciar passare una linea volta a liberare l’e-commerce dai vincoli a cui sono sottoposte le altre attività commerciali può essere molto pericoloso, sia dal punto di vista del pubblico (meno oneri di urbanizzazione), sia dal punto di vista delle attività commerciali concorrenti del territorio.
Il cenno al commercio locale ci permette di passare alla successiva serie di criticità, che comprende gli impatti sul tessuto sociale e sull’occupazione della costruzione del nuovo hub. ASCOM Confcommercio provinciale si è espressa più volte contro il progetto, e attraverso il centro studi EbiCom Lab di cui fanno parte anche le sezioni locali dei sindacati confederali ha promosso nel 2021 un’analisi di simulazione sui possibili effetti del nuovo polo sul territorio e in particolare sul mondo del lavoro. A Roncade Amazon ha promesso fino a 2700 nuovi posti di lavoro, ma lo studio, basato su dati relativi ad altri poli logistici simili, ha dimostrato che in questi casi Amazon assicura meno di metà dei posti lavorativi previsti, li copre per oltre il 70% con lavoro somministrato da agenzie, e assume un numero trascurabile di dipendenti a tempo indeterminato. Lavoro precario di scarsa qualità, che non porta benessere né significative ricadute positive sull’economia del territorio.
Come per Casale, anche per Roncade la risposta più forte che sono state in grado di dare CGIL e CISL è stata proporre una «contrattazione preventiva». Buone speranze, insomma, per la creazione di nuovi posti di lavoro; ma la richiesta di una contrattazione d’anticipo con l’azienda per far rispettare i contratti collettivi nazionali. Come se fosse possibile far pressioni su un’azienda multinazionale, che palesemente ha il coltello dalla parte del manico, senza i lavoratori e le lavoratrici, e in un contesto che, con la formula del lavoro somministrato, permette all’azienda di assumere e licenziare in modo praticamente indiscriminato.
A fronte di benefici di natura così dubbia, sembra chiaro che la valutazione predominante, a livello politico, del progetto di Roncade dev’essere quella relativa agli impatti sull’ambiente e sul territorio. E, nonostante le numerose misure di mitigazione e compensazione vantate dai proponenti – dalla «ricomposizione» di un’area verde di tre ettari con ripristino del «campo veneto chiuso», ai tetti verdi, ai colori del capannone che dovrebbero «sfumarsi nei colori del cielo» – da questo punto di vista la costruzione del nuovo hub non può che avere conseguenze nefaste. Porta ulteriore impermeabilizzazione in un territorio già a rischio idraulico elevato, e insiste su una zona definita come area di connessione naturalistica dal Piano Territoriale di Coordinamento della provincia. Collocata in una zona disconnessa dalla rete ferroviaria, consolida il predominio del trasporto delle merci su gomma, e attrae traffico di mezzi pesanti lungo un’arteria viaria già congestionata. Rischia, infine, di avere una vita relativamente breve, condizionata dagli andamenti del mercato, e di andare più presto di quanto ci si immagini ad aumentare il numero di maxicapannoni abbandonati sparsi per il territorio veneto.
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Ma i piccoli Comuni veneti, incaricati – come in questo caso – di prendere decisioni «più grandi di loro», suscettibili di impatti che vanno ben oltre i confini amministrativi, hanno tutti più o meno lo stesso atteggiamento permissivo verso il consumo di suolo. Hanno paura della concorrenza dei paesi limitrofi, e hanno un’enorme fame di soldi causata dalle ristrettezze economiche imposte dal patto di stabilità, associate alla difficoltà di accedere a finanziamenti pubblici in seguito alla riforma di Cassa depositi e presiti. In questo modo la caccia agli oneri di urbanizzazione si trasforma in una corsa alla cementificazione. In alcuni casi potrebbero giocare un ruolo importante alcune dinamiche legate a scambi personali. La legge regionale del 2017, dal canto suo, non sembra efficace nel dare una svolta rapida al fenomeno, per varie ragioni che vanno dal «tesoretto» di suolo consumabile comunque assegnato ai Comuni, alle deroghe per «aree strategiche», alla possibilità di portare avanti, in forma modificata, progetti approvati in precedenza e latenti anche da molto tempo. Tanto che, stando all’ultimo rapporto ISPRA, nel 2021 il Veneto era ancora, dopo la Lombardia, la regione con il più alto consumo di suolo annuale netto a livello nazionale.