di Stefania Giroletti
Cosa è successo ai freelance nei mesi dela quarantena? Cosa hanno chiesto, cosa hanno pensato, che cosa vorrebbero? Le seguenti riflessioni partono da un’inchiesta, portata avanti da militanti di Potere al Popolo in regione, di cui si può trovare una prima versione qui sotto.
Lavoro in Veneto ai tempi del Covid
A cosa pensiamo, oggi, quando parliamo di partite IVA? Tendenzialmente alla ricchezza. Viene in mente la figura dell’imprenditore, dell’autonomo che può permettersi di non lavorare sotto padrone. Viene in mente la libertà di determinarsi e organizzarsi. Pensiamo quindi a una forma di privilegio che solo una certa fascia sociale può permettersi. In parte la diagnosi è veritiera, in parte falsifica una realtà più complessa. Accanto alle tradizionali partite IVA, infatti, si alimenta da anni un sottobosco di nuove professionalità inquadrate come autonome che assecondano le esigenze del contemporaneo mercato del lavoro, terziarizzato e tecnologizzato. Quando si parla di autonomi di seconda generazione o di freelance oggi non bisogna pensare al medico specialista con l’ambulatorio di lusso, all’avvocato con lo studio in centro o all’imprenditore che corre sulla sua auto nuova. Si parla di lavoratori e lavoratrici tendenzialmente giovani (meno di 35 anni), altamente scolarizzati (laureati o plurilaureati), in grado di svolgere mansioni differenti, spesso legate alla cultura (organizzatore di eventi, attore, guida turistica), all’editoria, ai servizi o alle aziende, di cui curano in particolare la comunicazione (copywriter, webdesigner, account-manager). Si parla di un fatturato medio (al lordo di spese, contributi e imposte) fra i 20 e i 30.000 euro annui (fonte ACTA). Non navigano nell’oro, insomma, sono totalmente nelle mani dei committenti in quanto non esistono tariffari ufficiali che garantiscano loro una paga minima e la concorrenza si gioca spesso al ribasso. Inoltre, in quanto autonomi, non godono di ferie, malattia e altre forme di welfare.
L’impatto della crisi sanitaria su questa categoria non è stato indifferente. Una copywriter di professione, da noi intervistata, percepisce la propria posizione come altamente precaria: «siamo fra le prime teste a cadere», dice. Presuppone infatti che le aziende, in caso di recessione, procederanno a recidere in primo luogo i rapporti di lavoro con gli esterni, ossia con le varie partite IVA. «Ho paura della chiusura dello studio» – afferma un giovane ingegnere – «io vedo sempre lati negativi nelle partite IVA. Non hai un Tfr, zero ammortizzatori sociali o coperture».
«È da quando ho 19 anni che mi pago l’affitto. Oggi ho dovuto chiedere a mio papà i soldi per pagarlo», confessa una guida museale in un misto di rabbia e stupefazione. La sensazione di paura legata a un impoverimento repentino riguarda la totalità degli intervistati e delle intervistate. A ciascuno è saltata almeno una commessa, tanti temono ritardi nei pagamenti e la scadenza della rata delle tasse si avvicina come un incubo. I risparmi ci sono, ma sono limitati per la maggior parte del campione e, se bastano a mettersi a posto con il fisco, pochi ne restano per affrontare altre spese necessarie. Soprattutto perché non si sa quali saranno le prospettive lavorative sul medio-lungo periodo: «Ho fatto un calcolo del mese di marzo, ho perso 1400 euro sicuri di tour già stabiliti» – ci dice una guida turistica – «ma il problema non è tanto marzo, è che ho perso i soldi a tempo indeterminato. Non so minimamente quando si ripartirà, se si ripartirà… Che futuro avrà una copywriter in un mercato del lavoro in recessione?».
Oggi il freelance si scopre precario, sacrificabile e tendenzialmente povero.
La crisi sanitaria ha scoperchiato il lato d’ombra di questa tipologia di lavoratori e lavoratrici, di cui solitamente viene esaltata la libertà in termini di orario e organizzazione del tempo di lavoro, la creatività nella progettazione e la poliedricità derivante dalla possibilità di variare spesso mansione. Il freelance è anche questo, ma non solo. Oggi si scopre precario, sacrificabile e tendenzialmente povero. A livello esistenziale si considera fortunato se ha una famiglia che lo supporta e sarebbe in difficoltà ad averne una propria da mantenere. Paradossalmente potremmo considerarlo come un’impresa priva dei mezzi di produzione che le consentano un accumulo di capitale. I suoi mezzi, infatti, sono principalmente quelli immateriali della propria creatività, delle abilità e della formazione. Come una qualsiasi impresa, a ogni modo, deve affrontare il rischio e farsene carico individualmente.
Il bonus da 600 euro stanziato dal governo a supporto delle partite IVA ha stupito più di uno dei nostri intervistati e intervistate che hanno interpretato questo aiuto simbolico come il riconoscimento dell’esistenza di questa categoria. Ciò del resto non fa che confermare un dato significativo riguardo all’evoluzione del mercato del lavoro: gli autonomi rappresentano una fetta sempre più larga di lavoratori e lavoratrici e non così raramente rasentano condizioni di indigenza o comunque di difficoltà economica, per questo diventa una necessità ineludibile considerarli. Il bonus, ad ogni modo, è stato ritenuto una misura insufficiente, non tanto per la cifra risibile rispetto alle perdite calcolate, ma perché si chiedono misure strutturali in termini di tutele della categoria: «Vorrei più controlli sulle partite IVA mascherate e che non sia concessa questa possibilità alle aziende; se possibile vorrei un minimo di tutela sui pagamenti (è ridicola e irrealizzabile la proposta di Di Maio di imporre una mora al committente dopo 60 giorni dalla scadenza del pagamento. Nessuno lo fa per paura di perdere il cliente!). Tra poco andrò a vivere a Milano e mi appoggerò a Smart (una cooperativa che sostiene questo tipo di lavoratori e lavoratrici): ma mi chiedo perché non è lo stato a tutelarci?».
Le parole di questa intervistata, che è copywriter, editrice e illustratrice allo stesso tempo, lasciano emergere più o meno direttamente due altre questioni fondamentali. Una riguarda la possibilità di riconoscersi superando la frammentazione e l’isolamento tipici di questi lavori fortemente individualizzati. Le tutele in fin dei conti si ottengono con le battaglie e per lottare è necessario essere uniti e aver chiara la propria condizione lavorativa ed esistenziale. «Penso che le fasi critiche si possano affrontare solo se preparati e abituati ad un determinato pensiero comunitario. Se questo pensiero non c’è, qualsiasi soluzione alla fase critica sarà come tirare un dado e sperare che vada tutto bene».
In secondo luogo, viene fatta emergere la problematica delle finte partite IVA. L’intervistata è consapevole che la possibilità di rimanere freelance non dipende solo dalla sua volontà: si intensificano sempre più, infatti, le pressioni da parte delle aziende a farsi dipendenti mascherati. Ciò significa lavorare per un solo committente, con orari prestabiliti e obiettivi eterodiretti, esattamente come un dipendente ma con partita IVA. Si assume così il meno possibile, scaricando sui singoli i costi di previdenza e tutela. Lei stessa ha ricevuto una commessa da un’azienda di Bolzano che avrebbe voluto imporle una tale modalità di contrattualizzazione: ha rifiutato, ma il suo posto è stato prontamente affidato a un’altra come lei che non poteva permettersi di dire no. La ristrutturazione del mercato del lavoro attraverso queste forme contrattuali rappresenta un rischio sia per chi vorrebbe essere realmente freelance, sia per chi invece preferirebbe essere inquadrato come dipendente, ma risulta costretto ad aprire una partita IVA: accade spesso ad architetti e ingegneri, ma non solo. La sempre maggiore disponibilità di lavoratori e lavoratrici praticamente senza diritti impatta quindi anche sulla sfera del lavoro dipendente, collaborando all’erosione di una serie di tutele in nome di una libertà spesso falsa.
Libertà e autorealizzazione sono i valori che motivano i freelance nella loro scelta lavorativa. La crisi ha reso palese il modo in cui il neoliberismo ne torce il significato a proprio vantaggio e ha messo in evidenza le reali condizioni materiali di buona parte di questi lavoratori e queste lavoratrici. L’organizzazione è l’unico modo per contrastare questo tipo di processo ed è necessaria sia per proteggere questa categoria, sia per contrastare la corrosione dei margini del lavoro dipendente.