Il lavoro educativo tra realtà e serie tv
di Leonardo Mezzalira
Nel 2021 e nel 2023 sono state trasmesse su Rai1 la prima e la seconda stagione della serie Un professore, incentrata sul rapporto tra un eccentrico professore di filosofia e i suoi alunni di un liceo romano. Proprio in questi giorni, poi, sta uscendo la quarta stagione di Mare fuori, che narra le vicende di un immaginario Istituto penale minorile in cui sono detenuti ragazzi e ragazze coinvolti in giri di camorra. Le due serie – oltre ad alcuni attori – condividono diversi aspetti: sono ambientate in una istituzione educativa o rieducativa, dipingono un «fuori» pericoloso da cui i ragazzi vanno salvati e fanno riferimento a una cultura urbana (e linguistica) apparentemente compatta, scelta tra quelle più feticizzate dal pubblico: Roma e il dialetto romanesco da un lato, Napoli e il napoletano dall’altro.
Un’altra somiglianza tra le due serie sta nel modo in cui vengono dipinte le persone che lavorano all’interno delle due istituzioni, scuola e carcere. Nell’interagire con i ragazzi affidati alle loro cure il prof. Balestra da un lato, il comandante e l’educatore dell’IPM dall’altro adottano metodi fortemente anticonvenzionali: piegano o trascurano le regole e le leggi, mantengono e svelano segreti, si lasciano coinvolgere integralmente nella vita privata dei ragazzi – vivono il proprio lavoro educativo e di cura senza separarlo in alcun modo dalla loro vita personale. Nel fare così, in entrambi i casi danno scandalo e si scontrano con altri personaggi (come il prof. Lombardi, la direzione del carcere o i burocrati del Ministero di grazia e giustizia) che invece si muovono nel solco delle regole, restando fedeli per convinzione o per paura a una visione tradizionale del proprio ruolo.
Inutile dire che questi ultimi sono rappresentati negativamente, mentre gli adulti protagonisti, lavorando molto oltre il dovuto, si conquistano la fiducia dei ragazzi e ottengono risultati straordinari. Non è uno schema nuovo, anzi verrebbe da dire che è un topos consolidato che garantisce da sempre grande successo ai film e alle fiction ambientate all’interno di istituzioni rigide (vedi L’attimo fuggente – e perché non approfittarne per suggerire di recuperare un bel film ambientato in un carcere minorile: Borstal Boy). Storie che spesso si allontanano parecchio dalla verosimiglianza: il prof. Balestra pare insegni in una sola classe (di cui fa parte il figlio Simone) e abbia una libertà di movimento pressoché totale, e sembra che anche il funzionamento del penitenziario di Mare Fuori c’entri ben poco con la realtà della giustizia penale minorile italiana. D’altra parte, a un’opera di finzione non si chiede di essere fedele alla realtà.
La si può interrogare, però, in merito alle domande che sottintende. E in questo caso, a chi lavori nell’ambito dell’educazione e della cura, può venire in mente un pezzetto di realtà. Certo, le scorciatoie miracolose e gli atti di eroismo rappresentati nelle serie non sono realistici – purtroppo la vita di nessun* di noi è scritta da uno sceneggiatore bravo come quello che fa dire al comandante dell’IPM la frase giusta in qualunque occasione. Ma è vero che, soprattutto nei contesti più difficili, svolgere il proprio lavoro – di insegnanti, di educatori – in modo ligio, come da contratto, non funziona. Pare che i risultati si ottengano costruendo un rapporto personale con i ragazzi, a volte forzando le regole, proseguendo il dialogo oltre l’orario e mettendo in gioco la propria vita personale. Insomma portandosi il lavoro a casa, proprio come fanno – sì, in misura maggiore – i supereroi della cura delle nostre serie tv.
Pensiamo per esempio alla scuola. Immaginiamo di insegnare in una scuola in cui un ragazzo, 15 anni, è sicuro che il suo dovere sia uccidere l’uomo per il quale sua madre ha abbandonato da un giorno all’altro i cinque figli. Un’altra ragazza, analfabeta, rimasta incinta a sedici anni, sa esprimersi solo a parolacce in napoletano. Un altro ha il padre alcolista, sua madre a colloquio si vanta di averlo picchiato fino a fargli uscire il sangue per correggerlo. I nomi sono quasi gli stessi dei ragazzi e delle ragazze di Mare Fuori – Mimmo, Fortuna, Salvatore, Ciro – ma questa volta la storia è vera: è quella raccontata nel libro di Carla Melazzini Ho insegnato al principe di Danimarca (Sellerio 2011), una raccolta di testimonianze intorno all’esperienza di Chance, progetto di scuola per ragazzi «poli-problematici» della periferia di Napoli in cui l’autrice aveva lavorato. Un percorso che ha avuto grande successo, smentendo la sentenza di molte delle scuole di provenienza che, dopo aver più volte bocciato i ragazzi in questione, li avevano di fatto lasciati allontanare. Una storia drammatica, ma nel complesso bellissima (questo è un consiglio di lettura).
Se dovessimo lavorare in una scuola del genere, in cui i ragazzini arrivano con il coltello e ci è richiesto di far loro cambiare testa, di insegnar loro a non usarlo, in molti probabilmente ci spaventeremmo: penseremmo che più che di un insegnante, lì, c’è bisogno di un supereroe. Ma immaginiamo ora di spostarci in una scuola di periferia della nostra città: in ogni classe c’è qualche ragazzo con la famiglia seguita dai servizi sociali; alcuni sono appena arrivati e non sanno una parola di italiano, altri sono qui da un po’ ma nel cambio di Paese e di scuola sono rimasti enormemente indietro rispetto ai coetanei. Alcuni vengono da contesti violenti, e hanno questa violenza che ribolle loro dentro anche a scuola; altri e altre subiscono questi modelli, per questo o per altri motivi rimangono schiacciati, non parlano. Nella testa di molti non c’è proprio spazio per le materie di scuola: ci sono questioni più urgenti da affrontare.
In questo contesto ci rendiamo subito conto che il compito dell’insegnante, dell’educatore o dell’educatrice non può esaurirsi nello svolgere un programma e nell’applicare determinate metodologie. Richiede invece un enorme coinvolgimento personale, a livello sia di empatia, sia di tempo – tempo che immaginiamo, in gran parte, ricavato al di fuori del proprio normale orario lavorativo. Energie personali necessarie per riparare un rapporto di fiducia con il mondo degli adulti che si è rotto o che non ha mai preso forma, e poi per aiutare gli alunni e le alunne ad impadronirsi degli strumenti intellettuali necessari a interpretare la propria situazione e le proprie prospettive. E questa è la storia attuale di molti di noi che lavorano nel settore.
Che cosa ci dicono queste storie, vere o fittizie, sulle istituzioni in cui sono ambientate? Che le istituzioni educative, oggi, possono svolgere il loro ruolo solo grazie a persone eccezionali che non distinguono tra il proprio lavoro e la propria vita privata – che fanno della salvezza dei ragazzi, loro affidati per insegnamento o cura, la propria missione? Se è così la prospettiva è preoccupante, perché è come dire che le istituzioni educative in sé non funzionano. E normalizzare lo stato di fatto, celebrando atti di eroismo che non possono essere richiesti a tutt*, può essere un buono spunto per una serie tv ma non può essere la soluzione.
Se un’istituzione non funziona, o è gestita male o è strutturata male. Partiamo da quest’ultima ipotesi e prendiamo di nuovo ad esempio la scuola. Negli anni Settanta Everett Reimer e Ivan Illich se lo sono chiesto: è giusta un’istituzione che raccoglie ragazzi e ragazze in coorti basate sul loro anno di nascita e progetta per loro un percorso strutturato, più o meno uguale per tutti, dall’infanzia all’inizio dell’adolescenza, insegnando loro a competere e stabilendo alla fine chi sia più preparato e chi meno? Le posizioni dei due pensatori sono oggi, purtroppo, pressoché dimenticate, ma possono almeno aiutarci a rilevare che la scuola dell’obbligo è un’occasione formativa che alcuni ragazzi e ragazze finiscono per perdere semplicemente perché, per loro, non è il momento giusto per imparare quelle cose. E se le occasioni di apprendere, offerte gratuitamente dallo Stato, fossero distribuite diversamente nella vita delle persone?
Mettiamo però per il momento da parte questa critica, che ci porterebbe lontano, e immaginiamo di voler lasciare l’istituzione così com’è. Come potrebbe essere gestita meglio?
Può essere proprio l’immagine del prof o dell’educatore supereroe a suggerircelo. E se invece di pochi eroi avessimo un gruppo di persone in gamba? Immaginiamo di popolare l’IPM di Napoli di psicologi e psicologhe, insegnanti per vari livelli di istruzione, mediatori e mediatrici (pare che gli IPM reali funzionino almeno un po’ così: è una delle critiche mosse dagli addetti ai lavori alla rappresentazione di Mare Fuori). O immaginiamo di avere nelle nostre scuole, senza stravolgerne la struttura, personale sufficiente per fare tutti i corsi di italiano per stranieri che servono, per dare l’insegnante di sostegno a tutti gli alunni che ne abbiano bisogno, per fare sistematicamente compresenza nelle classi più difficili.
Ecco che forse il supereroe non servirebbe più e la scuola, per usare un’espressione di Melazzini, potrebbe funzionare abbastanza bene – sempre nei limiti della sua concezione strutturale – anche in mano a semplici «insegnanti di media cultura e umanità».