di Filippo Gobbo
Sabato 17 novembre 2023. Una collega in aula insegnanti sta leggendo gli ultimi aggiornamenti sulla scomparsa di Giulia Cecchettin e di Filippo Turetta sul sito del «Corriere» (solo poche ore dopo, si verrà a sapere che il corpo della ragazza è stato trovato vicino al lago di Barcis). L’immagine della collega di spalle intenta a scrollare la pagina alla ricerca degli ultimi aggiornamenti mi è rimasta particolarmente impressa. Quell’attenzione, quella postura allarmata mentre leggeva la notizia, sentivo che era enormemente maggiore rispetto a quanto io stessi provando. Nella mia testa, fino a poco prima, le notizie sul caso costituivano un semplice rumore bianco nella vita di tutti i giorni.
E ho sentito che in quella distanza di reazioni emotive c’era tutto il frutto di un mio privilegio. E di un senso di minaccia suo, difficile da spiegare.
I più smaliziati difensori del genere cui appartengo diranno che queste considerazioni, questo percepire un “privilegio” non ben identificato, non sia altro che il frutto di proiezioni ideologiche o, nel peggiore dei casi, della mia falsa coscienza. D’altronde non tutti gli uomini sono colpevoli del femminicidio che è stato compiuto. Vero, ma non credo sia questo il punto. Il privilegio che ho percepito nasce da lontano, da quando sono nato, ma prende maggiore sostanza nel ricordo di un me ventenne, fragile e gelosissimo, che aveva un rapporto simbiotico con la sua ragazza dell’epoca. Una ragazza che consideravo quasi come la mia appendice, la cui libertà di movimento al di fuori dei paletti prestabiliti (nella mia testa) rappresentava per me uno schiaffo a un diritto innegabile: non tanto quello alla felicità, ma all’eccezionalità e unicità.
Ogni gesto o azione che non rispondesse a questa narrazione era per me un tradimento: ogni chiacchierata innocua con un altro uomo, ogni risposta tardiva via messaggio, ogni scelta che non mettesse prima di tutto davanti me. Quando ho letto che quel ragazzo non accettava la libertà e la laurea della ragazza ho avuto un brivido sinistro nel riconoscermi e riconoscere gesti e azioni compiuti da “bravi ragazzi” come me: di buona famiglia, cresciuti secondo l’idea di meritarsi tutto solo per il fatto di essere tali, probabilmente educati all’ombra di commedie romantiche e porno. Ragazzi che hanno inseguito goffamente e faticosamente i modelli maschili che venivano suggeriti loro e indispettiti che i loro sforzi non producessero gli (irreali) effetti sperati: i gemiti di piacere sotto le lenzuola e l’adorazione servizievole da parte della controparte femminile. Qualsiasi tipo di comportamento al di fuori di questo schema era vissuto da me come una minaccia.
Non ho la pretesa che la mia educazione sentimentale sia rappresentativa di tutta una generazione di uomini, ma mi stupisce la continua e insistente ottusità con cui negli ultimi giorni in rete vogliamo nascondere a noi stessi, in quanto uomini, l’esistenza di una serie di valori culturali condivisi che ci porta potenzialmente a essere violenti. Una cultura che legittima nel nostro cervello qualsiasi azione controllante o abusante rispetto al genere femminile, ma anche una cultura che ci impedisce il più delle volte di trovare degli strumenti emotivi adeguati per rispondere al dolore, alla perdita e al senso di inadeguatezza. Dietro al nostro celodurismo da spogliatoio, al cameratismo da quattro soldi, al gioco cazzo piccolo/cazzo lungo c’è una povertà emotiva dietro cui si nascondono cadaveri e non solo. E credo che almeno di questo dovremmo disgustarci e spaventarci.
Perché il femminicidio è la punta di un iceberg fatto di una merda distillata e purissima che ho somministrato e ho visto somministrare più volte alla controparte femminile e di cui, il più delle volte, ho minimizzato la portata. Dirselo e avere il coraggio di dirlo agli altri quando agiscono all’ombra di questo privilegio non è una forma di virtue signaling, come ho sentito dire in giro in questa settimana (davanti a un cadavere di una giovane donna in questo momento a nessuno gliene frega un cazzo, giustamente, dell’ennesimo maschio bianco che si china costernato per gli errori del passato), ma una presa di consapevolezza che un problema esiste non solo fuori di noi («è il solito pazzo, io non lo farei mai»), ma anche dentro di noi.