di Agnese Pieri
«Il gigante streaming ha speso 21,4 milioni di dollari per la produzione dei 9 episodi (circa 2,4 milioni a episodio) e arriverà a trarre da essi un guadagno 40 volte superiore: quasi un miliardo di dollari (891 milioni)» (da La Stampa).
Il gioco è il seguente: trova nel minor tempo possibile il tratto che accomuna gli oggetti che seguono:
1) lo Squid Game Alarm Clock, una sveglia-bambolina digitale che, dopo il suono dell’allarme, spalanca la bocca e sputa una raffica di palline per costringerti a lasciare il letto, simulando la ciclopica bambola meccanica che elimina, fucilandoli, i concorrenti di 123 stella;
2) lo sciopero organizzato a Seul dalla Confederazione Coreana dei Sindacati lo scorso 20 ottobre, durante il quale molte persone sono scese in piazza indossando la tuta rossa e la maschera con i simboli del joystick della Playstation che, nella serie, è la divisa dei sorveglianti incaricati di organizzare i giochi, dispensare i pasti e uccidere i concorrenti eliminati – su Amazon, le divise costano meno di 30 euro («Oltre alla trama avvincente, i fan sono impazziti anche per le maschere indossate dalle guardie dell’isola. Più di 40mila ragazzi hanno già scaricato dal web le maschere in 3D apparse nella serie sudcoreana, merito anche della vicina festa di Halloween»);
3) la trafila di articoli tipo Squid game è il capitalismo, Squid game: una favola splatter contro il capitalismo ecc., per i cui autori la serie «dimostra che si stanno formando crepe nel mito capitalista del paese», e, contemporaneamente, il rinnovato «interesse degli investitori per il colosso di Los Gatos» in seguito al successo sì di pubblico ma soprattutto economico ottenuto in poco più di un mese.
Soluzione: quella che Mark Fisher ha chiamato la «precorporazione» da parte del capitale di materiali potenzialmente sovversivi, cioè «la programmazione e la modellazione preventiva, da parte della cultura capitalista, dei desideri, delle aspirazioni, delle speranze». Più precisamente, in Fisher impiega questo concetto per definire il depotenziamento strutturale della contestazione e delle forme che assume la contestazione in ambiti culturali e politici alternativi e indipendenti, che entrano a far parte della cultura ufficiale e diventano «semplici stili interni al mainstream – o meglio […] gli stili dominanti del mainstream». L’esempio più eclatante di questa operazione, per Fisher, è Kurt Cobain, sulla cui figura scrive: «il leader dei Nirvana sembrò l’esausta voce dell’avvilimento che attanagliava la generazione venuta dopo la fine della storia, la stessa generazione cui ogni singola mossa era stata anticipata, tracciata, comprata e svenduta prima ancora di compiersi».
Squid Game è pura precorporazione.
Commentando I figli degli uomini di Alfonso Cuarón all’inizio di È più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo – il primo capitolo di Realismo capitalista –, Fisher scrive: «Un tempo, i film e i romanzi distopici erano esercizi di immaginazione in cui i disastri agivano come pretesto narrativo per l’emersione di modi di vivere nuovi e differenti. Con I figli degli uomini questo non avviene: il mondo che prefigura sembra un’estrapolazione o un’esacerbazione del nostro, più che una realtà alternativa vera e propria». In Brave New World (1932), ad esempio, il mondo immaginato da Aldous Huxley è un mondo effettivamente nuovo e ignaro del “prima”, i cui aspetti disforici sono l’esito di una volontà collettiva ancora operante. Sono, diciamo, i principi sui quali la società si fonda e struttura a determinarne la configurazione: consumo, tecnica e libertinaggio sessuale. Ci troviamo nell’anno di Ford 632, la morte e la depressione sono state neutralizzate attraverso l’assunzione di una sostanza euforizzante chiamata Soma e Henry Ford, il nuovo Dio, si confonde con Freud, profeta di una sessualità liberata dal sentimento e incentivata fin dall’infanzia come pratica salutista e antirivoluzionaria. Nel Nuovo Mondo non esistono vincoli affettivi ed è la produzione in serie dei modelli automobilistici Ford a rappresentare, oltre al criterio di scansione del tempo che passa, il paradigma della riproduzione umana extrauterina. Gli individui, come macchine, sono prodotti tecnologici.
Nel film di Cuarón, al contrario, la realtà non è nuova, ma si sta esaurendo. Non osserviamo gli esiti estremi e proiettati nel futuro di tendenze in atto nel “mondo di prima”, perché il mondo di cui si parla è il nostro stesso mondo ma ammalatosi, improvvisamente, di infertilità. Fisher, nel suo saggio, legge in modo metaforico l’infertilità biologica all’origine dell’inizio della fine del mondo: la malattia che impedisce al genere umano di procreare allude all’esaurimento culturale che non riesce più a pensare e a produrre il futuro, neanche in negativo. Non un futuro generico, ma un futuro al di fuori dell’ipotesi costituita dal capitalismo. Per Fisher, il capitalismo non ha solo saturato la nostra immaginazione al punto da non riuscire a pensare e credere a niente di diverso dal mondo in cui viviamo, ma è riuscito a neutralizzare, a infiacchire qualsiasi impulso attivo o passivo, più o meno consapevole, che spinge verso il conflitto e la trasformazione («per la maggior parte delle persone sotto i vent’anni l’assenza di alternative al capitalismo non è nemmeno più un problema: il capitalismo semplicemente occupa tutto l’orizzonte del pensabile»). La traduzione culturale della sterilità biologica si realizza, nel film, con la musealizzazione e privatizzazione di prodotti artistico-culturali di valore come la Guernica di Picasso e il David di Michelangelo, che, spogliati di un discorso critico produttore di un senso costantemente rinnovato, conservano la sola funzione di trastulli spirituali delle élite che si impegnano a proteggerli dalla realtà brutalizzata: «Nessun oggetto culturale conserva la propria potenza se non ci sono più nuovi sguardi a osservarlo. Perché la cultura si trasformi in una serie di pezzi da museo non c’è bisogno di attendere un futuro alla I figli degli uomini. Il potere del realismo capitalista deriva in parte dal modo in cui il capitalismo sussume e consuma tutta la storia pregressa: è un effetto di quella equivalenza che riesce ad assegnare un valore monetario a qualsiasi oggetto culturale, si tratti di icone religiose, pornografia o il Capitale di Marx».
Squid game è una serie che dice queste cose in modo molto chiaro e Fisher, probabilmente, l’avrebbe nominata nel suo saggio sulla scomparsa di futuri alternativi. Anche qui il tasso di distopia è relativamente basso: il mondo è il nostro mondo, ma i cattivi (i Ricchi del pianeta) si divertono a organizzare segretamente giochi gladiatorii letali che possano smuoverli dal torpore depressivo prodotto dal benessere economico. I buoni, all’estremo contrario, sono i poverissimi che accettano di farsi ammazzare piuttosto che tentare il riscatto in una società infernale e senza possibilità. Tutti i significati che possiamo allegare alla parola «anticapitalismo» (percezione acuta di disuguaglianze socio-economiche, rifiuto della competitività, senso di solidarietà, consumo responsabile, attivismo ecc.) si trasforma, nel caso di Netlix, in un bacino potenzialmente infinito (vedi La casa di carta) di sceneggiature galvanizzanti particolarmente di moda, realizzate in uno “stile” assimilabile alle Vans Slip-On bianche che indossano i giocatori della serie: semplice, riproducibile e comodo. Si potrebbe riflettere sulle specificità di Squid game rispetto ad Hunger Games e alla Casa di carta, per trarne probabilmente la conclusione che sì, in effetti… in Squid game si spinge di più sul pedale della critica al sistema, aumentano le allusioni a una realtà specifica e concreta (il protagonista è un ex operaio disoccupato che ha partecipato allo sciopero dello stabilimento Ssangyong Motors del 2009), si mette in discussione l’ideale meritocratico…