di Filippo Grendene
Iniziamo con questo articolo una rubrica di microstorie: lotte e conflitti attivi sul territorio veneto nella seconda metà del Novecento. Lo facciamo perché sono belle e interessanti, perché ci ricordano che le cose a volte cambiano, in peggio ma anche in meglio, perché ci mostrano una faccia a volte inaspettata del nostro territorio e perché spesso hanno vinto. Senza pretesa di accuratezza storiografica, ci muoviamo sull’onda delle parole di chi, ogni giorno, lotta con noi e magari al tempo apriva per la prima volta gli occhi al mondo. Se altri vorranno raccontare, ci scrivano.
Partiamo dalla casa, uno dei temi che più abbiamo seguito in questi mesi.
All’inizio del 1980 a Padova succedono tante cose. Le conseguenze del sette aprile sono vivissime, si susseguono colpi di mano e arresti più o meno legati all’autonomia. È sindaco, ancora per poco, Luigi Merlin, della destra democristiana, che con il suo mandato attraversa tre anni cruciali per la città, attraversata da movimenti di ogni tipo, dal femminismo alle lotte sul lavoro a quelle di genitori e insegnanti. All’inizio del 1980, come oggi, a Padova c’era un grosso problema sulla casa.
Fra le tante situazioni dure una era quella delle Case Minime: edifici dell’immediato dopoguerra approntati per fornire un tetto agli sfollati e a chi aveva perso la casa nel corso dei bombardamenti, costruiti spesso da impresari improvvisati e senza grande pianificazione. Nel 1980, 35 anni dopo, le famiglie continuavano a vivere in questi alloggi fatiscenti, pieni di muffa, senza riscaldamento, con i servizi igienici sotto il livello minimo. Ai giornali di quei mesi raccontano di vivere in sei in quattro stanze, di figli che si ammalano per il freddo e le condizioni insalubri, di crepe nei muri e bagni che paiono stalle.
Cariche in Consiglio Comunale
La situazione di grave disagio abitativo nel 1980 ha avuto, a Padova, importanti conseguenze: la caduta dell’allora sindaco Merlin, un ampio dibattito sulla possibilità di requisire case in assenza di soluzioni verosimili, un’occupazione che ha consentito a decine di famiglie di avere un tetto. Proviamo a ricostruire la storia.
«Il tema principale era lo scaricabarile: chi è il responsabile? Il comune, lo IACP, l’opera pia di turno? Alla fine abbiamo detto: “Scolta, lo scaricabarile basta. La gente sta male, c’è una responsabilità del Comune? Noi andiamo in Comune. Bisogna dare uno stop, la gente non può passare un altro inverno così”. Quell’inverno era stato duro, immaginati l’umidità, veramente una brutta situazione. Ed era proletariato, ed era Partito Comunista, ma la cosa è stata interessantissima da questo punto di vista perché noi eravamo gli extraparlamentari, noi eravamo Democrazia Proletaria, Unione Inquilini; ma lì, soprattutto nella zona Stanga, la sezione del PCI era con noi, assolutamente con noi. Quando si è deciso di andare in Consiglio Comunale, si è andati sapendo quello che dovevamo fare. E quello che dovevamo fare era costringere alla discussione su questo argomento». Cesare Ottolini al tempo ha seguito dall’interno tutta la vertenza e ci descrive nei dettagli le scelte prese; si era partiti dalle case minime di via Maroncelli, via Moscardin, via Polesine, via Chiesa Vecchia, che condividono simili problematiche, e dove si costituiscono comitati di inquilini.
Venerdì 28 marzo 1980 nella zona riservata al pubblico a Palazzo Moroni si assiepano gli inquilini, con cartelli e decisione. Il sindaco non se lo aspettava. Riportiamo la cronaca di Claudia Basso, su Il mattino del GIORNO: «Uno dei dimostranti scavalca le transenne. Primo scambio di battute tra consiglieri comunali: “Basta con queste storie, sospendiamo”. Così, mentre i consiglieri comunali si alzano per la sospensione, ai loro posti si siedono le donne, i bambini (una quindicina), i vecchi. Uno del gruppo “dichiara” i motivi della protesta. […] Arrivano 15 celerini. […] La Celere si mette di fronte al pubblico. In mezzo, ci sono i comunisti Bonfio e Lazzaro, per spiegare che la gente delle case minime può benissimo restare. Il sindaco è sempre fuori dall’aula. Si sente Bonfio che urla: “Voi non potete mandarli via, no, io dico quello che voglio, sono un consigliere comunale”, e poi si vede un tenente agguantarlo per la giacca…. Alle 21.58, II atto: la Celere carica. Comincia a picchiare, a chi tocca tocca. Donne e bambini compresi. Troilo si prende una manganellata sul collo, Bonfio continua ad urlare, la Zerbetto cade per terra. Alle 22, la “zona-pubblico” è sgombrata». Quello che la giornalista, fedele al suo lavoro di cronista delle vicende d’aula, non racconta, è ciò che accade fuori: la carica continua e dato che, come sanno i padovani, la sala del Consiglio Comunale è alla fine di una lunga scalinata, il centinaio di inquilini viene inseguito dai celerini fin fuori da palazzo Moroni. Da molte voci questo sarà definito il momento più basso del Consiglio Comunale padovano.
A cosa può portare il problema abitativo!
Luigi Merlin, responsabile di aver chiamato la polizia, viene abbandonato da tutti: anche una parte importante della Democrazia Cristiana si discosta, pur formalmente facendo quadrato. Nel giro di un paio di giorni emerge come in Consiglio Comunale sia venuta a mancare la maggioranza e come quindi il sindaco debba dimettersi. Il 2 aprile Merlin prende commiato dal proprio ruolo senza che nessuno si stracci le vesti. Prenderà il suo posto, per circa un anno, Ettore Bentsik.
La legge elettorale, differente da oggi, permette di non andare alle elezioni, ma per alcune settimane il posto di primo cittadino resta vacante. Nel frattempo si è svolta una manifestazione organizzata dal PCI, in piazza Erbe, dove intervengono almeno duemila di persone. Si chiede l’apertura di un tavolo negoziale e di costruire case popolari, è stata una prima molla per un cambio. Fra i corridoi del palazzo si fanno avanti nuovi democristiani, come Settimo Gottardo, che saranno protagonisti istituzionali del decennio successivo.
Tra il dire e il fare si sceglie di occupare
Tutto questo però non risolve la questione delle Case minime. Torniamo alle parole di chi c’era, dato che per ovvi motivi le cronache giornalistiche non raccontano cosa accadde nei mesi immediatamente seguenti.
«Dopodiché però, da marzo ad ottobre, le cose non si muovevano. Cambia il sindaco, varie promesse ma niente. Ci stavamo avvicinando al nuovo inverno, ci eravamo impegnati su una cosa, quando ci si impegna su una cosa bisogna andare fino in fondo. Soprattutto se ne hai la forza. In quel momento si aveva la forza: data dalla compattezza soprattutto in questo quartiere, dal fatto che la questione abitativa era grave. Era appena entrato in vigore l’equo canone, quindi gli sfratti bloccati venivano sbloccati, iniziavamo ad esserci gente cui il comune non dava le case popolari.
Abbiamo fatto un’inchiesta, individuato 105 alloggi alla Guizza, in via Valgimigli, di proprietà, a quel tempo, dell’impresa Siep (Società Italiana Edilizia Padovana, o qualcosa del genere).L’impresa aveva costruito questi alloggi con l’accordo di venderli a un ente di previdenza, che a quel tempo si chiamava Cassa Pensione dipendenti enti locali. Obbiettivo perfetto: chiusa dal 1978, 105 appartamenti, molto ben attrezzati, con tanto di riscaldamento, videocitofono, ascensore… Di più: l’impresa aveva costruito speculando sul suolo dell’INGAP, fabbrica di giocattoli chiusa nel 1972. Una vera e propria riappropriazione popolare. Fantastico.
Si è deciso che queste case devono essere utilizzate; poi, a partire dal fatto che ci si abita, si apre una trattativa, ci sono tante cose che si possono muovere. Tutti d’accordo, tutti d’accordo; la sera prima arriva un compagno: “Compagni, non si può far niente, la polizia ha circondato il quartiere…” Stava scherzando! Fanculo!
Lì è cominciata la processione. Facendo molta attenzione all’inizio, siamo entrati chiavi in mano, un lavoro perfetto… Macchine che partono coi materassi sopra, quelle robe che vedi nei film. Pensa, hanno occupato anche alcune operaie che, licenziate dall’INGAP, non avevamo nemmeno ricevuto quanto spettava loro, e hanno potuto riprenderselo. Intanto la voce si era sparsa e, accanto agli abitanti delle Case minime, arrivavano le famiglie di sfrattati, i migranti dal sud che non avevano trovato casa. Il guardiano che era lì, e dice: “Che cazzo… ma qui bisogna chiamare la polizia!”. Fai quel che vuoi: bandiere rosse su via Valngimigli».
La mattina dopo la polizia è venuta a prendere i nomi, ma non c’è stata nessuna accusa penale. Unità e decisione popolare sono state la base solida per avere da varie parti, da tutta la sinistra politica e sindacale, in particolare dalla CGIL. Questo ha consentito di aprire una trattativa vera, con la nuova amministrazione, che l’ha aperta con la Cassa pensioni dipendenti enti locali – essendo noi occupanti non potevamo firmare niente. Volevamo firmare un contratto: non volevamo stare gratis! Un contratto in attesa che il comune sistemi le case: la gente non può stare là, il sindaco è responsabile della tutela della salute. A quel punto fare il contratto vuol dire farlo con chi?
La soluzione che si è trovata è stata la classica: il Comune è l’inquilino della Cassa dipendenti enti locali, e fa una sublocazione agli inquilini: non solo agli occupanti, ma anche a moltissimi altri sfrattati e senza casa ai quali non aveva fino ad allora saputo dare risposte… Nel contratto gli inquilini pagavano quel che avrebbero pagato nelle case popolari, con l’accordo che nel momento in cui fossero state pronte le nuove case popolari recuperate loro avrebbero avuto il diritto di ritornare nel quartiere; oppure, se volevano fare il contratto, l’avrebbero fatto direttamente con l’ente proprietario».
Molto è cambiato come conseguenza di quei mesi del 1980: sono arrivati grossi finanziamenti che hanno consentito di ristrutturare le Case minime, e di costruire nuovi blocchi di Edilizia Residenziale Pubblica. Da quel momento il comune ha avuto una politica in parte diversa sui problemi abitativi, si è dotato di un ufficio casa, di una struttura che dovrebbe essere in grado di affrontare le difficoltà ma anche di progettare. A capo fu posto l’architetto Sergio Lironi. Gli occupanti hanno ottenuto, chi in un modo e chi in un altro, una sistemazione degna.
Nel frattempo, anche sulla scia di quel che si è narrato in queste pagine si rafforza in città una nuova pratica, quella di recarsi in Consiglio Comunale per portare nel luogo dove lavora il potere cittadino i problemi della città: non solo Case minime ma anche scuola e forme dell’educazione, nonché problemi sui luoghi di lavoro. Una forma di partecipazione diretta e irregolare ai lavori politici interessante, non fosse altro che per i numeri in cui si dava.
Di fatto, questa lotta ha saputo governare le politiche che il Comune non sapeva o non voleva risolvere, offrendo invece soluzioni abitative adeguate non solo per l’emergenza, ma anche strutturali. Un vero insegnamento per costruire il cambiamento politico.