Il collettivo Mi Riconosci e il censimento dei monumenti femminili in Italia
«Mi Riconosci è un’associazione nazionale che si occupa delle condizioni lavorative dei professionisti dei beni culturali e delle modalità di ricezione del patrimonio storico-artistico. Si batte, in particolare, contro il volontariato all’interno del settore, il cui impiego sregolato favorisce il mantenimento di una condizione generalizzata di precariato e sfruttamento, con salari da fame e contratti capestri» – così Federica Arcoraci, attivista del collettivo, ci introduce l’associazione che si è fatta carico del lavoro di censimento dei monumenti pubblici di soggetto femminile in Italia, condotto tra settembre e ottobre 2021 e i cui risultati si possono consultare nel dettaglio sul loro sito (tutte le opere sono georeferenziate e per ciascuna di esse sono indicati titolo, luogo, autore, anno di inaugurazione e principali caratteristiche). Lo scopo del censimento, spiega Federica, «non aveva come primo obiettivo quello di integrare nuove statue ma di avviare una riflessione su quelle presenti»; che, se escludiamo Madonne, Veneri, Patrie e Vittorie, cioè figure allegoriche, religiose o mitologiche – come ha fatto Mi Riconosci durante il censimento – sono nella quasi totalità dedicate a personaggi maschili.
La riflessione germinale del progetto fu avviata dal collettivo in seguito all’uccisione di George Floyd, morto a causa del trattamento subito durante un fermo di polizia a Minneapolis a maggio 2020, e alle proteste antirazziste del BLM che ne sono derivate, alcune delle quali portarono alla distruzione di statue e monumenti che testimoniavano, celebrandolo, il passato coloniale dell’Occidente (in particolare la statua di Colombo a Richmond e quella del mercante di schiavi E. Colston a Bristol). A Milano, sulla scia delle azioni del BLM, la statua di Indro Montanelli – realizzata da Vito Tongini e inaugurata nel 2006 ai Giardini pubblici di via Palestro durante un evento presenziato dall’ex sindaco di centrodestra Gabriele Albertini – fu ricoperta di vernice rossa e chiosata con le scritte nere “razzista” e “stupratore”. Lo scopo era di richiamare alla memoria e denunciare pubblicamente l’acquisto, rivendicato molti anni dopo dallo stesso Montanelli, della sposa-bambina Destà durante la guerra d’Etiopia.
Le proteste iconoclaste del BLM, precedute e seguite da altre azioni simili (la statua di Montanelli, ad esempio, era stata colorata di vernice rosa lavabile da NUDM l’8 marzo 2019 durante la Giornata Internazionale della Donna), hanno avuto una visibilità globale e fatto discutere a lungo sulla convenienza, il senso e i rischi storici di buttar giù o meno statue emblematiche del mondo di prima (coloniale, razzista e patriarcale). Gli attivisti di Mi Riconosci, in qualità di professionisti dei beni culturali, hanno cercato di entrare nel dibattito pubblico al fine di trovare soluzioni per la gestione del conflitto urbano legato a un simbolo e, più in generale, per problematizzare l’eredità artistica fascista e coloniale. Da qui la riflessione si è poi allargata fino a comprendere il presumibile gender gap osservabile nella statuaria pubblica: quante sono le donne storicamente esistite immortalate da una statua? chi sono? come sono rappresentate? da chi?
«I dati», racconta Federica, «sono stati raccolti attraverso il questionario “Sondaggio sui monumenti pubblici femminili” chiedendo al pubblico di segnalare i monumenti presenti nelle loro città. I monumenti a tutto tondo, le statue e i busti che abbiamo considerato all’interno dell’indagine, tutti datati tra il 1700 e il 2021 e presenti in spazi pubblici come giardini, piazze e strade, sono quelli dedicati a donne realmente vissute, a personaggi letterari o di leggende e a figure anonime collettive (ad esempio la moglie e la partigiana). Abbiamo voluto considerare anche i gruppi di figure anonime collettive (come i monumenti alla famiglia o a categorie di lavoratori) e le statue pubbliche che rappresentano donne e bambine o intendono raccontare tematiche femminili (come Bambina che salta la corda). Oggetto dell’indagine sono state le sculture sicuramente commissionate, o almeno avallate, dalle pubbliche amministrazioni e che sono visibili a chi cammina per le strade. Sono state escluse, oltre alle figure mitologiche, allegoriche e religiose, anche le statue che si trovano in cortili privati, cortili pubblici ma di scuole e ospedali, e nei cimiteri. I risultati mostrano che sono circa 200 i monumenti dedicati a figure femminili in Italia, di cui solo 109 a donne realmente esistite, e che nessuna si trova Padova».
La prima statua di donna in Prato della Valle e il rischio di monumental washing
L’associazione è saltata all’attenzione dei media quando, lo scorso 27 dicembre, due consiglieri di centrosinistra del comune di Padova, Simone Pillitteri e Margherita Colonnello, hanno proposto, tramite mozione consiliare, di intervenire nel complesso monumentale di Prato della Valle per aggiungervi una statua femminile dedicata a Elena Cornaro Piscopia, prima donna laureata al mondo e, in più, proprio nell’Ateneo di Padova. La proposta, avanzata sulla base dei risultati ottenuti grazie al censimento, ha fatto il giro di numerose testate anche internazionali (nytimes, El Mundo, theguardian), soprattutto perché la risposta della cittadinanza non è stata unanimemente positiva. Chi dice meglio di no, come, ad esempio, Carlo Fumian e Andrea Colasio, docente universitario di Storia contemporanea il primo e assessore alla cultura il secondo, argomenta con la necessità storica di conservare intatto «il peso della memoria di pietra»; sono parole di Colasio, che richiamandosi a Mario Isnenghi, dichiara (qui l’intervento completo): «Realizzare lapidi, monumenti, statue, e posizionarli nello spazio pubblico non è mai stata un’operazione neutra. Così come denominare una strada, una piazza: la toponomastica è sempre stata infatti una specifica operazione di politica culturale». E, poco dopo, paragona l’eventuale innalzamento di una nuova statua su uno dei due pilastri vuoti del complesso – risultato del passaggio dell’esercito napoleonico, che fece abbattere dieci statue di Dogi veneziani –, al maldestro tentativo di chi oggi, non conoscendone l’origine, proponesse di «suturare i tagli di Fontana». In compenso, però, avanza la proposta di scovare in città gli spazi adatti per realizzare 78 statue femminili, tante quante sono quelle che circondano l’Isola Memmia in Prato della Valle, magari non di pietra ma di altri materiali, magari di donne non del passato ma più vicine a noi nel tempo (Maria Zonta, Norma Cossetto, le mondine della bassa padovana, ecc.).
Federica ci riassume la posizione del collettivo in merito alle possibilità aperte dalla mozione consiliare e dal dibattito che ne è derivato: «Da una parte accogliamo la proposta avanzata dai consiglieri, poiché stupisce che la sola idea che nel Pantheon padovano possano trovare spazio una o più donne sia in grado di scatenare una disputa così accesa, con richiami ossessivi alla cancel culture e addirittura la proposta di erigere SETTANTOTTO statue in centro città pur di non fare spazio (anzi, donare lo spazio che c’è già) a una sola. Vero, Prato della Valle è un intero delicatissimo, e ogni intervento necessita di un dibattito serio e ampio e di una valutazione tecnica lunga e complessa, che passi per un bando strutturato, evitando mosse politiche o favori ad affidamento diretto. Se infatti esistono (pochi) argomenti per sostenere che Cornaro Piscopia non sia la più adatta – fondamentalmente perché è l’unica donna già omaggiata da una statua a Padova, nel palazzo dell’Università – ancor meno sono gli argomenti validi per sostenere che Prato della Valle sia intoccabile: i tempi sono maturi per affrontare ciò che il XIX secolo ci ha lasciato, per analizzarlo, comprenderlo e agire di conseguenza».
L’associazione è quindi d’accordo con l’aggiornamento della piazza, ma attraverso un processo decisionale il più aperto possibile, che coinvolga non solo l’amministrazione comunale e figure di spicco dell’ambiente politico e accademico, ma anche, e soprattutto, gli operatori dei beni culturali e le forze provenienti dal basso: «Noi non vogliamo le quote rosa nei monumenti e crediamo che, finché il processo decisionale resta all’interno delle amministrazioni comunali, gli spazi pubblici rimarranno caratterizzati, nel loro complesso, da schemi androcentrici e il coinvolgimento di figure femminili nel repertorio figurativo pubblico rimanga insufficiente e fuori luogo. La nostra indagine ha una posta in gioco molto più ampia e punta a mettere sotto inchiesta, in ultima analisi, i significati e le finalità degli interventi celebrativi pubblici nei nostri spazi comuni».
Sul soggetto da omaggiare (Elena Cornaro Piscopia? Le vittime della violenza di genere? Gaspara Stampa? Eleonora Duse?), Mi Riconosci ritiene che si dovrebbe ragionare non tanto sull’inserimento di una statua calata dall’alto (o peggio, dall’alto dei privati), ma su un progetto più strutturato che tenga conto sia della storia di Prato della Valle – la data della collocazione dell’ultima statua risale al 1838 e sarebbe quindi ragionevole che i soggetti femminili da scolpire si collocassero, biograficamente, entro quella data – che della mancanza strutturale di attività di mediazione del patrimonio artistico in grado di permettere a chi vive la città di appropriarsi, conoscendolo, di questo patrimonio.
La conseguenza più evidente è che parzialità e rimozioni storiche (come l’assenza di statue femminili in Prato della Valle) non vengono discusse e problematizzate in processi collettivi, ma ricucite per mezzo di soluzioni scenografiche che abbiano il più alto tasso di risonanza mediatica possibile e che, in più, non incidono su questioni socialmente centrali (gestione dal basso degli spazi pubblici, coinvolgimento dietro compenso dei professionisti dei beni culturali, ecc.); operazione che, in un recente articolo, Mi riconosci definisce monumental washing: «l’operazione con la quale una committenza, sia essa pubblica o privata, commissiona o finanzia la realizzazione di opere pubbliche con intento celebrativo o simbolico al fine di promuovere messaggi sociali di cui non si fa carico con le proprie politiche, o di strumentalizzare o manipolare la memoria di un personaggio, di una categoria o di un evento, talvolta in aperta contraddizione con la realtà storica. […] Un caso eclatante e paradigmatico è la statua a Margherita Hack che verrà presto inaugurata a Milano. La nota scienziata non ha mai nascosto di essere socialista e anticapitalista, un dato che il Comune di Milano ha ignorato affidando la gestione del progetto alla Fondazione Deloitte, la quale fa capo a una potente società di consulenza finanziaria, che opera in aperta contraddizione ai principi in cui credeva Hack».
Altri casi eclatanti di monumenti femminili mal riusciti, ricorda Federica, sono le statue della Spigolatrice e delle giornaliste Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli, entrambe caratterizzate da una rappresentazione ipersessualizzata dei soggetti raffigurati; rischio che potrebbe essere evitato, o quantomeno diminuire, se vi fosse un maggior controllo nel processo di auto-narrazione culturale di una determinata comunità (chi scelgo di celebrare? perché? come?) da parte dei membri della comunità stessa. A questo proposito, Federica sottolinea che «spesso e volentieri nella realizzazione delle statue vi è affidamento diretto da parte di privati e quasi mai finanziamento pubblico; mancano bandi strutturati con linee guida e relative norme».
La Cultura dello sfruttamento
Mi Riconosci, come spiegava Federica all’inizio dell’articolo, è un’associazione che si occupa, oltre che delle modalità di ricezione artistica, anche delle condizioni lavorative degli impiegati nel comparto dei beni culturali. La visibilità ottenuta dal collettivo intercettando la wave dell’androcentrismo di Prato della Valle non ha avuto, tuttavia, l’effetto di portare in primo piano un aspetto centrale del quadro, e cioè che il lavoro di censimento dei monumenti femminili che ha giocato il ruolo di catalizzatore dell’intero processo è il risultato, pregevole per quantità e accessibilità di informazioni, di lavoro volontario. Nel sito di Mi riconosci, alla fine di ogni articolo, leggiamo: «Anche in questi tempi difficili, il nostro impegno non è venuto meno. Ogni giorno mettiamo a disposizione il nostro tempo per offrire informazione e analisi, per costruire un settore culturale più giusto, per noi e per gli altri. Se hai apprezzato quanto letto, se apprezzi il nostro lavoro, se vuoi permetterci di fare sempre più e sempre meglio, SOSTIENICI con una piccola donazione!». La storia dell’associazione, che si trova per intero nel loro sito, nasce nel 2015 da un gruppo di studenti e giovani professionisti legati all’organizzazione studentesca universitaria Link con lo scopo di agevolare l’accesso alle professioni dei beni culturali e, nel 2017, lancia il Patto per il Lavoro Culturale, che inizia così:
L’arte e la cultura nel discorso pubblico, grazie al corredo di retorica romantica di cui sono ammantate, godono del potere magico di rimuovere dalla percezione collettiva gli aspetti meno piacevoli dell’industria culturale, un settore che si regge prevalentemente su lavoro volontario, salari talmente bassi da poter essere considerati, al più, una specie di rimborso spese, e l’idealismo, o la speranza, di chi si trova ad accettare una condizione permanente di semi povertà in attesa di un eventuale upgrade. Questa dinamica di (auto)sfruttamento si osserva bene nel caso della proposta di aggiornare, su presupposti femministi, Prato della Valle: la pagliuzza (tale, però, solo relativamente) della convenienza di aggiungere o meno una statua femminile, argomento succoso e, in fondo in fondo, politicamente innocuo, ha oscurato la trave di come sia emersa, all’attenzione pubblica, l’assenza di statue femminili in città, e cioè, lo ricordiamo, attraverso un sondaggio nazionale creato e diffuso da un’associazione di volontari che si finanzia grazie alle donazioni. Il femminismo mainstream, quello che spesso informa le scelte politiche dei grandi partiti al fine di ottenere consensi facili, è fatto, anche, di queste omissioni.