di Leonardo Mezzalira
Un anno terribile
La terra veneta ha sete. Lo urlano da mesi tutti i giornali, corredando la notizia con fotografie dei canali veneziani a secco, dell’Isola dei Conigli sul lago di Garda ormai raggiungibile a piedi, dei fiumi ridotti a un rigagnolo o completamente privi d’acqua. E la sensazione che le cose non vadano per il verso giusto inizia a farsi strada anche tra chi vive in città e alla carenza d’acqua finora non aveva fatto caso, dal momento che questa continua a uscire dai rubinetti di casa come al solito.
Il fatto è che il 2022 nella nostra regione è stato certamente l’anno più caldo e secco dell’ultimo trentennio; anzi secondo ARPAV potrebbe detenere il record dell’ultimo secolo. In primavera non c’era neve in montagna, le portate dei fiumi erano ridotte ma le temperature elevate richiedevano di iniziare in anticipo il periodo irriguo. Già in maggio è stata dichiarata la crisi idrica, e in giugno l’acqua per l’irrigazione è stata razionata perché non ce n’era abbastanza per gli usi consueti. In luglio la Regione ha concesso di deviare quantità d’acqua dai fiumi in deroga rispetto ai valori del deflusso minimo vitale, che è la quantità che bisogna lasciare al fiume per evitare che subisca gravi danni ecologici. E da allora la situazione non è migliorata molto: le precipitazioni cumulate tra ottobre 2022 e gennaio 2023 sono state nettamente inferiori, in particolare in montagna, rispetto alla media. Certo non l’autunno che ci voleva per rimpinguare le riserve di neve, i bacini montani e le falde dopo l’eccezionale siccità dell’anno scorso.
Naturalmente, la prima domanda che vien da farsi è se nel 2023 avremo una crisi idrica altrettanto o più grave di quella dell’estate passata. Può darsi: dipende da quanto e come pioverà nei prossimi mesi e dalle temperature che ci saranno, e l’andamento degli ultimi anni non ci aiuta a prevederlo. Per citare solo un fatto, nel 2019 abbiamo avuto una primavera tra le più piovose dell’ultimo secolo. Rinunciamo dunque a fare pronostici per l’anno in corso e cerchiamo di mettere a fuoco le tendenze generali, che sono poi quelle che dovrebbero orientare le decisioni politiche e amministrative. E di comprendere quali sono le risposte che abbiamo a disposizione, e se tra di loro ce ne sono di migliori e di peggiori.
Sempre più caldo
Il motore di quello che sta succedendo, naturalmente è il riscaldamento globale. In Veneto si registra «un trend di aumento delle temperature medie pari a +0.55 °C per decennio che, considerando le sole aree pianeggianti (quota inferiore ai 50 m s.l.m.) sale a + 0.6 °C per decennio. Il Veneto appartiene all’area mediterranea, ritenuta uno dei “punti caldi” del pianeta perché l’aumento delle temperature sta procedendo ad una velocità maggiore rispetto alla media globale» (ARPAV).
Fin qui è tutto chiaro: l’esistenza del riscaldamento globale è ormai nota a tutti, così come è accertata la sua chiara dipendenza dalle attività umane. Le conseguenze del riscaldamento del clima sul ciclo dell’acqua, tuttavia, sono meno immediate e meno note. Può sembrare poco intuitivo, dal momento che stiamo parlando di siccità, ma nella nostra Regione la quantità media della pioggia è in leggero aumento, e la stessa cosa succede a livello mondiale, con una tendenza iniziata nel Novecento e particolarmente evidente a partire dagli anni ’80.
L’aumento della media però non garantisce che nel singolo anno cada più acqua, e infatti la variabilità delle precipitazioni da anno ad anno sta crescendo sempre di più. Per dare qualche dato, in Veneto nel 2013 sono caduti circa 1400 mm di pioggia, nel 2014 ne sono caduti oltre 1700, nel 2015 neanche 900. Nel 2022 si è raggiunto il record negativo di 770 circa, ma nel 2019 erano stati 1400, ben oltre la media storica. Allo stesso tempo tende ad aumentare l’intensità degli eventi di pioggia: una delle poche estati normali degli ultimi anni, quella del 2018, è stata seguita dall’uragano Vaia, tra gli eventi più distruttivi che si ricordino in zona, ed è solo il fatto più vistoso di una tendenza che è stata accertata e misurata. Chiaramente pochi episodi di pioggia violenta e concentrata sono controindicati ai fini del mantenimento della stabilità idrica, perché buona parte dell’acqua scorre in superficie e non fa a tempo ad infiltrarsi nel suolo, va a gonfiare i fiumi e poi direttamente al mare.
All’instabilità contribuiscono anche altri fenomeni, più facili da ricondurre all’aumento della temperatura: la riduzione della copertura nevosa invernale e primaverile, lo scioglimento dei ghiacciai e allo stesso tempo l’aumento della necessità di acqua delle colture. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto, in Veneto è rimasto celebre l’autunno 2021, quando le temperature alte hanno costretto a irrigare molte zone agricole fino a tutto il mese di ottobre.
Trattenere l’acqua
In Veneto cade più acqua dunque, ma in modo più irregolare, più difficile da prevedere e più spesso associato ad eventi estremi. Allo stesso tempo ne viene consumata di più perché fa più caldo e l’evaporazione dal suolo e la traspirazione delle piante crescono. È chiaro che su scala globale occorre adottare misure più efficaci per evitare il riscaldamento globale. Ma a livello locale bisogna partire da un dato di fatto: le temperature sono già cresciute, e anche secondo gli scenari più ottimistici continueranno a farlo per un bel po’. Quali strategie possono adottare gli enti gestori a livello regionale per limitare i danni? Su scala locale gli ordini di interventi possibili sono due: trattenere più acqua sul territorio e migliorare la sua efficienza d’uso.
L’acqua che raggiunge il territorio con le precipitazioni, ci dice il direttore di ANBI, l’associazione dei consorzi di bonifica italiani, finisce per il 90% in mare. Potrebbe invece essere immagazzinata in attesa dei momenti di scarsità. Per farlo ci sono essenzialmente due metodi: costruire nuovi invasi in superficie, o ricaricare le falde sotterranee. E su questo punto si sta consumando un primo scontro tra diverse filosofie di gestione del territorio.
Iniziamo dagli invasi. Sul territorio esistono già diversi serbatoi d’acqua: in particolare i numerosi laghi artificiali realizzati per produrre energia idroelettrica, che già da tempo vengono utilizzati in estate nei momenti di carenza idrica (ad esempio il lago del Corlo ad Arsiè, nel bellunese). La loro creazione però ha comportato la realizzazione di grandi dighe, con enormi impatti ecologici e sociali sulle valli interessate. Inoltre il loro uso a scopi irrigui è evidentemente in contrasto con l’uso idroelettrico, tanto che la cosa è materia di conflitto, per esempio, tra il Trentino (che vorrebbe produrre più energia idroelettrica) e il Veneto (che chiede di immettere più acqua nei fiumi prendendola dagli invasi).
Fin dal 2017 ANBI, insieme a Coldiretti, ha presentato un piano per aumentare la capacità del sistema di invasi. Il progetto si chiama “Laghetti” e consiste nella realizzazione di diecimila nuovi invasi medio-piccoli entro il 2030: strutture realizzabili per esempio dentro cave abbandonate, e, prese singolarmente, di impatto molto minore rispetto alle grandi dighe idroelettriche. Per riempire tali invasi, però, bisogna o deviare l’acqua dai fiumi, con il rischio di mettere a repentaglio il deflusso ecologico, o creare nuovi bacini artificiali lungo i fiumi: entrambe soluzioni che, ad esempio secondo la critica del Centro italiano per la riqualificazione fluviale, rischiano di danneggiare la stabilità, la funzionalità e la biodiversità degli ecosistemi fluviali.
Come sottolinea il CIRF, sul territorio c’è già un grande serbatoio idrico naturale, in equilibrio dinamico con il sistema dei corsi d’acqua, ed è lì che bisogna trattenere l’acqua ogniqualvolta sia possibile, anziché isolarla in bacini artificiali. Sono le falde sotterranee, che rappresentano la principale fonte di acqua per usi civili ma sono utilizzabili anche per l’irrigazione estiva, e inoltre alimentano il sistema delle risorgive che è a sua volta una fonte importante di acqua per l’agricoltura. Le falde si ricaricano naturalmente per infiltrazione di acqua dal suolo, dai corsi d’acqua e anche a seguito di alcuni tipi di irrigazione, come quella a scorrimento, ma possono essere ricaricate con metodi ad hoc già ampiamente testati, come la realizzazione di pozzi bevitori e di aree forestali d’infiltrazione. Su questi, secondo voci che si levano dal versante degli studi ecologici, bisognerebbe concentrarsi di più.
Trasformare la campagna
Accanto all’accumulo di acqua, sopra o sotto terra, per fronteggiare la ridotta stabilità della disponibilità idrica sul nostro territorio si può pensare di aumentare l’efficienza del suo utilizzo. In ambito civile gli interventi possono riguardare la riduzione delle perdite degli acquedotti, il miglioramento della loro interconnessione, e interventi che rendano più efficiente il sistema della depurazione delle acque. In ambito agricolo, invece, c’è in gioco una profonda trasformazione della campagna, e conseguentemente da un lato del sistema produttivo, dall’altro del paesaggio.
Come esempio si può citare il passaggio da colture estive ad elevato fabbisogno idrico, come il mais e il pomodoro, a colture a ciclo autunnale-primaverile come il frumento e l’orzo. Accanto a questo processo, che è già in atto, si fa strada sempre di più l’idea di tornare a forme di consociazione tra colture erbacee e alberi: quelli che oggi si chiamano sistemi agroforestali, ma che in parte coincidono con forme tradizionali di uso del suolo che sono state più o meno abbandonate nel corso degli ultimi settant’anni (parliamo per esempio delle siepi campestri e frangivento e dell’alternanza tra filari di alberi e fasce coltivate). La problematica principale relativa a queste trasformazioni è quella economica, perché se sul lungo periodo possono essere sostenibili, la trasformazione richiede costi e adeguamenti a livello sia di mercato, sia di politiche agricole e di sostegno.
C’è poi il tema delle trasformazioni irrigue, sul quale si gioca un altro conflitto tra punti di vista diversi. La sistemazione tradizionale della campagna prevede, in ampie zone del Veneto, un sistema capillare di canaline di adduzione e un complesso gioco di pendenze volto a garantire la possibilità di irrigare i campi grazie alla sola forza di gravità. L’irrigazione a scorrimento, l’unica possibile in molte aree prima dell’arrivo dei macchinari moderni, richiede molta acqua, ma alimenta un paesaggio e una biodiversità unici e contribuisce in modo sostanziale alla ricarica delle falde, il che significa anche che se effettuato nell’alta pianura alimenta la fascia delle risorgive.
La tendenza attuale porta alla sostituzione dell’irrigazione a scorrimento con l’irrigazione a pioggia, effettuata con apposite apparecchiature fisse o mobili che prelevano l’acqua da un canale o dalla falda e la spruzzano sulle colture. Si tratta di un sistema che consuma meno acqua, e per questo motivo in molte aree del Veneto è in atto la sostituzione delle canaline di adduzione con impianti di distribuzione in pressione, adatti all’irrigazione a pioggia. Se però questa trasformazione dovesse generalizzarsi, riguardando anche i territori di alta pianura a monte della fascia delle risorgive, una fonte essenziale di infiltrazione nel suolo e di ricarica delle falde verrebbe compromessa, e uno degli ecosistemi di pianura più interessanti della regione, già a rischio, rischierebbe di scomparire.
Supercommissario in arrivo?
È evidente che la gestione della risorsa idrica in Veneto nell’epoca del riscaldamento globale richiede un complesso bilanciamento di considerazioni ecologiche, economiche e gestionali. Viene ora da chiedersi quali siano i soggetti a cui questo compito è affidato, e come siano coordinati tra di loro. Ad occhi profani infatti la gestione dell’acqua in Veneto appare nelle mani di una pletora di soggetti diversi, con competenze in parte sovrapposte.
Da una parte ci sono una decina di Consorzi di bonifica che gestiscono soprattutto gli usi agricoli, dall’altra tredici gestori del Servizio idrico integrato, responsabili della distribuzione civile e industriale, delle fognature e della depurazione. C’è la Regione, a cui è demandata la regolamentazione delle estrazioni e l’attuazione delle politiche comunitarie, e ci sono due grandi Autorità di bacino, quella delle Alpi orientali e quella del fiume Po, responsabili per esempio della questione del deflusso ecologico. C’è l’ex Magistrato alle acque competente sulla Laguna, soppresso e mai ben riorganizzato a seguito delle indagini sulle tangenti e sul MOSE. Tra gli altri enti figura per esempio l’ARPAV, con ruolo soprattutto di monitoraggio.
Nello scorso luglio gli interventi per l’emergenza idrica sono stati affidati, con atto del governo, direttamente a Zaia con una nomina a commissario. Già questo sembra un segnale del fatto che le strutture esistenti non sono considerate in grado di gestire la contingenza senza l’intervento di un soggetto con poteri straordinari. Il Corriere del Veneto dello scorso 25 febbraio, inoltre, riferisce l’arrivo di un supercommissario governativo, lo stesso alla cui nomina il governo stava lavorando il primo di marzo, accennando alla scarsa capacità di coordinamento delle competenti Autorità di bacino.
Come si svilupperà la questione, lo vedremo nei prossimi mesi. Con la speranza che il commissariamento non serva, come spesso è successo in passato, a rendere più opaca e arbitraria la gestione dei molti fondi che sicuramente verranno stanziati per far fronte al ripetersi di simili “emergenze”, probabilmente destinate a diventare sempre più simili alla normalità.
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