Seize the Week è una rubrica che, a cadenza settimanale, riporta i fatti più significativi avvenuti nelle città e nei territori del Veneto. Un’informazione sintetica, indipendente e critica su ciò che accade in regione: fatti politici, realtà di movimento, scioperi, problemi ambientali e molto altro. Questo numero della rubrica si riferisce al periodo dal 15 al 20 gennaio 2024.
Chi siete? quanti siete? un fiorino!
A partire dal prossimo 25 aprile, in certe giornate considerate «calde», entra in vigore il contributo di accesso per il centro storico di Venezia: per accedere alla città bisognerà pagare online una tassa straordinaria di 5€, inserendo i propri dati personali e ottenendo in cambio un codice QR da mostrare in caso di controlli. La piattaforma per le prenotazioni è attiva da questo martedì. Dal punto di vista dell’amministrazione il contributo dovrebbe servire a regolare i flussi turistici, a finanziare interventi di gestione e miglioramento della città e a fornire in anticipo informazioni sull’entità degli arrivi previsti. Di fatto però si tratta di un passo in avanti nella trasformazione di Venezia da città, con un suo tessuto sociale, a grande museo o parco divertimenti a cielo aperto, con i residenti ridotti a comparse di uno spettacolo di bassa qualità (d’altronde, se Venezia fosse ancora una città italiana, non dovrebbe valerci l’articolo 16 della Costituzione?).
Se ci si ferma a dormire a Venezia, d’altronde, il biglietto non si paga. L’intenzione è quella di incentivare i turisti a usare le strutture ricettive: è da molti anni che i residenti vengono espulsi dal centro storico a favore di hotel e airbnb, una situazione aggravata dall’enorme costo degli affitti e dall’estrema inerzia dell’amministrazione nell’assegnare le case pubbliche sfitte agli aventi diritto. Proprio nel 2023 il numero di posti letto turistici nella Venezia insulare ha superato quello degli abitanti. Non è difficile (e qualcuno infatti lo fa) immaginare una città diversa, in cui si ponga un freno alla turistificazione e si metta mano alle misure necessarie per ripopolare il centro storico di veneziani e veneziane, di lavoratori e di studenti.

Tanto rumore per nulla
Lo scorso 16 gennaio è stata votata in Consiglio regionale una legge di iniziativa popolare che mirava a regolamentare i tempi e i modi dell’esame delle domande di suicidio medicalmente assistito presentate alle ASL del Veneto. La legge non introduceva nessuna novità: la possibilità di chiedere il trattamento per la morte volontaria per i malati con patologie irreversibili è già realtà in tutta Italia, la stabilisce una sentenza della Consulta del 2019. La proposta votata in Veneto si sarebbe limitata a regolamentare la materia, per esempio fissando a 27 giorni il termine entro il quale le Asl devono dare una risposta ai malati che chiedono di accedere al trattamento.
A promuovere la legge (in diverse Regioni italiane) era stata l’associazione Luca Coscioni, e pare che in Veneto sia stata esaminata prima che altrove per via di una legge che obbliga a votare entro sei mesi le proposte di legge popolari. Il presidente Zaia si è schierato a favore, ma lasciando libertà di coscienza ai suoi consiglieri. Il risultato: la legge non è passata per un voto, a causa di una spaccatura del centrodestra (Fdi e Fi contrari, il presidente Luca Zaia e parte della Lega favorevoli, alcuni leghisti franchi tiratori) e dell’astensione della consigliera del PD Anna Maria Bigon, che sostiene di aver votato «secondo coscienza» – allineandosi di fatto alla retorica dei peggiori movimenti pro-vita.
Passato indebitamente come un voto pro o contro l’eutanasia (persino Zaia si è indignato per la quantità di disinformazione che si è accumulata intorno alla proposta di legge), il fatto ha tenuto banco sulla stampa locale e nazionale per tutta la settimana; si paventano implicazioni sulla ricandidatura di Zaia, sull’integrità del PD, sulla tenuta della maggioranza regionale. Prevediamo che a breve verrà completamente dimenticato.

Sulle orme di Vasco de Gama
Rispetto ai livelli precedenti al 7 ottobre, il transito di navi merci dal Mar Rosso al Mar Mediterraneo si è ridotto di oltre la metà. A causare tale flessione, detta «crisi di Suez» dal nome del canale costruito a metà Ottocento con soldi francesi (e attraverso cui ad oggi passa un terzo del commercio mondiale), sono state le azioni di disturbo del gruppo Houthi nello Yemen a seguito del genocidio perpetrato da Israele nei confronti della popolazione di Gaza.
Ora la crisi nei trasporti si sta riflettendo, a quanto pare, anche in Veneto, con ritardi nelle consegne di gas naturale liquefatto proveniente dal Qatar al rigassificatore di Rovigo. Da quando a causa della guerra in Ucraina si sono ridotte le importazioni di gas russo, infatti, per l’Italia ha assunto particolare importanza l’importanzione di gas naturale liquefatto via nave dai Paesi mediorientali. In questo processo giocano un ruolo essenziale i rigassificatori, che sono situati lungo le coste e convertono il gas liquefatto nel combustibile richiesto dalle nostre attività produttive.
Ebbene, il rigassificatore più grande d’Italia si trova in provincia di Rovigo, fornisce il 12% del fabbisogno energetico nazionale e si rifornisce direttamente dal Qatar. Peccato che oggi il Qatar, per non rischiare danneggiamenti all’altezza dello stretto in Yemen, non mandi più navi nel Mediterraneo attraverso il canale di Suez: invia invece le sue navi in Europa per la rotta che circumnaviga l’Africa via Capo di Buona Speranza, un viaggio chiaramente molto, molto più lungo. E il gas a Rovigo non arriva.
Ma non è questo l’unico interrogativo che l’«emergenza» Suez, in combinazione con la guerra in Ucraina, ha posto ultimamente all’economia veneta. Pare che si tema la crisi per tutto il settore dei trasporti, e quindi per tutte quelle aziende che, per risparmiare, hanno frammentato la loro produzione delocalizzando importanti segmenti in Paesi lontani. La parola d’ordine? Il reshoring: «riportare a casa» le catene del valore, ridurre la frammentazione della produzione per essere meno vulnerabili in tempi di percepita instabilità politica ed economica. Cercare, insomma, di comprare da fornitori più vicini, i cui container arrivino puntuali senza venire ammaccati dalle bombe yemenite.

Dai diamanti non nasce niente
Vicenza è la terza provincia italiana per esportazioni dopo Milano e Torino. Da settant’anni ospita un’esposizione annuale del settore orafo, che oggi si chiama VicenzaOro e in realtà è spalmata nel corso dell’anno con tre momenti principali (intorno a gennaio, giugno e settembre). Inutile dire che nel 2024, in occasione del settantesimo anniversario, per annunciare la manifestazione si usano toni ancora più magniloquenti del solito.
Nel frattempo a Gaza si muore sotto le bombe di Israele, grazie all’appoggio garantito dai governi occidentali e soprattutto degli Stati Uniti. Ma che cosa c’entra, si dirà. Il fatto è che nella fiera di Vicenza (città che ospita due basi militari statunitensi) il governo e le imprese orafe israeliane hanno un ruolo di estremo spicco. E l’edizione di questi giorni, VicenzaOro January, non fa eccezione: a Israele è dedicato un intero padiglione, che avrà in particolare la funzione di promuovere il suo commercio di diamanti, una fonte di profitto che contribuisce in modo sostanziale al finanziamento dell’esercito israeliano e delle sue operazioni militari.
Per questi motivi, sabato 20 gennaio a Vicenza si è svolta una manifestazione nazionale chiamata dalla Comunità Palestinese del Veneto a cui hanno partecipato diverse realtà della regione, tra cui i Centri Sociali del Nordest. Presso la Fiera si è arrivati ad uno scontro tra polizia e manifestanti, mentre sui social e sui giornali la manifestazione è stata derubricata da membri di partiti diversi, come La Russa e Fassino, a esplosione di odio antisemita.

A scuola di sfruttamento
Dopo le prese di posizione contro il docente tutor, di cui abbiamo dato conto su Seize the Time, la scuola veneta si dimostra freddina anche nei confronti delle nuove iniziative del ministro Valditara. Alla ridicola proposta del «liceo del Made in Italy», infatti, hanno aderito solo tre istituti in tutta la regione, e anche l’istituto tecnico di quattro anni anziché cinque ha avuto scarso successo, con solo sei scuole aderenti nel territorio regionale.
Non ci illudiamo: è colpa soprattutto del pessimo tempismo del Ministero, che ha dato pochissimo tempo alle scuole per far partire le iscrizioni al nuovo indirizzo (anche se l’assessora Donazzan è convinta che ci abbiano messo lo zampino anche «i soliti oppositori ideologici e politicizzati»).
Ci resta da sperare che, se sono poche le scuole che hanno attivato questi indirizzi, anche in queste non si raggiunga il numero minimo di iscrizioni per farli partire. Perché il compito della scuola non è strizzare l’occhio alle imprese, non è formare lavoratori e lavoratrici pronti prima possibile a farsi sfruttare, ma – come abbiamo scritto in un nostro recente articolo – «formare cittadine e cittadini, che sanno stare al mondo, che cercano di convivere, che provano ad essere felici e che sanno anche formarsi e difendere i propri diritti, compresi quelli lavorativi».
Le notizie riportate sono tratte da articoli pubblicati in quotidiani regionali e provinciali e altre testate, in particolare su Il Mattino di Padova, Il Corriere del Veneto, La Nuova di Venezia, Il Gazzettino, Il Giornale di Vicenza, Venezia Today nella settimana tra il 15 e il 20 gennaio 2024. Sono state consultate anche le fonti linkate.