di Chiara Bacchi
Basta aprire qualunque giornale, da un paio di mesi a questa parte, per leggere della tensione crescente tra Regione e Medici di Medicina Generale. Le cronache riportano le proteste esasperate di chi lavora in un sistema sanitario in crisi. Il primo di marzo, la FIMMG (Federazione Italiana dei Medici di Medicina Generale) proclama lo stato di agitazione. Denunciando un carico burocratico e amministrativo insostenibile e la carenza di tutele, SMI (Sindacato dei Medici Italiani) e SNAMI (Sindacato Nazionale Autonomo dei Medici Italiani) dichiarano, in seguito all’assemblea generale tenutasi a Padova il 25 marzo, di dover “scioperare per farsi ascoltare”. Tra le ragioni principali la scarsa disposizione all’ascolto da parte della Regione, il mancato coinvolgimento dei medici stessi nelle politiche regionali e tutte quelle condizioni che costringono i pazienti a rivolgersi al privato per le prestazioni sanitarie di cui necessitano. A generare ulteriore frustrazione contribuisce la tendenza, da parte delle politiche regionali, evidente secondo i sindacati, a trascurare l’assistenza primaria ed il campo della medicina generale.
Nel frattempo, CoVeSaP (il Comitato Veneto per la Sanità pubblica) si prepara a scendere in piazza la mattina di sabato 15 aprile, a Vicenza, per ricordare alla cittadinanza che “se la salute è un diritto, la difesa della sanità pubblica è un dovere”. Si manifesta, recita l’appello, “per il diritto ad un servizio sanitario pubblico, gratuito e universalistico”. Un’affermazione decisa – o un grido disperato? – fa da slogan alla prossima mobilitazione del Comitato Veneto per la Sanità Pubblica, che torna a puntare i riflettori sulle condizioni critiche in cui versa la sanità pubblica in Veneto. Da un lato, l’appello ricorda alla cittadinanza la precarietà di un sistema, quello appunto della sanità pubblica, in lento deterioramento in Italia e in Veneto; dall’altro lato, esorta a rivendicare la non negoziabilità di un diritto costituzionale quale quello alla salute.
Non è la prima volta che l’attenzione in Regione viene portata su questo tema. Il 9 aprile 2022 CoVeSaP scendeva in piazza denunciando l’impoverimento della sanità pubblica e la sua graduale privatizzazione in Italia. A distanza di un anno, davanti all’evidente mancanza di volontà politica rispetto a un cambio di rotta, il comitato si prepara a manifestare di nuovo. Commentando l’appello, la Dottoressa Orianna Zaltron, di Covesap Alto Vicentino, rievoca l’esperienza della pandemia come una lezione inascoltata: «Comprensibilmente, la pandemia aveva assorbito tutte le attenzioni, allo stesso tempo insegnandoci molto sull’importanza della sanità pubblica ed evidenziando assetti gestionali poco funzionali. Ci aspettavamo che la Regione, che governa la sanità, avrebbe preso in considerazione e imparato da quanto accaduto nel periodo del covid».
Privatizzazione in sanità: un fenomeno sfaccettato
L’auspicio era, insomma, che la politica avrebbe imboccato la strada di un potenziamento del servizio pubblico. Ma l’orientamento sembra essere opposto: la Regione prosegue proprio in quella direzione che il Comitato – come le altre sigle sindacali menzionate sopra – teme e contesta da anni: è inequivocabilmente la direzione di una sempre più evidente apertura al privato. Un privato il cui avanzare strisciante si declina in diverse forme: ce lo dimostra lo stesso Piano Socio-Sanitario 2019-23 regionale (è il documento che individua gli indirizzi di programmazione socio-sanitaria della Regione per quel quinquennio) dove, non a caso, il privato accreditato viene inserito proprio tra i soggetti che possono occuparsi della gestione della cronicità. Sembra introdursi cioè la possibilità che i soggetti privati accreditati intervengano rispetto a quelle malattie che richiedono un’assistenza a lungo termine.
Ma /il riferimento contenuto nel Piano non è l’unico segno che la medicina di prossimità è insidiata dal privato: i giornali raccontanoil Veneto come un territorio costellato di farmacie e poliambulatori nelle mani di potenti holding, dove si è assistito alla comparsa, soprattutto nel Trevigiano e nel Vicentino, dei primi ambulatori medici a pagamento. Tra le aziende coinvolte spiccano i nomi di MipMedical e Venetalab (laboratorio di analisi con sede a Breganze), insieme a quelli di finanziarie come Hippocrates e NeoApoteke, la cui espansione è stata più volte denunciata alla stampa dalle associazioni dei medici.
Soggetti come quelli appena menzionati si inseriscono in un sistema già fortemente in crisi e appesantito specialmente sul piano del personale sanitario.
«Negli ultimi 10 anni» osserva Salvatore Lihard, membro del CoVeSaP e del Movimento per la Difesa della Sanità Pubblica a Veneziana, «il Sistema Sanitario Nazionale ha fatto da bancomat alle varie leggi di bilancio, perdendo circa 37,5 miliardi di euro. Da ricordare, poi, che nel 2023 avremo una spesa che scenderà a 131,274 miliardi. Ma già nel 2016 (secondo i dati Crea) la spesa sanitaria, tra pubblica e privata, era complessivamente inferiore del 32,5% rispetto a quelli dei Paesi dell’Europa Occidentale. A questi dati va aggiunto che la riduzione del finanziamento, i blocchi del turnover, i mancati rinnovi contrattuali e la trascurata programmazione dei nuovi specialisti hanno determinato prima una carenza quantitativa e adesso, soprattutto dopo la pandemia, una crisi motivazionale. Il sommarsi di tutti questi elementi ha come conseguenza da una parte la scelta di disertare alcune professioni (ad esempio, l’indirizzo di scienze infermieristiche) e specialità mediche (come la emergenza d’urgenza); dall’altra induce medici a lasciare le strutture pubbliche per quelle private, o addirittura per l’estero. Non a caso, negli ultimi anni è aumentato a dismisura l’uso dei cosiddetti “gettonisti”: professionisti assoldati dalle cooperative private che, per coprire turni negli ospedali, vengono affiancati ai loro colleghi dipendenti delle ULSS».
Di fatto, quindi, si continua ad eludere il problema centrale, che è quello del personale. Spiega Zaltron: «così come se ne vanno dal sistema sanitario pubblico, i professionisti sono restii ad entrarci se sono neolaureati». Quali quindi i provvedimenti presi per alleggerire carichi di lavoro insostenibili? «Per azzerare le liste d’attesa, in crescita già durante il covid, si sono destinati milioni di euro a strutture private».
Una questione di principio.
Vale la pena fermarsi a riflettere sul filo che lega i fenomeni appena descritti, individuando il nesso che mette in relazione espansione delle finanziarie, scarsa resistenza della politica ad un processo di smantellamento della sanità pubblica e il progressivo deteriorarsi delle politiche che avevano orientato i padri e le madri costituenti nel definire la salute come diritto fondamentale degli individui. È importante interrogarsi sul grado di compatibilità del fenomeno di privatizzazione che stiamo descrivendo con la legge 833, che nel 1978 istituisce il Sistema Sanitario Nazionale, mettendo a centro il concetto di salute come diritto fondamentale dell’individuo, uguaglianza, equità.
Si tratta di principi complessi e, nel più vero senso del termine, profondi, nel senso che mirano a definire in profondità le strutture di una parte importante della nostra società: quella che ruota attorno al diritto alla salute. Per come sono stati definiti, essi si pongono inoltre in evidente contrasto con un sistema, quello dell’impresa capitalistica, che mira alla massimizzazione del profitto e lo antepone alla vita delle persone e all’interesse della collettività. Principi che non dovrebbero essere alla mercé del PIL regionale o dell’ambiziosa mentalità aziendalistica di chi fa del diritto alla salute un business e del servizio sanitario un prodotto di mercato, trasformando un diritto in un privilegio.
«Da ricordare» puntualizza Lihard in riferimento alla stessa legge «che la grande riforma sanitaria nacque in un contesto politico dove forti erano i movimenti di lotta, le mobilitazioni studentesche e le rivendicazioni operaie. Non a caso, la 833 fu preceduta nello stesso anno dalla legge 194 e dalla 180 (legge Basaglia), quindi dall’inizio della chiusura dei manicomi».
«La mia opinione» prosegue «è che il processo di smantellamento della sanità pubblica sia stato avviato nel corso degli ultimi anni per l’assenza di conflittualità sociale e per l’idea propria dei partiti conservatori e riformisti, che una buona sanità potesse reggersi su due pilastri: quello del pubblico e quello del privato».
Un pubblico che ha tutta l’aria di essere stato ridotto, commenta Zaltron, «ad un ente solo burocratico utile a gestire i rapporti e le convenzioni col privato. Nei decenni scorsi si trattava di un privato sociale, quindi no-profit, mentre il cambio radicale avvenuto durante la pandemia ha aperto le porte al profit: ovvero, tutti i soggetti privati che vengono a convenzionarsi col pubblico vengono pagati con soldi pubblici e con le nostre tasse».
Cosa ci dicono i dati
Lihard chiarisce: «quando diciamo che il grande business della salute è arrivato anche nel Nord-Est, parliamo di un totale di 729 società (dal Veneto, al Friuli al Trentino-Alto Adige), che producono ricavi per 1,68 miliardi di euro. Nella classifica nazionale primeggia il Gruppo Salus di Verona, punto di riferimento per i grandi gruppi nazionali da Garofalo al Centro di medicina di Vincenzo Papes. Solo a Nordest operano, secondo i dati di InfoCamere Movimprese, oltre 7 mila imprese nel pianeta sanità. Colmo dei colmi: a Venezia, il Direttore generale della AULSS3 (azienda pubblica!) è sempre presente alle inaugurazioni di Centri sanitari privati».
«D’altra parte – aggiunge – il forte aumento delle attività sanitarie private (parliamo di medicina specialistica, radiodiagnostica e di laboratorio) si è indubbiamente verificato all’indomani del Covid. In quella fase sono emerse, in tutta la loro evidenza, le criticità dell’assistenza pubblica: a partire dalle lunghe liste di attesa, fino alla carenza crescente dei medici di medicina generale».
I numeri, insieme alle testimonianze di chi quotidianamente si confronta con un sistema in rapido deterioramento e con una classe politica riluttante all’ascolto, non lasciano dubbi su una degenerazione dell’aziendalismo nella sanità che pure la Regione continua a non riconoscere. La posizione dell’assessora regionale alla Sanità, Emanuela Lanzarin, è stata di smentire fermamente le denunce di sindacati e comitati. Se non sarà la classe politica ad agire, dovranno farlo le cittadine e i cittadini. Perché se la salute è un diritto costituzionale, allora non può trasformarsi in un privilegio per pochi che possono permetterselo. Eppure, spiega Lihard «nel 2019, ogni italiano ha speso in media 640 euro per curarsi, cioè per ricevere cure necessarie che avrebbero dovuto essere fornite dal sistema sanitario nazionale: si parla di prestazioni diagnostiche, curative, riabilitative o preventive, la fisioterapia, le visite specialistiche».
Costituzione, giustizia, coscienza: e l’articolo 32?
Non è difficile allora vedere come lo smantellamento della sanità pubblica, che passa attraverso tutte le problematiche emerse dalle parole degli intervistati, abbia ha come esito una discriminazione su base classista dell’accesso alle cure che compromette, nel loro significato profondo, i principi della nostra costituzione. Fra tutti, l’articolo 32 della Costituzione italiana sancisce: “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. E diritto alla salute, come viene ricordato nell’appello del Comitato, è anche il diritto ad un ambiente salubre. Un diritto universale, garantito a tutti gli individui, sul quale non si può transigere.
La difficoltà sta nel capire l’antifona; la sfida, nel non scivolare nella cosiddetta sindrome della rana bollita, di cui parla Noam Chomksy nel saggio Media e potere. Una serie di esperimenti ha smentito la validità scientifica di questa metafora (un sistema di termoregolazione interna guida il suo istinto e la fa saltare fuori dall’acqua calda!), citata a più riprese nella storia del discorso ecologista. Questo non compromette la sua efficacia nel metterci in guardia: l’assuefazione ad dato contesto può essere tale da far scemare la nostra capacità di reagire, lasciandoci inerti davanti a ingiustizie di cui di giorno in giorno leggiamo e sentiamo raccontare, senza rimanerne scottati. Ma il diritto alla salute riguarda tutte e tutti, come il diritto a vivere in un ambiente salubre e il dovere di opporsi alle disuguaglianze di salute. Lo stesso sistema che fa della tutela ambientale uno slogan da campagna elettorale e non un obiettivo prioritario a beneficio della collettività.
«Le persone devono prendere coscienza del problema» conclude Zaltron «perché non saranno i nostri politici a farlo. L’unica speranza è che la popolazione riconosca l’importanza del Servizio Sanitario Nazionale, che è stato il volano dello sviluppo dell’Italia. L’alternativa è quella di impoverirsi, spendendo per la propria salute, secondo la modalità prevista dal cosiddetto out of pocket e dal modello americano. “Se la salute è un diritto, la difesa della sanità pubblica è un dovere”».
La giustizia sanitaria è anche giustizia sociale. Il sistema che la minaccia non è un recipiente da cui possiamo tirarci fuori in un balzo come la rana di Chomksy, ma una struttura rispetto a cui occorre prendere coscienza, indignarsi per organizzarsi, accorgersi di essersi scottati prima che le ferite diventino inguaribili.
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