Mentre scriviamo queste righe proviamo ad immaginare quali saranno i discorsi che, in occasione della Festa dei Lavoratori, giungeranno alle nostre orecchie. Siamo in un momento in cui di lavoro si parla moltissimo, nel bel mezzo della maggiore crisi economica che l’Italia conosca dal 1945. È un momento drammatico, in cui lo Stato ha dovuto ricorrere a redditi accessori per tamponare la mancanza di liquidità delle famiglie, mentre quei tabù cari al neoliberismo, fino a qualche mese fa certi come il sorgere del sole, sembrano vacillare sotto le spinte della necessità.
Alla luce della crisi profonda del sistema occupazionale e al cavalcante depauperamento dello strato sociale medio-basso, si sentirà dire da più voci che il miglior regalo per la Festa dei Lavoratori è quello di poter tornare al lavoro.
Da un mese e mezzo circa siamo in lockdown. Le imprese hanno chiuso, i flussi produttivi sono bloccati, i contagiri dei fatturati sono fermi. (Così ci dicono). Confindustria parla di crisi di liquidità, ha preteso e pretende aperture. Le conseguenze criminali delle pressioni esercitate sul comparto produttivo nel bergamasco non hanno minato la credibilità dei leader industriali. Sui bracci della bilancia sono stati messi profitto da una parte, salute dall’altra; l’ago, che a marzo riconosceva i diritti della seconda, sta di nuovo spostandosi verso il centro.
Sui bracci della bilancia sono stati messi profitto da una parte, salute dall’altra; l’ago, che a marzo riconosceva i diritti della seconda, sta di nuovo spostandosi verso il centro
Il panorama cambia giorno dopo giorno in modo imprevedibile, mentre si ricomincia a parlare di forza del modello veneto. Quel che possiamo fare è il punto su quanto è accaduto nella nostra regione; provando a illuminare, da un lato, le contraddizioni più evidenti e, dall’altro, le nuove modalità che, emerse con la gestione dell’emergenza, potrebbero diventare prassi abituale nell’organizzazione del lavoro. Procediamo per parole chiave.
Sciopero. Il grande assente nell’informazione degli ultimi due mesi è lo sciopero; eppure non è andata proprio così. Fra il 15 e il 22 marzo una grande ondata di scioperi, a partire dalle grandi aziende del Veneto orientale (Fincantieri, Electrolux) si è diffuso in molte aziende dell’indotto e della logistica, spontaneamente o grazie al grande lavoro dei sindacati di base (USB, ADL, CUB). In altre realtà i lavoratori hanno risposto all’attacco alla salute con l’assenteismo di massa, con punte del 22-23% in molte fabbriche.
Lockdown. Semplicemente, è fallito. Le aziende avrebbero dovuto chiudere in relazione ai codici ATECO. Solo l’indispensabile sarebbe restato aperto.
Ma che cos’è indispensabile nel nostro mondo complesso? Una domanda potenzialmente di carattere filosofico si è tramutata in un puro cavillo burocratico da aggirare con la consueta arguzia imprenditoriale. Così le scrivanie delle prefetture venete si sono viste inondare da 11000 autocertificazioni per apertura in deroga. In pratica hanno potuto dire: «No; svolgiamo attività essenziali, dunque teniamo aperto» alle Prefetture l’onere di dimostrare il contrario… Auguri. Come rispondere a 11 migliaia di domande, tutte da analizzare? Difficile, lungo, oneroso. Nel frattempo ciascuno faceva a gara per avere un appalto o un ordine da attività sanitarie o agroalimentari, così da giustificare la produzione. Due teli per l’ospedale in una fabbrica chimica con 20 dipendenti. Cuscinetti a sfera per i trattori, fondamentali per il lavoro nei campi. E così, senza troppe difficoltà, le attività produttive sono rimaste aperte.
Smartworking. Innanzitutto un chiarimento: il telelavoro è normato secondo un preciso accordo sindacale, lo s. (che esiste dal 2016) è un contratto privato fra datore e lavoratore. Alcune differenze banali. Il telelavoro prevede una serie di diritti e garanzie per il lavoratore o la lavoratrice: separazione tra attività lavorativa e quotidiana, obbligo del riposo, tutela della salute, fornitura della strumentazione. Lo s. è invece stato venduto come il massimo della flessibilità per il dipendente: potrebbe lavorare anche godendosi l’aria aperta in un parco. Si può così felicemente lavorare anche da casa, risparmiando tempo e riducendo l’inquinamento automobilistico. Di fatto con lo s. il rischio di sfruttamento è altissimo: mancanza di sicurezza, stress, alienazione, mancanza di controllo sugli orari, reperibilità senza limiti. Durante la crisi da Covid-19 è stato sperimentato a livello di massa, già alcune aziende fanno sapere che vorrebbero ora utilizzarlo come la normale forma lavorativa, pare che con lo s. la produttività salga del 5-6% e che le aziende possano pensare di risparmiare sul costo dei locali: meno lavoratori in sede, meno spazi da pagare. Forse i tempi rapidi richiesti dall’emergenza hanno obbligato alla scelta dello s., ma prima di vedercelo imporre come soluzione del futuro bisognerà ragionare su alcune tutele e quindi puntare, almeno, a un accordo tra lavoratori e parti datoriali, evitando il rischio del contratto individuale.
Disoccupazione. I dati sono pubblici, ma riflettiamoci brevemente. Secondo Veneto Lavoro fra la fine di febbraio e la fine di aprile, fra contratti non rinnovati e mancati, si sono persi 48-50.000 posti di lavoro, si parla di circa 2,5-3% dei lavoratori dipendenti. Questo dovrebbe dare un’idea della catastrofe verso cui rischiamo di precipitare. Soprattutto se teniamo conto del danno insondabile subito da lavoratori in nero, ma anche Partite Iva – in particolare gli autonomi di seconda generazione. Ci dovremmo forse aggiungere anche quell’universo di lavoratori che figura tra gli imprenditori, ma che ha una posizione di grande fragilità all’interno del mercato: bottegai, piccoli ristoratori, artigiani…
CIG e FIS. Il mercato suggerisce che l’unico modo per salvare il lavoro sia tutelare l’impresa. Cassa integrazione e Fondo integrativo salariale sono gli strumenti per farlo, soldi della collettività trasformati in liquidità per le imprese. Il mercato, però, ci dice anche che gli utili si dividono tra i soci, non tra lavoratori. Questo è il cortocircuito, la falla del sistema, che ancora una volta si prova a oscurare, proprio agitandoci sotto il naso la crisi occupazione verso cui stiamo precipitando. Tradotto in maniera brutale. Quando l’impresa va bene i profitti vanno nelle tasche dei soci, mai in quelle di lavoratori e lavoratrici. Chi rischia di più, guadagna di più, questa la regola di base. Quando però l’impresa va male arrivano i soldi pubblici, altrimenti il danno per la collettività sarebbe troppo grande.
Soldi. Che non arrivano. Il decreto Cura Italia impone che se l’azienda fa ricorso allo strumento della CIG o del FIS, deve anticipare i soldi degli stipendi, rispettando le consuete tempistiche per il pagamento dei propri dipendenti. Quanti stanno ancora attendendo gli stipendi di marzo? Probabilmente la dirigenza ha risposto che la responsabilità è da imputare alle tempistiche dell’INPS. Quanti altri invece hanno sentito i loro titolari rassicurarli sul fatto che l’azienda avrebbe anticipato gli stipendi senza attendere le tempistiche dello stato? Non è buon cuore, è obbligo di legge.
CIG, segna CIG! Stanno già arrivando le prime segnalazioni di abusi, spesso legati a doppio filo allo smartworking. Lavoratori messi in CIG che continuano però a lavorare regolarmente, tentativi di finti part-time. «Segna solo metà delle ore, le altre le mettiamo nel conteggio della Cassa Integrazione». Tutti dobbiamo fare sacrifici.
Il campo, rispetto alla voce unanime che si alzerebbe dal Veneto chiedendo di tornare al lavoro, risulta un po’ complicato da questo carotaggio. I dati che emergono sono due: la chiusura non c’è stata, le imprese della nostra regione hanno fatto a gara nel tentare di evitare la serrata, nella maggior parte dei casi riuscendoci, indipendentemente o con l’appoggio silenzioso (chissà se lo capiremo mai) del potere politico leghista. In questo modo il lockdown rischia di essere vanificato. La situazione emergenziale, inoltre, ha reso possibile una interessante metamorfosi: una parte consistente della borghesia veneta si è trasformata in un banco di squali, pronta a immaginare riduzioni dei costi sulle spalle dei lavoratori (e della loro salute), o ad arraffare sulla cassa integrazione, in questo momento in cui la vigilanza fiscale, già di norma permissiva, si rivela sostanzialmente assente. Hanno pagato i lavoratori con la cassa integrazione, aumentando il debito che nei prossimi anni ci farà sputare sangue. A quel punto, puntuale, arriverà la richiesta dei sacrifici.
una parte della borghesia veneta si è trasformata in un banco di squali, pronta a immaginare riduzioni dei costi sulle spalle dei lavoratori (e della loro salute), o ad arraffare sulla cassa integrazione
I sacrifici… Non c’è modo migliore di fare parti uguali fra disuguali (che poi non è una frase di Don Milani, come di solito si dice, ma addirittura del vecchio Karl). C’è tutta una forma mentale, nella nostra regione, per cui la parte del lavoro è sempre la parte giusta; per cui Roma sarebbe ancora la vecchia ladrona, sempre a mungere le vacche venete; per cui lavoratori e imprenditori stanno dalla stessa parte. Un senso comune che rende alcune cose possibili e altre no, derivante dall’humus che ci ha nutrito: pane e capannone.
Dal 2008 siamo cresciuti, abbiamo imparato. Abbiamo capito che i tabù possono cadere. Abbiamo visto che il rapporto deficit/Pil si può sforare. Forse ci potrebbe anche venire in mente che la ricchezza dei pochi, per la quale sacrificarci, si potrebbe invece redistribuire. Quando arriverà l’ora in cui ci chiederanno i sacrifici, sapremo che sarà l’ora di cogliere l’occasione.