di Emanuele Caon
Si ripete da mesi che la cassa integrazione arriverà a fine settimana, ma ancora non si vede. Quanto bisognerà aspettare? Cosa ha significato usare la cassa integrazione nel periodo del Covid? Le seguenti riflessioni partono da un’inchiesta, portata avanti da militanti di Potere al Popolo in regione, di cui si può trovare una prima versione qui sotto.
Lavoro in Veneto ai tempi del Covid
Nelle ultime settimane sulla Cassa integrazione [d’ora in poi CIG; N.d.A.] sono sorte ogni genere di polemiche. Eppure il dibattito politico e mediatico non ha fatto eco alle storture più profonde della CIG. Affinché la rabbia popolare possa centrare gli obiettivi giusti è necessario fare un po’ di ordine.
I dati più aggiornati dell’INPS risalgono al 4 giugno 2020. Ne emerge un quadro preoccupante. Nelle diverse tipologie di CIG i beneficiari potenziali (persone individuali) sono 8.410.149, le aziende che hanno presentato domanda sono 1.316.176. I ritardi nei versamenti sono stati spaventosi, tanto che il presidente dell’INPS, Pasquale Tridico, è stato spinto a dichiarare che mancavano ancora 420.000 versamenti, ma che entro venerdì 12 giugno sarebbero stati tutti corrisposti. Ovviamente non è andata così, e ci sono ancora persone che aspettano la CIG di marzo.
Le polemiche hanno investito il presidente dell’INPS e in generale l’azione di governo. Qui va fatta la prima precisazione, e non per difendere l’operato di Conte. Il problema è lo stesso che ha travolto sanità e scuola, ossia per anni si è proceduto a togliere risorse al sistema pubblico, riducendo il personale assunto e tralasciando un doveroso adeguamento strutturale e infrastrutturale. Il luogo comune denuncia una sovrabbondanza di dipendente pubblici in Italia, ma la realtà dei fatti è ben diversa. Negli ultimi 10 anni i dipendenti pubblici in Italia sono calati dell’8% e nel 2017 erano il 13,43% sul totale della forza lavoro, ben al di sotto della media OCSE che si attesta su di una media del 17,71%.
Tagli di personale, mancati investimenti. Come può ora l’INPS fronteggiare l’emergenza? Forse i capi politici che oggi tanto polemizzano sull’INPS potrebbero rispondere alla domanda meglio di Conte; a cui comunque non si attribuisce nessuna attenuante. Gli strati popolari stanno ancora aspettando una patrimoniale; mentre per il taglio dell’IRAP lo ringraziano circa 1,8 milioni di imprese. Imprese che possono accedere al taglio dell’imposta senza nessun requisito, se non quello di aver fatturato meno di 250 milioni di euro: non serve nemmeno dimostrare di aver avuto un calo di entrate!
Proprio le imprese sono l’altro grande assente nella polemica sulla CIG. Intanto potrebbero (lo sancisce la legge) anticipare la CIG, ma solo una su due ha deciso di farlo. Alle altre va benissimo vedere i propri lavoratori aspettare due o tre mesi che arrivi il bonifico da parte dell’INPS.
Poi i numeri stupiscono, per non dire peggio. Ben 1.316.176 imprese hanno fatto richiesta di accedere alla CIG, coinvolgendo di fatto più di un terzo della forza lavoro italiana. Non è credibile che tutte queste aziende siano in una situazione così tragica da dover far ricorso alla CIG. Ricordiamolo: i soldi della CIG sono pubblici, provengono direttamente dalle tasse di lavoratori e lavoratrici, per quale motivo soldi pubblici dovrebbero andare a un’azienda privata? La risposta è semplice, perché è l’unico modo per salvare il lavoro e quindi il benessere di tutti e tutte. Eppure i conti non tornando.
E peggio, tra i lavoratori e le lavoratrici finiti in CIG, quasi uno su dieci è stato incastrato in una vera e propria truffa ai danni dello stato
Dalla nostra inchiesta emergono dati interessanti. Metà della forza lavoro che abbiamo intervistato, in questi mesi è stata costretta ad alternare periodi in cui ha bruciato ferie e permessi ad altri in cui è stata messa in CIG, come fosse normale dover passare le ferie in quarantena, o sprecare un permesso quando normalmente se chiedi un permesso per una visita medica el paron ti guarda dicendoti con gli occhi «ma non puoi andare dopo lavoro o il sabato mattina? Con tutti gli studi privati che ci sono!». E peggio, tra i lavoratori e le lavoratrici finiti in CIG, quasi uno su dieci è stato incastrato in una vera e propria truffa ai danni dello stato. Il meccanismo è semplice, ti metto in CIG, ma poi ti faccio lavorare da casa in smartworking, così il tuo stipendio lo paga lo stato.
I dati del Veneto sono allarmanti. Solo per rendere l’idea, rispetto allo stesso trimestre dello scorso anno registriamo una differenza (in negativo!) di 61.000 posizioni di lavoro. Davanti a tutto questo, oltre alla rabbia verso la gestione della CIG, deve sorgere qualche dubbio legittimo sulla sua stessa natura.
Il principio aziendale prevede che i soci (gli imprenditori) abbiano la reale proprietà dell’azienda e che, soprattutto, si spartiscano gli utili. Quanti utili avrà un’azienda che fattura 249 milioni di euro e che quest’anno non pagherà l’IRAP? Veramente non può reggere due o tre mesi di difficoltà? Eppure è giusto così, perché l’imprenditore si assume il rischio quindi è “normale” che si porti a casa il suo fatturato. E tu lavoratore, che non vuoi rischiare, accontentati del tuo stipendio. Ma quando va male? C’è la CIG, perché non possiamo permetterci che le aziende falliscano, altrimenti salterebbero i posti di lavoro.
È giusto tutelare il lavoro delle persone, ma dal momento che l’azienda pretende dei soldi pubblici deve saltare anche il principio chi tanto rischia tanto guadagna. Se il rischio viene reso pubblico, allora nei consigli di amministrazione vogliamo una quota di stato, ma più di ogni altra cosa vogliamo una quota di lavoratori che partecipi alle decisioni manageriali. Con la CIG il rischio di impresa ricade sulla collettività, sarebbe giusto accadesse lo stesso per il principio di proprietà e quello di spartizione degli utili. È tempo, in altre parole, di porre il problema della reale democrazia nei luoghi di lavoro e cioè su chi ha diritto di decidere.
Confindustria tirerà il naso, dirà che così sarà la catastrofe, Zaia dirà che così crolla il modello veneto. Eppure, a farsi un giro nel mondo delle piccole e medie imprese, si vedrebbe che la baracca quasi mai la tirano avanti gli imprenditori, ma tutto il sottobosco di lavoratori e lavoratrici che in quell’azienda magari ci sono da vent’anni. Sono loro che sanno come funziona la produzione, che conoscono il materiale e le sue malizie, che gestiscono le spedizioni, che hanno sempre la parola giusta per il cliente mai soddisfatto. Quei lavoratori e quelle lavoratrici che non si sono assunti il rischio di impresa, ma che adesso e nei prossimi decenni lo pagheranno sotto forma di tasse e imposte, anche se prima non hanno partecipato della ricchezza e del potere; e non lo faranno domani. E mentre noi pagheremo milioni di debiti per la CIG e si discute di come trovare i soldi per risollevare la sanità italiana, le aziende potranno non versare l’IRAP. Va ricordato, come aggravante, che la quasi totalità del gettito ottenuto da tale imposta serve a finanziare il servizio sanitario nazionale. A quanto pare continua a non essere di moda l’idea che la ricchezza, invece di concentrarla in alto, si possa anche redistribuire verso il basso.
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