Appunti su mutualismo e volontariato, a Padova e non solo.
Sgomberare l’associazionismo, celebrare l’associazionismo
Lo sgombero della CLAC – Comunità per le Libere Attività Culturali – Padova dai locali dell’Ex Macello di Via Cornaro, fatti vivere e ristrutturati nel corso degli ultimi 40 anni dalle stesse associazioni ora scacciate, ha segnato l’inizio di quello che per Padova è l’anno del volontariato. Ordinato dal sindaco Giordani ed eseguito dalla polizia, questo è per il momento l’ultimo di una serie di atti che stanno rimuovendo sistematicamente progetti ed esperienze, tra cui Berta – Casetta del Popolo in Arcella (sgomberata dall’ATER), che al panorama di una città solidale contribuivano non poco.
“Padova capitale europea del volontariato 2020”, il cui motto è “ricuciamo insieme l’Italia!”, sarà inaugurata il 7 febbraio dal sindaco e dal capo dello stato Mattarella. Fra cooperative, associazioni, volontariato d’impresa, creatività e welfare, si aprirà così un percorso la cui gestazione ha tenuto occupata più di una testa negli ultimi tempi e la cui direzione a noi sembra chiara: far convergere solidarietà e terzo settore, rendere osmotiche le barriere fra volontariato e lavoro, creare partnership tra istituzioni, comunità e imprese aprendo nuove possibilità di speculaz… sviluppo sociale.
A chi riconosca sinceramente il valore sociale dell’associazionismo questi due eventi possono apparire in contraddizione, ma sono due facce della stessa medaglia. Di cosa parliamo, infatti, quando parliamo di “volontariato”? Che cos’hanno e cosa non hanno in comune l’impegno quotidiano e a titolo gratuito di chi rischia poi lo sgombero e il concetto di cui quest’anno si parlerà tanto in città? In entrambi i casi si tratta di un modo per intervenire su un tessuto sociale che sta attraversando (e soffrendo) una crisi profonda: economica, politica, affettiva, culturale, ecologica. Un intervento sociale che però è caratterizzato da logiche, obiettivi e prospettive differenti, su cui vogliamo provare a ragionare e a cui crediamo vadano anche dati due nomi distinti: volontariato e mutualismo.
È chiaro d’altra parte che questo recente capitolo di storia padovana, con i suoi sgomberi, le sue retoriche e le sue contraddizioni (vere o apparenti che siano), rispecchia una tendenza generale che travalica abbondantemente i confini della nostra città. La crisi e la sua gestione mediante austerità e politiche antipopolari da parte di governi di ogni colore hanno schiacciato nella solitudine, nel rancore e nella rassegnazione chi ne ha subito le conseguenze peggiori, lasciando trionfare l’individualismo e la guerra tra poveri contro ogni forma di agire collettivo. È in questo contesto che prospera il “mostro” razzista e sovranista, in Italia cioè la Lega di Salvini, che ha gioco fin troppo facile a tacciare di “buonismo” ogni espressione di solidarietà: questa non è però che la faccia più brutale di una società talmente allo sfascio da non tollerare più, per potersi reggere in piedi, alcuna ipotesi di critica o trasformazione radicale incarnata in pratiche collettive, realmente solidali. Che le uniche forme di associazione o cooperazione ammesse siano quelle che stanno dentro determinati schemi e che non mettono in discussione il quadro complessivo, non è un caso. Così come non è un caso che ogni associazione che non si conformi a quegli schemi è, potenzialmente, un’“associazione a delinquere”. Anche di questo, a Padova, ne sappiamo qualcosa
El tacòn peso del buso
Il volontariato in salsa neoliberista si contraddistingue per una serie di funzioni. La prima, silenziare i sensi di colpa che prendono chiunque abbia un minimo di cuore davanti all’ingiustizia del mondo. La seconda, dare un po’ di sollievo a chi non ce la fa e che così proverà gratitudine verso i suoi benefattori. La terza, supplire allo stato dove esso, ritirandosi da un welfare sempre più privatizzato, non arriva a svolgere le sue funzioni. La quarta, creare business attorno a bisogni e necessità fondamentali attraverso un sistema di bandi, nuove posizioni di progettista sociale che aiutino nella compilazione dei suddetti bandi, università del volontariato che formino queste figure professionali e, immancabilmente, aziende, banche e fondazioni generose, pronte a finanziare progetti.
La conseguenza non è solo quella classica, di un assistenzialismo che lascia intatte le condizioni che lo rendono utile e necessario, ma è anche il trasferimento della gestione delle problematiche sociali dalle istituzioni pubbliche al terzo settore, aperto all’investimento privato e agevolato in maniera consistente sui piani normativo e fiscale, nonché ovviamente fondato su una mole gigantesca di lavoro non retribuito. In questa direzione si incammina la più recente interpretazione del concetto di volontariato, rendendolo di fatto un luogo di mediazione tra stato e mercato, del tutto sbilanciato a favore del secondo. L’intento dichiarato è quello di “ricucire” i pezzi di una società che si finge non siano portatori di bisogni e interessi divergenti. Il problema è che così si scambia per una toppa ciò che invece il buco lo allarga.
Un’altra trama possibile
Ciò che noi chiamiamo mutualismo si differenzia dal volontariato, anche classicamente inteso, per diversi fattori. Innanzitutto perché vuole intervenire sui problemi concreti delle classi popolari e degli strati più bassi e marginali delle nostre società, riconoscendoli come tali: lavoro, casa, povertà, istruzione, accesso ai servizi e alla cultura, ma anche lo stesso bisogno di socialità e convivialità di contro alla solitudine, sono intesi come effetti di un sistema che li produce strutturalmente. In secondo luogo, non vuole essere un gesto di carità che lascia in una posizione passiva chi lo riceve e in una di potere chi lo dà, bensì vuole porre al centro la cooperazione e l’autorganizzazione: non ci sono “vittime” ci sono solo persone, donne, uomini, fratelli e sorelle. Ciò significa che l’autodeterminazione è tanto lo scopo ultimo quanto lo strumento per raggiungerlo e che, quale che sia la natura dell’attività mutualistica, essa deve mirare a modificare i rapporti di potere nel senso di una reale uguaglianza. In terzo luogo il mutualismo ha l’ambizione di costruire – a partire dalle pratiche e imparando dalle pratiche – configurazioni e visioni del mondo diverse in chi vi entra a contatto, proponendo esempi, modelli, anticipazioni di nuovi modi di organizzazione sociale. Non soltanto criticare le forme di dominio vigenti (sfruttamento, precarietà, violenza di genere, ogni tipo di discriminazione), ma sforzarsi di produrre una trama di relazioni che ne sia completamente libera.
Detto altrimenti, il mutualismo non vuole mettere una pezza ai problemi sociali o individuali, ma contribuire a trasformare la società stessa. C’è una grande differenza, ma anche un confine spesso molto sottile, tra questa forma di impegno volontario che prova a farsi carico della trasformazione sociale e un volontariato che, andando a cercare spazio, fondi e mediazioni su un terreno strutturalmente fatto per andare in un’altra direzione e per servire tutt’altre logiche, rischia di diventare strumento di quella stessa macchina che alimenta e approfondisce le disuguaglianze.
Un sogno reale: facciamo spazio alla solidarietà!
Tutto quello che diciamo sul mutualismo deriva in primo luogo dalla nostra esperienza. È infatti proprio dalle pratiche che si origina la necessità di una prospettiva politica, e non il contrario. Essa emerge non appena si tenta di agire anche solo sui problemi più immediati, per quanto piccoli, della nostra società. Quando, domandando più che spiegando, si allarga collettivamente lo sguardo dal problema o bisogno individuale alla condizione comune, da un piccolo cambiamento in meglio alla necessità di un cambiamento generale.
È il mutualismo stesso che richiede autonomia, organizzazione e analisi, perché non può fermarsi al singolo collettivo, al singolo quartiere, alla singola pratica ma deve cercarne altre e connettersi ad esse. Sono le pratiche stesse che, per essere attuate pienamente, necessitano di corrispondere ad una visione politica che le salvaguardi dal ricadere in un semplice volontariato o assistenzialismo. Questa è la ragione per cui noi stiamo contribuendo al progetto di “Potere al Popolo!”, che di certo non è l’unica via percorribile, ma un tentativo di utilizzare la solidarietà concreta fra le componenti delle classi popolari come strumento di conflitto, accostandola ad altri strumenti di denuncia, lotta e rivendicazione politico-sociale.
Quello che qui ci interessa e ci sta a cuore, in conclusione, è riconoscere che in fin dei conti non si tratta soltanto di spazi: gli sgomberi sono la forma esteriore che ha assunto un problema ben più grande e fondamentale. Si tratta di cosa siano le pratiche di solidarietà dal basso e di quali forme di aggregazione possano nascere dalle nostre esperienze. Crediamo sia necessario rivendicare il pieno valore politico delle nostre azioni perché sappiamo che esse hanno un risultato: rendono visibili delle contraddizioni, indicando la necessità di risolverle a beneficio della collettività, nel momento stesso in cui migliorano concretamente le condizioni di vita e la vivibilità di interi quartieri. Crediamo che l’ostruzione e la criminalizzazione da parte delle istituzioni nei confronti di progetti come la Casetta del Popolo “Berta”, la C.L.A.C., il D.E.S. ed altri ancora vadano nella direzione opposta al bene collettivo. Al contrario, associazioni, collettivi e singoli insieme possono conquistare spazio alla possibilità di una vita diversa, alla solidarietà vera e al sogno concreto di una realtà migliore di quella che ci troviamo di fronte. Se non lo facciamo ora, a partire da noi stess*, nessuno lo farà per noi.
2 thoughts on “Ricucire, Rattoppare o Ritessere?”