di Spazio Catai
Pubblichiamo un contributo, scritto a più mani, sulla Resistenza palestinese e sul suo legame con il transfemminismo. Un precedente contributo sul tema si trova qui.
(Rage) Sense and Sensibility
La causa palestinese è una questione transfemminista
1) La loro rabbia, la nostra rabbia
La giustificazione che abbiamo sentito in questi mesi per spiegare violenze poliziesche e repressione qui da noi è la presunta violenza di chi è scesə in piazza per manifestare per la Palestina. Una teoria fragilissima per cui è il corteo non autorizzato, il presunto insulto rivolto al poliziotto daə manifestanti, addirittura una bandiera portata sulle spalle è vista come una “provocazione” a giustificare a pieno cariche e arresti. “Se la sono cercata” gli studenti e le studentesse caricati a Pisa, se la sono cercata le attiviste licenziate e schedate in Germania.
E sapete chi altrə “se l’è cercata” (vi suona familiare la frase?!): gli uomini e le donne di Gaza, uccisi, feriti, che hanno perso la casa e tutto ciò che gli era caro. Se la sono cercata perchè hanno sostenuto Hamas e le violenze del 7 ottobre, e non importa che effettivamente fossero direttamente coinvolti in quei fatti sanguinosi, nemmeno che sostenessero idealmente quella formazione politica: il gruppo, raccontato come omogeneo, dei gazawi se l’è cercata e va punito. Vanno punitə, e punitə senza proporzione né misura (nel senso che questi termini possono assumere in guerra, anche se non è di una guerra di cui stiamo parlando) perché dopo 75 anni di oppressione non hanno saputo subire in silenzio, non hanno saputo contenere la propria rabbia di fronte a soprusi continui, rinchiusə in una prigione a cielo aperto, detenutə senza motivo, privatə di ogni libertà. Hanno mostrato la loro rabbia e ne hanno parlato al mondo, come sempre ha fatto il popolo palestinese in tutte le fasi della sua resistenza, come di una “rabbia politica”, prodotta da specifiche condizioni materiali, da specifiche dinamiche di oppressione e potere.
Nelle rappresentazioni mediatiche più ricorrenti, nei discorsi da bar, spesso anche nel dibattito e nei circuiti “alti” dell’arte, della cultura, della letteratura (anche se in maniera più mascherata) c’è un racconto che tiene assieme ə subalternə di ogni latitudine e tempo: la rabbia. Con la “bava alla bocca” e gli occhi fuori dalle orbite questə sfruttatə, questə oppressə, uscitə dalla loro consueta (e auspicabile!) passività, sembrano voler divorare il mondo, ringhiano e fremono, come “bestie” come “pazzə”. C’è un archivio sterminato di immagini e racconti che va dalle “isteriche” di Charcot ai “selvaggi” raccontati dall’etnografia, dalla donna prepotente che pretende “i pantaloni” e vessa il marito di epoca illuminista (G. Bock, B. Duden, Lavoro d’amore – amore come lavoro), aə nativə americanə che assaltano la diligenza e fanno una carneficina dei film western, da lavoratorə prontə al sabotaggio e a mandare in malora la fabbrica ai “cannibali”, fino alle streghe esperte di veleni.
Una delle strategie – talvolta di vera e propria sopravvivenza – adottata dai gruppi subalterni, e ancor più spesso da singolə, è quella di mostrarsi come persone compiacenti e servizievoli, salvo poi affidarsi ai cosiddetti “verbali segreti” per incanalare, oltre le apparenze di una relazione pacifica, il proprio odio nei confronti dei dominanti. Ma questa non è, per fortuna, l’unica strategia di sopravvivenza che ci rimane. Ma quando non abbiamo alternative perché siamo messə all’angolo o, e lì viene il bello, abbiamo un po’ di forza – perchè siamo assieme, in tantə, perchè prendiamo consapevolezza della nostra forza, perchè se ne presenta l’occasione – la nostra rabbia può diventare rivolta, può diventare forza trasformativa.
Lo vedete quanto si somigliano la nostra rabbia e la loro? Entrambe prodotte da condizioni sistemiche, dall’intreccio di un’oppressione materiale e simbolica alla quale non vogliamo rassegnarci. Entrambe rappresentate, per delegittimarci, come deliri, inclinazioni, come una forza pre-politica che va incanalata, sedata, gestita, ad ogni costo.
Ci chiedono: perché arrabbiarsi quando si può dialogare? Perché arrabbiarsi quando basta aspettare, avere pazienza e confidare che le cose cambino? Perché sappiamo che non cambieranno da sole, perchè sappiamo che è una fregatura, che la nostra rabbia è una (sacrosanta) reazione, che ci protegge e che è anche uno strumento prezioso al quale non rinunceremo che ci consente di difendere e di provare a rovesciare i meccanismi di oppressione che ci hanno soffocatə.
C’è un filo rosso che lega la nostra rabbia a quella dei popoli colonizzati degli oppressi e delle oppresse in ogni parte del mondo, questa consapevolezza ci mette automaticamente in connessione con quellə che, come noi, sono raccontatə come bruttə, sporchə e cattivə, ma che hanno solo sete di giustizia e di libertà.
Chi ha paura della lupa cattiva? Beh, il cacciatore sicuramente. E fa bene.
2) Una questione di “sensibilità”
In una sua recente intervista su “The Intercept”, Judith Butler (a proposito dell’associazione, strumentale e scorretta tra manifestazioni pro-Pal, antisionismo e antisemitismo) ha parlato del modo in cui i concetti – a noi cari – di attenzione, protezione, cura, sicurezza vengano distorti non per tutelare il debole e “l’invisibile” – che non ha spazio di rappresentazine e di racconto – ma come limitazione delle possibilità democratiche e forma di sopruso da parte di chi è in una posizione di forza e di visibilità. Come sappiamo, dice la pensatrice: “c’è una preoccupazione per la sicurezza sollevata da alcuni studenti ebrei – e qui è davvero importante dire che alcuni studenti ebrei, perché non tutti gli studenti ebrei sono d’accordo – quegli studenti ebrei che affermano di non essere sicuri nel campus” che sostengono che alcune pubbliche manifestazioni o affermazioni li fanno sentire in pericolo; “le espressioni che mettono veramente a repentaglio la sicurezza di un’altra persona sono quelle che la minacciano di danno (…). Qualsiasi studente che dice “mi sento insicuro per quello che sento dire da un altro studente” sta dicendo che “la mia sicurezza è più importante della libertà di espressione di quella persona”. (…) Se qualcuno usa un insulto profondamente antisemita, qualsiasi tipo di insulto antisemita, o si rivolge a uno studente ebreo in modo antisemita, e poi dice: “E perché sei ebreo”, o “dato che io ho questa opinione nei confronti degli ebrei, ti farò anche un danno fisico. Ti farò del male.” – questo non è un discorso accettabile (…). Ma se chiedere la fine del genocidio contro la Palestina è inteso come far sentire insicuro uno studente ebreo, allora vediamo che la sicurezza della situazione è stata stranamente cooptata da quel particolare studente ebreo. È come se venissero minacciati di fare del male quando, in realtà, l’opposizione al genocidio a Gaza è piuttosto esplicitamente un’opposizione a fare del male e uccidere numerose persone che si accalcano a Rafah in cerca di sicurezza”.
L’appello alla nostra empatia e sensibilità, all’accogliere la richiesta di protezione, di costruire un ambiente protetto per chiunque lo richieda non può essere accolta se non ponendola al vaglio del nostro buon senso e del nostro senso di giustizia. Non può essere, semplicemente, incondizionata, perché queste richieste non vengono formulate in un campo vuoto, neutro ma determinato da precise condizioni e rapporti di forza – che non sono mai solo interpersonali e interindividuali ma che necessariamente coinvolgono gruppi, insiemi plurali socialmente informati. L’alimentare una costruzione di discorso che vuole che le tragedie immani del passato siano considerate come un “lasciapassare metastorico” (cfr. Daniele Giglioli, Critica della vittima), non fa che moltiplicare la possibilità che fatti drammatici, genocidi, persecuzioni,pulizie etniche, si ripetano.
“Gli israeliani hanno bisogno di mantenere questa falsa nozione del mostro palestinese perché Israele è in grado di autocostituirsi solo in relazione a quel mostro. Quando l’«altro» asserisce i suoi bisogni e la sua realtà, come hanno cercato di fare i palestinesi, persino provando a leggere i nomi dei loro morti nel Knesset, diventa il nuovo colpevole. Sì, i palestinesi sono una minaccia, ma a cosa? Una minaccia alla percezione distorta di sé che hanno gli ebrei sostenitori dell’occupazione.” (Sarah Schulman, Il conflitto non è abuso) ma la questione non è (meramente) psicologica, ma tutta politica. L’appello alla nostra sensibilità, al diritto alla protezione, il ricorso alla retorica della sicurezza, del sentirsi minacciatə è funzionale ad attivare vari livelli di repressione/cancellazione delle ragioni palestinesi, che si sommano alla repressione nella sua forma più immediatamente visibile e comune: quella degli sgomberi delle “accampate” campus, delle manganellate, degli arresti. L’utilizzo strumentale della sensibilità personale per attaccare il sostegno alla causa palestinese è spesso declinato in tre forme:
- Invisibilizzazione: “VOI non potete stare qui a manifestare, a parlare di quello che succede in Palestina, perché NOI ci sentiamo in pericolo”, il tema della percezione del (proprio) pericolo è un tema importante quanto delicatissimo, certamente ogni sensazione in tal senso può essere considerata, se letta sul piano soggettivo, valida, ma che ne è della presenza, delle rivendicazioni, dei rapporti di forza reali che – necessariamente e oggettivamente – ci legano all’altrə? Nel rapporto tra autopercezione e autorappresentazione di Israele e popolo palestinese questa inversione tra chi ha forza (anche di parola) e può stabilire i confini e chi deve provare a trovare un proprio spazio si è fatta estrema. Basti pensare all’esempio grottesco della richiesta di rimozione di una mostra di disegni di bambinə palestinesi in un ospedale di Londra inoltrata (questo accadeva, si noti, ben prima del 7 ottobre!! Non che questo faccia poi molta differenza) da un ente di beneficenza britannico pro- Israele. L’ospedale è stato costretto a rimuovere i disegni in quanto ə pazienti di origine ebraica “hanno affermato di sentirsi vulnerabili e vittimizzati” da quelle immagini (che rappresentavano ramoscelli di ulivo). In una recente intervista una studentessa dell’”unione giovani ebrei d’Italia” ha dichiarato di non sentirsi più sicura ad andare all’università vista la presenza di attivistə pro-Pal, altre interviste analoghe hanno avuto grande spazio mediatico negli USA. Pur nel rispetto delle sensibilità e delle emozioni di ciascunə, non si può non riflettere sull’uso politico e sull’effetto di tali dichiarazioni, e, soprattutto, su quali dovrebbero essere le soluzioni concrete da mettere in atto: per il momento ne viene in mente solo una: ridurre al silenzio chiunque provi a parlare delle ragioni del popolo palestinese, invisibilizzare quella causa.
- Criminalizzazione Questa percezione/autorappresentazione del pericolo e della messa a repentaglio del proprio safe space spesso confina non solo con la cancellazione dell’altrə ma con la criminalizzazione di ogni tentativo di rivendicare una presenza. Considerare lo spazio – materiale e di discorso – come se questo fosse uno spazio vuoto, non attraversato dalla materialità dei rapporti di forza che lo informano rimanda a un’attitudine coloniale e predatoria tipicamente capitalistica per cui l’altrə esiste solo in quanto oggetto di appropriazione e possibile sfruttamento, altrimenti costituisce un ingombro o, se si ribella, addirittura un pericolo. Proprio da questa logica scaturisce un processo di criminalizzazione delle lotte (e, come abbiamo detto, della rabbia, del gesto o della parola violenta) tanto che ogni tentativo di “prendere spazio” deə subalternə è considerato un atto criminale, illegale, immorale, nel caso specifico di vero e proprio terrorismo. Addirittura il boicottaggio (che nel caso della Palestina prende la forma del BDS – boicottaggio, disinvestimento e sanzioni legato non solo a un boicottaggio dei prodotti di consumo israeliani ma anche una richiesta di rescissioni di accordi tra università e enti culturali), da pratica non violenta per eccellenza – e risorsa ultima di chi non ha altri strumenti per far valere le proprie ragioni – viene rappresentato come attacco, come aggressione. L’equiparazione antisemitismo/antisionismo funziona in questa chiave per provare a criminalizzare e delegittimare ogni forma di dissenso e ogni azione intrapresa per interrompere l’occupazione dei territori e il genocidio del popolo palestinese.
- Illegalizzazione dove non riescono i manganelli, arriva la legge. è solitamente questo il normale processo di criminalizzazione, indebolimento e silenziamento delle proteste, quella a favore del popolo palestinese non poteva essere da meno.
Ad aprire la strada, oltre ovviamente alla Germania, ci sono gli Stati Uniti. Il 1° maggio la camera statunitense ha infatti approvato l’”antisemitism awareness act”, una nuova legge che impone l’utilizzo di quanto previsto dall’International Holocaust Remembrance Alliance nei giudizi di comportamenti ed esternazioni antisemite, sottolineando che l’utilizzo di altre definizioni potrebbe portare alla creazioni di diversi standard, alcuni dei quali potrebbero escludere le più recenti manifestazioni di antisemitismo.
La legge, non a caso pubblicata proprio in questi giorni di proteste nelle università, paragona di fatto la critica antisionista all’antisemitismo: nella definizione dell’IHRA, infatti, lo stato di Israele e la popolazione ebraica sono spesso rappresentati come soggetti intercambiabili con la conseguenza che una critica ad Israele deve essere intesa come diretta anche alla stessa comunità ebraica tutta.
Le differenze tra antisionismo e antisemitismo vengono totalmente appiattite e per l’effetto le proteste contro il dominio coloniale (e quindi razzista) di israle sul popolo palestinese, vengono paragonate a chi invece nel razzismo crede e lo mette in pratica: un paradosso. Ma si tratta di un paradosso che al momento vieta in sostanza qualsiasi critica alle politiche e all’operato di Israele, negando o comunque fortemente limitando la libertà di espressione e di protesta dellə attivistə pro-Palestina.
In Italia non potevamo certo essere da meno, a gennaio infatti la Lega ha presentato un disegno di legge rubricato “disposizioni per l’adozione della definizione operativa di antisemitismo, nonché per il contrato agli atti di antisemitismo” dove, nella presentazione inziale, viene esplicitata l’equiparazione tra antisionismo e antisemitismo: “dopo il terribile attacco terroristico del 7 ottobre […] i focolai di antisemitismo già presenti in tutta Europa si sono estesi e propagati sotto la veste di antisionismo, dell’odio contro lo stato ebraico e del suo diritto ad esistere e difendersi”.
Anche in questo caso, oltre a prevedere censure e divieti di manifestazioni in qualunque caso si valuti un “grave rischio potenziale” di utilizzo di simboli, slogan e messaggi antisemiti (leggasi antisionisti), si riprende la definizione fornita dall’IHRA.
Anche la nostra sicurezza personale può essere, se interpretata in maniera distorta, un’acquisizione di potere (cfr. Christina B. Hanhardt, Safe Space: Gay Neighborhood History and the Politics of Violence), tuttə abbiamo diritto a rivendicare sicurezza se ci sentiamo sotto minaccia, se la nostra sensibilità viene ferita, ma quando la nostra sicurezza è garantita al prezzo dell’oppressione di altrə, del controllo e della cancellazione delle loro libertà, allora essa non è che un’altro volto del dominio.
Hanno fatto appello alla nostra sensibilità, ai nostri sentimenti e alla nostra capacità di immedesimazione per dirci che dovevamo essere vicine alle donne che hanno subito violenza a causa delle azioni della resistenza palestinese. E il nostro cuore è con loro. Ma non è alla nostra sensibilità che stavano parlando: quellə che ci dicevano che ad assomigliarci di più erano le donne occupanti, invece che le donne che vivono in un territorio occupato, stavano parlando al nostro desiderio di mantenere intatto il nostro privilegio come occidentali.
Il rispecchiamento non passa solo per il riconoscersi un uno stile di vita più simile, ma nell’essere uniti come soggetti oppressi. Non userete la nostra empatia, la nostra sensibilità, i nostri sentimenti per farci schierare dal lato sbagliato.
Come scriveva l’antropologo di origine palestinese Sa’ed Atshan: i miei diritti non possono dipendere dalle tue emozioni.
3) Ragione e ragionevolezza
Dopo aver provato a analizzare come viene delegittimata e criminalizzata la rabbia, come spesso si faccia appello alla nostra sensibilità, ai nostri sentimenti non per avvicinarci e unirci in una causa comune ma per dirottare la nostra empatia solo nei confronti di chi apparentemente ci assomiglia di più – perché condivide alcuni privilegi – operando di fatto una classificazione tra vite che contano e valgono di più e vite che valgono di meno, proveremo ora a discutere l’uso strumentale che si fa della ragione, del buon senso.
Come abbiamo visto nel paragrafo precedente, la condizione di vittima può essere utilizzata strumentalmente per limitare il raggio d’azione di chi vorrebbe ridurre i privilegi e lo strapotere (“vittimismo dei potenti”), ma può avere anche un’altra funzione: quella di intrappolare noi, chi è oggetto di questa oppressione, nel ruolo soggetti inermi, rendendoci impotenti, cancellando la nostra agency: “da qualsiasi lato la si guardi la mitologia della vittima toglie forza ai più deboli, e l’accumula nelle mani sbagliate. Criticarla significa ridistribuire le carte” (cfr. Daniele Giglioli, Critica della vittima).
Ragionevole è, per lǝ oppressǝ, l’obbedienza.
Questo richiamo alla ragionevolezza va a “corrente alternata” e si concilia perfettamente con la logica del raptus, della sensazione di pericolo e del sentirsi minacciati, della messa in crisi di presunti “valori”. Il doppio standard della rappresentazione e comprensione della rabbia, dipendentemente se viene esternata da soggetti dominanti o da soggetti definiti deboli, emerge, ad esempio, prepotentemente anche nei casi di femminicidio. Pensiamo alle testate dei giornali che più che concentrarsi sulla gravità e sulla frequenza del “fenomeno”, dedicano intere pagine a salvaguardare l’uomo di turno e la sua immagine, giustificando e normalizzando la sua rabbia: era solo geloso, era un momento difficile per lui, lei lo aveva lasciato, lei non lo capiva. In un modo o nell’altro, è colpa della donna se “si è fatta uccidere”, insomma, ha provocato lei l’uomo e lui si è arrabbiato, capita, dobbiamo farci il callo, dobbiamo imparare ad essere più comprensive, più attente, più pazienti, più docili. Quanto questo assomiglia alle giustificazioni che si autoattribuiscono per attenuare le proprie responsabilità (o addirittura cancellarle) i colonizzatori, e i soggetti dominanti in generale, ci sembra molto facile da intuire. La questione israelo-palestinese rappresenta, da questo punto di vista, un caso eclatante: il racconto che ci propinano è che c’è chi guida e chi deve essere guidato, l’avanguardia dei diritti e della democrazia in medioriente – che dunque in nome di questa missione civilizzatrice può tutto – e una massa indistinta di gente incivile che va piegata, messa al servizio o, se occorre, sterminata. Per lə subalternə è ragionevole solo subire passivamente, per lə dominanti è, alla fin fine, ragionevole e giustificabile ogni cosa – anche cancellare la vita dell’altro. Così la reazione di chi è statə designatə come chi deve subire è sempre considerata ingiustificatamente violenta e inaccettabile.
Il punto non è allora disprezzare questo rimando alla ragione e alla ragionevolezza in nome dell’istintività – abbiamo visto in quante trappole possa farci incappare un’empatia non mediata dall’analisi delle condizioni e dei rapporti di forza esistenti -, ma capire di quale ragione, o meglio ragioni si sta parlando.
La resistenza, e con essa anche la rabbia, vanno lette in maniera politica e incarnata, non hanno a che fare con tendenze o inclinazioni “naturali”, nemmeno con regole formali o astratte: bisogna comprendere, materialmente e concretamente, a chi si sta resistendo, chi sono lǝ nostrǝ alleatǝ e compagnǝ.
4) Conclusioni: quella palestinese è una questione semplice (ed è una questione femminista!)
Da sempre ed in particolare da dopo i fatti del 7 ottobre, quando si parla di quanto sta avvenendo in Medioriente, ci sentiamo rispondere che si tratta di una “questione complessa”, così da poter giustificare l’assenza di una presa di posizione chiara a sostegno della lotta di liberazione del popolo palestinese. Con questa risposta, in realtà, una posizione la si sta già prendendo (che lo si voglia ammettere o no) e non è per la liberazione del popolo palestinese, ma per forme di pacificazione che ne prevedono, di fatto, la resa – sostenendo, più o meno consapevolmente, gli interessi imperialisti nell’area e il ruiolo strategico di Israele.
Questa giustificazione e le varie difficoltà a prendere una posizione l’abbiamo vista presentarsi anche in ambienti meno sospetti, come quello transfemminista. I tentennamenti non sono incomprensibili, abbiamo parlato sopra della narrazione distorta, dell’utilizzo strumentale della nostra “sensibilità” che porta a riconoscersi in chi condivide un privilegio piuttosto che una condizione di oppressione: ritenerci immuni dalle logiche e dagli insegnamenti imposti dal capitale solo perchè facciamo attivismo sarebbe un gravissimo errore.
È sicuramente più facile dire che si tratta di una “questione complessa”, ma così facendo non solo si limita il campo di chi nella nostra lotta dovrebbe riconoscersi, ma si replicano quegli stessi meccanismi e dinamiche di esclusione e silenziamento, di non riconoscimento di una legittimità a prendere parola che noi stesse stiamo lottando per abbattere tramite le nostre pratiche. Non c’è quindi da stupirsi, quanto piuttosto analizzare le motivazioni.
Il “problema” non è nuovo del movimento, le stesse femministe nere da sempre hanno denunciato (e continuano a farlo) questa distanza, questi tentativi di silenziamento, questa non presa in considerazione e integrazione all’interno delle rivendicazioni femministe delle loro istanze, condizioni, cultura e pratiche di lotta.
I motivi di questa difficoltà sono molteplici e ricalcano quanto abbiamo scritto sopra: da una parte, infatti, c’è la difficoltà nel riconoscerci in ciò che può essere estraneo a noi, in ciò che non ci somiglia, alla realtà e quotidianità che non abbiamo mai vissuto. Dall’altra c’è un “limite” del femminismo liberale, ossia una tendenza a restringere il campo al tema del riconoscimento delle identità, generalizzandolo e imponendolo come primario rispetto a lotte contro altre e diverse forme di oppressione.
È proprio relativamente all’utilizzo di questa chiave di lettura della realtà e delle discriminazioni che viviamo che bisogna fare maggiore attenzione poiché vi si insinua una deriva rischiosa che poggia su una lettura del rapporto tra i generi unicamente sul piano soggettivo e culturale.
Ci sono, ci sembra, due livelli su cui lavorare. In primo luogo è necessario iniziare un processo di decostruzione anche decoloniale. Dobbiamo spogliarci della visione salvifica e civilizzatrice dell’occidente che inconsciamente abbiamo introiettato e ascoltare, dare spazio a quelle voci che vengono ovunque silenziate, anche da parte nostra. Non siamo noi a dover insegnare ai collettivi femministi e queer palestinesi come distruggere il patriarcato, non possiamo dettare noi la loro agenda: l’analisi femminista palestinese negli anni ha costruito il suo dibattito, ha indicato delle pratiche di soggettivazione e di autodeterminazione, ricordandoci che la lotta di liberazione dal patriarcato è intrinsecamente legata a quella contro il colonialismo sionista. Questo processo, insieme a quello di ricostruzione, non dobbiamo però affrontarlo da sole, è la collettività che ci dà la forza: per combattere e abbattere la visione individualistica e basata sull’esperienza soggettiva, bisogna costruire spazi comuni, pensieri comuni insieme a chi sta dalla nostra stessa parte della barricata, perché la lotta può essere solo collettiva
Per quanto importante, non crediamo però che questo aspetto sia esaustivo dell’analisi del problema, anzi, c’è un secondo piano sul quale dobbiamo assolutamente lavorare.
Se in questi anni abbiamo assistito ad una radicalizzazione e ampliamento del dibattito transfemminista che denuncia le discriminazioni e le oppressioni che viviamo come sistemiche, spesso non si approfondisce un’altra parte dell’analisi: quella che va a fondo della matrice strutturale, materiale e dei rapporti di forza che sottostanno a tutto ciò.
È proprio utilizzando questa chiave di lettura che dobbiamo interpretare la questione palestinese: non mettendo al centro la figura della donna o le culture, ricercandone una somiglianza che non c’è – le culture possono essere differenti, non dobbiamo percepirlo come problema, anzi -, ma leggendola in chiave materialista e quindi capendo di dover stare dalla stessa parte in quanto oppressə.
Il processo di de-costruzione e di ri-costruzione collettiva a cui auspichiamo porta avanti una lotta contro tutte le forme di oppressione: il tema dell’intersezionalità deriva dal necessario riconoscimento che i soggetti subalterni e marginalizzati possano vivere, contemporaneamente, diverse forme di oppressione (di genere, di classe, di razza, ecc.) e che solamente con una lotta che tenga insieme tutte queste rivendicazioni si possa realmente raggiungere la liberazione.
In questo senso la lotta di liberazione nazionale palestinese è esempio di lotta intersezionale (anti-coloniale, anti-capitalista, anti-imperialista) e sono le stesse compagne femministe palestinesi che ci mettono in guardia sull’errata interpretazione del termine: l’intersezionalità delle lotte non dev’essere intesa come una mera somma algebrica in cui i vari temi rimangono autonomi e indipendenti ma sono parte di un’unica lotta, quella contro l’oppressione, quella contro il capitalismo in tutte le sue forme.
Come transfemministe abbiamo il compito di riempire di contenuti politici la nostra lotta e per questo è necessario prendere parte e farlo a fianco dellə oppressə, dei soggetti subalterni, dei “deboli”, dei demonizzati, degli sfruttati. Siamo al fianco del popolo palestinese nella sua lotta di liberazione nazionale: nessunə è liberə finchè non siamo tuttə liberə.