“L’Osteria Senz’Oste nasce da un’emozione”: è la frase riportata nella presentazione dell’omonimo locale, un’antica villa colonica situata tra le viti di Valdobbiadene, nel trevigiano. Ha il sapore di autenticità, di chi vive la propria terra come un valore da condividere. Una cornice ideale in cui “non ci sono né oste né camerieri” e una tavola di prodotti tipici attende il viandante, investito della totale fiducia, senza restrizioni. Un’unica regola a disciplinarne il comportamento: pagare una piccola quota di contributo, “se vuoi che questo sogno continui per te e per chi non c’è ancora stato”.
Peccato che il sogno, secondo molte recensioni, contempli panini confezionati e bicchieri di plastica a pagamento. E il vino, per cui è valsa la fatica della salita, viene servito da distributori automatici, in comode bottigliette. Certo, astraendosi dai rumori meccanici dell’erogatore, di fronte all’Osteria si possono ammirare i profili delle colline. L’impressione, in effetti, è proprio quella di essere immersi in un sogno naturalistico. Non importa se gli stessi pendii, tutti simili, praticamente uguali, sembrano comporre un fondale plastificato costruito dall’uomo, come in un anomalo modellino scala 1:1 sui toni del verde brillante. È così piacevole godersi il sole sorseggiando un bicchiere frizzantino guardando le distese vitate.
Che le colline intorno all’Osteria non siano un paesaggio del tutto naturale, è ovvio. In un modo o nell’altro l’intervento umano ha raggiunto e modificato ogni angolo del pianeta e il paesaggio si configura come il risultato dell’interazione tra fattori naturali e progettualità umana. La stessa protezione ambientale ha superato il sogno della conservazione degli ambienti incontaminati. C’è differenza, però, tra un paesaggio rurale in cui si porta avanti una tradizione agricola e una zona presa d’assalto dalla speculazione. Chiediamoci, dunque: un ambiente interamente piegato da un modello di agricoltura intensiva, può essere considerato un bene da preservare per la sua originaria specificità?

Parrebbe controintuitivo, paradossale. Eppure la risposta è sì, soprattutto se di mezzo ci sono una candidatura UNESCO e un bel mucchio di soldi in arrivo. Lo spiega bene Gianluigi Salvador, attivista di P.A.N-Italia (Pesticides Action Network), ripercorrendo i passaggi del riconoscimento delle Colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene a patrimonio dell’umanità.
È una storia che inizia nel lontano 2008, anno in cui viene istituito un Comitato promotore per la certificazione delle Colline del Prosecco, finanziato con delibera regionale. Passano dieci anni prima che l’Italia arrivi a presentare un progetto definitivo alla Convention UNESCO in Bahrein, alla sua quarantaquattresima edizione. Per la redazione del dossier vengono scomodati addirittura pittori veneti del Rinascimento, tra cui Giorgione o Tiziano Vecellio. Nei loro quadri, scrivono i nostri rappresentanti, già comparivano le viti sullo sfondo. Certo, la prima attestazione di Prosecco appare nel ‘700, qualche secolo dopo, e la viticoltura intensiva di oggi non ha nulla a che vedere con il paesaggio rinascimentale, ma sempre di viti stiamo parlando, suvvia, bando alla puntigliosità. Il tentativo non porta, però, al risultato sperato e la candidatura viene respinta. La commissione di valutazione chiede, in particolare, di riconsiderare l’estensione e i confini dell’area in esame, che comprende 28 comuni e risulta quindi troppo estesa. Sostanzialmente non ne viene riconosciuta l’eccezionalità necessaria, l’unicità.
L’Italia, davanti all’esclusione, non ci sta e si dedica alla scrittura di un nuovo dossier. Così ha inizio una paziente opera di allestimento. L’estensione del sito diminuisce, anche se i confini non mancano di includere Conegliano nella zona cuscinetto, la cosiddetta buffer zone, ricoprendo, guarda caso, tutta la zona del Consorzio di produzione del Prosecco. Accantonando il presunto legame con l’arte figurativa, questa volta la viticoltura veneta fa capolino come “insediamento umano tradizionale” (si tratta del quinto tra i criteri che, secondo UNESCO, definiscono i beni culturali).
Ciò che conta, in fondo, è riuscire a raccontarlo nel modo giusto, magari selezionando qualche foto suggestiva. E in questo strutturato esercizio di astrazione, tutti gli sbancamenti, gli interventi di disboscamento, l’uso estremamente consistente di pesticidi, l’innesto di monocolture e la conseguente perdita irreversibile di biodiversità subiscono una rapida elisione, un taglio netto per non pensarci più. È un vuoto, tipografico ed ambientale, che costruisce il pieno di una visione. Verità o menzogna, ciò che conta è l’applauso. Vittoria! E il fondale scenico, con tutte quelle colline verdi, già non si ricorda più. Il leone di San Marco può primeggiare accanto alla bandiera italiana sotto i riflettori della Convention UNESCO di Baku in Azerbaijan: le colline del Prosecco di Conegliano e Valdobbiadene diventano patrimonio dell’umanità. Sì, perché checché se ne dica della tradizione, queste colline dalla prima candidatura rimangono intitolate ad unico prodotto. I vitigni, storicamente molto vari, dal verdiso al pignolo, dal raboso al marzemino, vengono tutti confezionati dalla grande etichetta del Prosecco.
Se da un lato ci sono i riflettori, l’ufficialità, i finanziamenti, i brindisi con bollicine di ben altra qualità, dall’altro c’è sempre la gente. La gente di queste colline, le cui abitazioni confinano con le distese di viti, da anni lotta contro l’uso massivo di pesticidi. A preoccupare è la salute della terra, ma anche la propria e quella dei propri figli. Una grande Marcia Stop Pesticidi, avvenuta domenica 19 maggio 2019, aveva di poco preceduto il responso di UNESCO alla seconda candidatura del sito trevigiano. Alla protesta aderivano quasi 200 associazioni e movimenti, riuniti per chiedere un uso sostenibile dei prodotti fitosanitari e una vera transizione ecologica dell’agricoltura.

Ma le denunce arrivano anche dall’alto, con il report redatto nel 2022 da Marcos Orellana, il capo degli ispettori Onu, che inserisce il Veneto nella lista delle grandi emergenze ambientali che minacciano la dignità umana. In tale sede spiega che “nella zona del Prosecco si arriva a un metro cubo di pesticidi per abitante l’anno e vanno trovate soluzioni per proteggere le persone vulnerabili, le scuole, gli ospedali e le zone archeologiche”. E richiama il Veneto per altri due dossier: i numerosi siti contaminati di Porto Marghera e il disastro dei Pfas (sostanze alchiliche perfluorurate e polifluorurate, composti chimici adottati in campo industriale per la loro capacità di rendere i prodotti impermeabili all’acqua e ai grassi) nei 30 comuni della cosiddetta “zona rossa”, tra Vicenza, Verona e Padova.
A queste critiche non manca di rispondere il Consorzio di Tutela del Conegliano Valdobbiadene Prosecco Docg. Dopo aver tessuto le lodi del distretto territoriale che “sta alacremente investendo in ricerca e innovazione allo scopo di rendere la viticoltura più sostenibile”, il punto fondamentale della replica fa perno proprio sul riconoscimento UNESCO: “UNESCO, per inserire un sito nella lista dei luoghi da tutelare, compie anche valutazioni di tipo ambientale che sono parte integrante del dossier di candidatura”. Se vinci, significa che puoi vincere, anche distruggendo un territorio. È l’essenza di una tautologia a cui finisce per credere l’autore stesso. Forse perché quella che circonda la questione del Prosecco è una trama complessa, economica, politica, ma anche fortemente identitaria. E quelle colline, ormai sfigurate dagli interventi umani, possono tornare ad essere parte di un immaginario incontaminato, perché è questa la verità a cui si è scelto di credere.
Così, genuinità ed erogatore automatico possono convivere perché, alla fine, sono la stessa cosa. Ritirare il prodotto: puoi finalmente godere il frutto della tradizione veneta.
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