di Cecilia Beretta
“Sostenevi la scuola di Francoforte, il marxismo scientifico di Althusser, flirtavi con la rivoluzione culturale cinese della quale in realtà non sapevi nulla, ma il vero piacere del tuo sé bibliofilo consisteva nell’accumulare libri su libri con la meravigliosa grafica Adelphi (ispirata a Aubrey Beardsley, si poteva essere più decadenti?). Era un godimento segreto mettersi a leggere La Cripta dei Cappuccini, nel 1974, quando uscì, dopo aver proclamato nelle piazze e nelle aule universitarie la fine della cultura borghese. Perfino i “dissidenti” del comunismo, come venivano chiamati una volta, erano accettabili se li pubblicava Adelphi”
Joseph Roth è arrivato a farsi conoscere e amare in Italia attraverso Adelphi che ha pubblicato progressivamente tutte le sue opere. Per decenni l’Italia fu l’unico paese in cui il nome Roth evocava subito lo scrittore austriaco Joseph, e non l’americano Philip.
Solo Adelphi avrebbe potuto far scoprire questo giornalista e scrittore ebreo alcolizzato che ha saputo raccontare il crollo di un mondo che si pensava (ancora) centro del mondo.
Nei suoi romanzi e racconti infatti Joseph Roth ci accompagna per mano in una inesorabile discesa nella Cripta dei Cappuccini, la tomba dove sono seppelliti gli imperatori, quando ancora echeggia la Marcia di Radetzky, ormai trasformata in una solenne e grottesca marcia funebre, funerale di un impero la cui morte viene preannunciata dall’attentato all’erede al trono Francesco Ferdinando. C’è qualcosa di più affascinante di una fine tanto tremenda quanto annunciata?
Apparentemente meno spiegabile è la genuina passione che questo romanzo ha saputo suscitare soprattutto in certi ambienti: quelli dell’estrema sinistra. Ad esempio tra i giovani del Movimento, i quali hanno a più riprese sostenuto fosse l’unico libro in cui si fossero ritrovati. Perché?
Il ’74 è l’anno di piazza della Loggia, della strage dell’Italicus e dell’arresto di Curcio ed è difficile capire come si intrecci tutto questo con la fine dell’Impero Austro Ungarico, con l’attentato di Sarajevo e la morte di Francesco Giuseppe.
La Cripta, infatti, non è altro che un lungo e disperato inno alla disintegrazione, un racconto quasi perfetto della Finis Austriae che non può che terminare in una tomba, nonostante i vani sforzi del protagonista del romanzo, Francesco Ferdinando (non a caso), di resuscitare il mondo che l’aveva generato.
Francesco Ferdinando Trotta è figlio di un ribelle e patriota, “una specie che è esistita solo nella vecchia Austria-Ungheria. Voleva riformare l’impero e salvare gli Asburgo. Aveva inteso troppo bene il senso della monarchia austriaca”. Il padre del protagonista è uno di quei padri di cui è disseminata l’opera di Roth che forse avrebbe potuto cambiare il corso della storia: possedeva due giornali di Zagabria e aveva fondato un partito sloveno ma, inevitabilmente, muore un anno e mezzo prima dell’assassinio dell’erede al trono e lascia un figlio frivolo e sciocco che vive alla giornata o, più esattamente, alla nottata.
Sullo sfondo di una Vienna sempre meno dorata e più livida il protagonista ci guida in una vita di superficie, di caffè, di aristocratici falliti alla spasmodica ricerca di diversivi e impulsi che possono trovare solo fuori di sé con cui condivide “la scettica leggerezza, la malinconica presunzione, la colpevole ignavia, l’arrogante dissipazione, tutti sintomi della rovina, di cui ancora non intuivamo l’approssimarsi”.
Per scappare a tutto questo Trotta si arruola, sposa una ragazza con cui non consuma la prima notte di nozze, attraversa l’Europa e finisce prigioniero. Non con la smania camaleontica di Franz Tunda in Fuga senza fine il quale vive ogni fase fino a consumarla, ma con la stessa inerzia malinconica dalla quale tentava di scappare.
Alla fine torna a vivere con la madre, vedova austera e compostissima, simbolo della madre Austria, in una casa di cui affitta sempre più stanze, che si riempie di sconosciuti e amici che non pagano l’affitto. La moglie gli sarà infedele, vanesia, affermativa e perennemente irraggiungibile, avrà una storia con un’altra donna e non basterà un figlio verso il quale il protagonista non prova apparentemente nessun affetto a ricomporre le cicatrici di un rapporto teso sul nulla.
Forse questo libro è piaciuto così tanto ai ragazzi degli anni ’70 che volevano cambiare il mondo proprio per la volontà di confutare il pessimismo di Roth che pure sentivano così vicino. L’hanno amato quasi come la rinuncia ad una tentazione, per contrarietà, per spiegarci che non c’è una sola direzione all’uscita di una crisi, né inesorabilità.
Volevo fare delle ulteriori ipotesi ma mi trovavo in difficoltà. Quindi ho deciso di chiederlo a chi, negli anni ’70, del Movimento faceva parte, riportandone le parole.
Daniele ha letto La Cripta dei Cappuccini nei primi anni Ottanta e mi ha confermato che tutti i giovani della sinistra radicale in quegli anni leggevano e regalavano Roth. Alla domanda sulle motivazioni mi ha risposto così:
Ho letto il libro in quel periodo che chiamavamo del riflusso. Molti dei miei “compagni d’armi” erano nelle patrie galere, alcune e alcuni di quelli liberi finivano nell’eroina. I pochi superstiti, come me, nonostante il gran agitarsi, soprattutto per i diritti dei detenuti, si sentivano più o meno superflui, straniati e frustrati. Proprio come i personaggi di Roth: “Non aveva nessuna professione, nessun amore, nessun desiderio, nessuna speranza, nessuna ambizione e nemmeno egoismo. Superfluo come lui non c’era nessuno” (Fuga senza fine).
Sicuramente ci affascinava la perpetua migrazione degli ebrei orientali, magistralmente descritta attraverso frammenti di racconto in Ebrei erranti e presente – nella forma del romanzo – sia ne La Cripta che in Fuga senza fine. E negli anni della mia lettura ero (e non ero il solo) davvero sempre alla ricerca di un altrove.
Esistono molti tipi di erranza e mobilità sociale, orizzontale e verticale. Quelle imposte alle classi sociali dalla Storia, quelle perseguite (“Ma io volevo morire con Joseph Branco, con mio cugino Joseph Branco, il caldarrostaio, e con Manes Reisiger, il vetturino di Zlotogrod, e non con dei ballerini di valzer”) o subite, come nel caso dei Trotta affittacamere. E c’è anche quella solo anelata: “Mio figlio Ephrain non ha bisogno più di suonare. Sarà ministro quando verrà la rivoluzione” dice il vetturino del figlio che ha abbandonato il conservatorio e che finirà ucciso perché, come annota con malizioso disincanto il nobile Chojnicki alla pagina successiva, “Le rivoluzioni di oggi hanno un difetto: non riescono”.
In chiusura potrei dire che, forse, più che per ogni altro motivo, amavamo Roth, il quale rivoluzionario politico non era, perché raccontava le rivoluzioni – quelle che non riescono e quelle che riescono male – senza mito.
Probabilmente non esiste nessuna ragione reale e definitiva, ma una potente risonanza di atmosfera, un clima lugubre e disperato in cui non c’è salvezza. Nessun angelo può riportare indietro le lancette del tempo e lo spazio stesso si sgretola sotto i piedi dei protagonisti. Perché chi ha sparato sugli orologi sono i nemici, non solo del passato ma anche del futuro.
Il protagonista della Cripta dei Cappuccini è al contempo inerme e delicato, capace di sconvolgersi per la morte del domestico di una vita, affetto dalla perenne sensazione di essere orfano e da una solitudine tanto disumana quanto inscalfibile. Attraverso le gesta di Francesco Ferdinando Trotta si respira la fine del mondo, ma anche il debole desiderio di un mondo nuovo, una nostalgia tremenda vissuta come una colpa di cui non si può parlare ma si può solo leggere.
La Cripta dei Cappuccini trova la sua fine in un bar pochi minuti prima dell’Apocalisse, con l’avvento del Nazismo. I baristi ebrei sono scomparsi e l’unico dialogo possibile è quello con un cane sciancato. La Madre è morta, il figlio è stato affidato ad altri e c’è solo solitudine e incuria nei confronti del mondo. Il sopraggiungere della sera è un transitorio momento di sollievo ma non può lavare via la sensazione di essere “uno che è vivo per errore”.
“Escluso in mezzo a vivi significa qualcosa come: extraterritoriale. Ero appunto un extraterritoriale in mezzo ai vivi (…) Andai dunque a sedermi al caffè e mentre gli amici al mio tavolo continuavano a parlare delle loro faccende private, io, che per un destino non meno inesorabile che clemente vedevo esclusa ogni possibilità di un mio interesse privato, sentivo ormai solo quello generale, che in vita mia ero stato solito sfuggire…”
La storia si conclude un attimo dopo la lucida consapevolezza di questa sensazione, quando tutta la luce viene definitivamente assorbita dal buio, nel locale fanno irruzione le SS, gli amici non scappano ma sono già scappati e a Trotta rimangono in mano solo due smunti ceri da morto, come “vermi bianchi, eretti, accesi” e una croce uncinata di piombo.
Il cane Franz che si chiama come il cameriere ebreo Franz non porta il conto ma continua a servire come Trotta ha servito il suo imperatore con la sola consolazione che “Chi uccide, sarà ucciso. Dio è grande e giusto”.
Trotta, esausto e spaurito, esce dopo il proprietario tirandosi dietro la saracinesca con la domanda “Dove devo andare, ora, io un Trotta?…” L’unica azione possibile è ritirarsi nella Cripta dei Cappuccini.
La Marcia di Radetzky, il romanzo antecedente di Roth, e La Cripta dei Cappuccini sviscerano il rapporto impossibile di un figlio con il proprio padre simbolico e di un cittadino senza più patria, ma anche l’infelicità e la crescente incomunicabilità insita al divenire adulti. Adulti senza illusioni e senza radici, personaggi con lo sguardo rivolto all’indietro, un presente scricchiolante e estraneo che si rigirano tra le mani senza sapere cosa farne e l’impossibilità di opporvi un futuro, perché privi dell’energia di inventarlo.
Questo tema è centrale anche in un libro antecedente: Zipper e suo padre, che anticipa di dieci anni i temi degli altri due romanzi, ponendone le basi in modo più esplicito e straziante. In ognuno dei tre romanzi torna con forza la presenza/assenza del padre, il sentirsi parte di una generazione di reduci, quasi a formare una trilogia dell’estinzione.
Roth conclude il romanzo con una lettera del narratore ad Arnold Zipper, il figlio al centro del titolo e scrive: “Noi non riusciremo mai a farci capire, mio caro Arnold, come ancora tuo Padre ha potuto. Siamo decimati. Siamo troppo pochi. Troppo pochi per questo mondo nel quale solo il peso puramente fisico della massa riesce a sfondare e non l’energia spirituale di un singolo”.
Forse questo può spiegare perché sia tanto piaciuto ai giovani del Movimento.