di Emanuele Caon
Cogliamo l’occasione, ora che la chiusura della Biennale Architettura si avvicina, ma soprattutto in occasione del presidio organizzato da Mi Riconosci, Sale Docks, ADL e Institute for Radical Immaginations, per fare il punto sulle forme di lavoro e sfruttamento in Biennale. Un soggetto di queste dimensioni e di questo rilievo nazionale e internazionale è un banco di prova per la precarizzazione e lo sfruttamento, ma anche per le forme concrete di lotta. Diamo quindi conto di ciò che è accaduto sabato 28 ottobre. Ringraziamo Nicolò Zanatta per le fotografie.
La più grande fabbrica di Venezia, lo scrivevamo a maggio, è la Biennale: la mattina frotte di lavoratori attraversano i suoi cancelli diffusi per dare vita a un grande evento, sempre più grande, che attraversa metà dell’anno veneziano su superfici sempre più ampie. Il numero di chi, a vario titolo, lavora per la realizzazione di questa eccellenza culturale, è grande e non è chiaramente definibile: in Biennale c’è praticamente tutto quel che sullo scompaginato mercato del lavoro italiano si può trovare: dai tirocinanti agli stagisti, dai contratti a tempo indeterminato a quelli a chiamata fino ai liberi professionisti, dai veneziani ai giapponesi, passando per le più diverse retribuzioni e tabellazioni orarie. In occasione dell’inaugurazione della Biennale ci chiedevamo dunque: cultura o sfruttamento?
Come è organizzata la Biennale?
L’organizzazione della Biennale, sia di arte o di architettura o di altre recenti innovazioni non cambia, è articolata su più livelli. La Biennale è una fondazione pubblica, partecipata dal Comune e dalla Regione. A comandare sono quindi Zaia e Brugnaro; da marzo si aggiungerà il nuovo presidente, Pietrangelo Buttafuoco, di diretta nomina governativa.
La Fondazione ha una sessantina di lavoratori diretti, assunti per garantire l’ordinaria amministrazione di una struttura non certo leggera; ha un giro di appalti veri e propri, direttamente emanati e gestiti dalla Fondazione, per la biglietteria, la ristorazione e parte della logistica. Tutto il resto – stime credibili parlano di quasi 800 persone – è costituito da persone che lavorano per terzi. Senza dunque appalti diretti.
L’esempio principe per capire la struttura è quello dei padiglioni. La proprietà degli spazi è del comune, che li dà in concessione – ad esempio ai singoli stati esteri – dietro compenso. Lo stesso accade per gli eventi secondari, che hanno luogo in zone di Venezia esterne all’Arsenale e ai Giardini, ma che comunque versano un contributo in cambio dell’uso del brand Biennale. Al netto dei patti di concessione di spazi e brand, i soggetti che operano all’interno della Biennale sono formalmente liberi di immaginare i rapporti lavorativi con i propri dipendenti come meglio ritengono. La Fondazione in merito indica come opportuna (ma come si trattasse di un semplice suggerimento) l’applicazione del contratto Commercio – che non sarebbe nemmeno il contratto corretto: il Federculture.
In questa situazione, accade di tutto. Le persone che lavorano hanno le provenienze e le esigenze più diverse: si passa dal pensionato veneziano che vuole fare un po’ di volontariato – con tutti i problemi che lo sfruttamento massiccio del volontariato comporta in questi ambiti – allo studente indiano che in cambio di una paghetta da stagista vede stabilizzata la propria posizione a Venezia; dal mestrino che in questo ambito lavora da tutta la vita al laureato europeo in Beni Culturali che trova qui il primo impiego come tirocinante.
Pure i soggetti intermedi sono i più diversi; anche se la parte del leone è fatta dalle cooperative, spesso veneziane o del territorio limitrofo. Ci sono casi che si pongono oltre il limite della legalità; da chi lavora nel contesto Biennale giungono lamentele per inquadramenti contrattuali al limite del ridicolo, come mediatori culturali a cui è chiesta una preparazione in beni culturali e la conoscenza di più lingue straniere, ma che poi vengono assunti per mansioni di guardiania. Si segnalano paghe da fame, finte partite iva, ma anche lavoro nero.
Biennalocene: cosa succede ora?
Nel corso di quest’anno è nato un percorso, Biennalocene, organizzato da diversi soggetti che a vario titolo intercettano i lavoratori della Biennale. Fra i protagonisti troviamo: Sale Docks, progettualità presente da quasi vent’anni a Venezia che affronta il legame fra cultura, privatizzazioni, politiche; Mi Riconosci, che in questi anni ha approfondito il proprio lavoro sul territorio nazionale e guarda con interesse al laboratorio-Biennale; ADL Cobas che a partire dalla pandemia ha allargato il proprio raggio di azione al lavoro culturale, nel quale le forme di sfruttamento basate sulle cooperative rispecchiano parzialmente quanto avviene in settori contigui, come quello della logistica; Institute of Radical Immaginations, che prova a tessere fili nell’area euromediterranea affermando «art is political prefiguration, political prefiguration is art». Come si può intuire, nella riflessione entrano a pieno titolo i rapporti di lavoro ma anche, parallelamente, le problematiche legate al rapporto fra arte e politica e fra artista e pubblico (pagante).
Con grande concretezza sabato 28, con un presidio e una performance all’interno della Mostra, Biennalocene affronta il nodo dei rapporti di lavoro interni a Biennale, attraverso la presentazione della Carta Metropolitana del Lavoro Culturale. I contenuti riguardano il salario – minimo 10 euro l’ora –, la continuità, le discriminazioni, alcuni diritti fondamentali. La richiesta vera e propria, espressa fra le righe, si colloca su un altro piano, politico piuttosto che sindacale: che sia la Fondazione Biennale a farsi carico del rispetto dei contenuti della Carta, superando la radicale frammentazione cui i lavoratori sono stati costretti dalla complessa rete di rapporti di lavoro sopra descritta; superando in questo senso la selva delle esternalizzazioni sfrenate, riducendole al minimo e comunque alle attività accessorie.
Approfondiamo il senso di questa operazione: da una parte, individuare come controparte la Fondazione Biennale significa affermare che la tutela di rapporti di lavoro dignitosi sta in carico allo Stato nelle sue istituzioni anche locali. Dall’altro, si deve guardare allo specifico del settore artistico, che troppo spesso viene ancora considerato come volontaristico, o velleitario, opera e svago di artisti ragazzini e di maestranze non qualificate. Un settore in cui si possono non concedere tutele o riconoscere diritti perché, in fondo, non è vero e proprio lavoro. Anche se sostiene e fa funzionare la maggiore fabbrica della città di Venezia, una delle più formidabili nonché la testa d’ariete del suo successo turistico.