di Tancredi Castelli
Il 24 giugno 1928 allo Stadio Flaminio di Roma si sfidano sul ring Leone Jacovacci e Mario Bosisio, in palio il titolo italiano ed europeo dei medi. Alla sfida tra il “toro fascista” e il “nero di Roma”, assistono 40.000 spettatori; alla fine la spunta quest’ultimo. Ma di quei 15 round resta ben poco sui giornali del tempo e sul nastro rilasciato dall’Istituto LUCE. Leone Jacovacci è un pugile nero nel ventennio fascista. Per molto tempo vive in Inghilterra e in Francia, dove inizia a tirare di boxe. Solo nel 1925 decide di tornare in Italia, luogo natale del padre (la madre era originaria del Congo Belga). Il riconoscimento della cittadinanza è un iter molto lungo e, una volta ottenuta, sfida per la prima volta Bosisio a Milano nel 1927. Perde ai punti, ma, a quasi cent’anni dal match, la sentenza rimane strana, dato che lo sfidante era andato al tappeto ben due volte durante la seconda ripresa. La rivincita avviene l’anno dopo, quando Jacovacci batte finalmente il rivale, che lascia il titolo con un sorriso. Ai tempi, durante queste due battaglie si scontravano la Milano della Federazione e la Roma di Mussolini, ma in meno di 10 anni la situazione cambia: a sfidarsi erano un nero e un bianco. Il nero aveva vinto. Jacovacci muore quasi sconosciuto, dopo aver lavorato una vita come portiere. Di lui restano poche tracce: il filmato LUCE è stato rivisto, rimontato, tagliato, e i giornali non si trovano. Non appena la “questione della razza” diventa un tema caldo del Fascismo, Jacovacci scompare.

«Il voler insabbiare un atleta che era così splendido solo perché era di colore ha rappresentato per noi il nostro essere, il nostro esserci. A Verona sembra sempre che non ci sia niente, eppure… siamo qua.»
Sto chiacchierando con M.. È uno degli atleti più vecchi della palestra; a quasi cent’anni da quel match, incontro per la prima volta i membri della Palestra popolare Jacovacci. Appena arrivato, cerco G., il mio contatto. Non so il motivo, ma lo trovo subito; forse vedo la stazza atletica, alto e grande. Mi accoglie sorridendo e mi porta a fare un giro della struttura. Passiamo attraverso i tavoli dove stanno seduti compagne, amici, persone che passavano per caso. Oltrepassiamo un campo da calcio a ridosso delle mura asburgiche coperte d’edera. Mi guardo attorno per cercare la porta della palestra. Non trovo niente. Continuiamo a camminare, saliamo un breve pendio e arriviamo a uno slargo piastrellato. C’è un tendone, alcuni pali di ferro e qualche sacco a terra. G. si gira e mi dice: «di inverno ci vuole proprio passione! Ma se lo fanno anche in altri sport, perché noi no?». La palestra è tutta all’esterno e tutta fatta da loro. Prima c’era solo della terra battuta e il “container-spogliatoio”: non il tendone, non gli attrezzi, non le piastrelle. G. è molto orgoglioso delle piastrelle. Mi parla di una sorta di crowdfunding di materiali (soprattutto di piastrelle). Mi dice che hanno fatto tutto loro, insieme: è stato un momento importante, un modo per stare insieme, di lavorare per sé e per gli altri, guardando allo stesso obiettivo. È stato un momento in cui il gruppo si è consolidato.
Penso a cosa significhi dare vita a uno spazio, uno spazio verde, uno spazio di passaggio come questo.

Sono lì dai tempi del Covid, quando non si capiva più cosa si potesse fare e cosa no. La palestra nasce nel 2018 e non ha mai avuto una vera e propria sede. Gli atleti e le atlete si allenavano in spazi amici, a volte in qualche parchetto, poi tutto è stato chiuso e a restare aperti erano solo questi spazi, quelli vuoti agli occhi delle istituzioni e della gente del centro. G. mi ha presentato P.. Ha una certa età e conosce bene la storia del posto. Nel 2007, finita l’esperienza de La Chimica («l’unico centro sociale di Verona demolito» dice R. con un po’ di orgoglio durante l’assemblea e io spero di trovare la famosa foto di Flavio Tosi, lo sceriffo di Verona, sulla ruspa), restano le reti che negli anni si erano costruite. Nasce il coordinamento antifascista e antirazzista. Ragionando con il Magazzino 47, nasce Critical Wine. Quest’ultimo è un progetto centrato sul problema della distribuzione dei prodotti alimentari e porta una voglia nuova di tornare alla terra, allo spazio. Il parco, intanto, è gestito da un’associazione sportiva dilettantistica. P. mi dice che ci giocava a calcio e che “c’era un po’ chiunque”; ride. Il presidente della “società”, però, a un certo punto si stufa, non vuole stare dietro a un posto del genere e minaccia di farci un campo di patate. Alcuni della squadra provano a parlarci e alla fine riescono a ottenerne la gestione. Lo sport è ancora una questione incidentale; per ora il problema e tutte le possibilità stanno nella capacità di «sfruttare le potenzialità dello spazio». Le date importanti sono due. Il 2014 è l’anno degli sbarchi. Poco distante nasce un centro di accoglienza. I ragazzi migranti iniziano a frequentare il campo. Lo riempiono. Sono qui anche oggi, a giocare a calcio; sono per lo più senegalesi e gambiani. P. mi dice che hanno fatto una squadra: si chiama Senegambia. Come loro, molti altri legati agli ambienti di sinistra si avvicinano: lo spazio sta diventando un punto di aggregazione. Si pone il problema della gestione. È il sintomo che qualcosa sta accadendo. È il salto di qualità: bisogna cambiare «la forma dell’essere qui». Nasce così un esperimento di cogestione che dura tuttora nell’assemblea a cui anche la palestra partecipa. Il secondo anno importante è il 2020, quello della chiusura. È l’anno in cui abbiamo capito che la socialità dipende strettamente dagli spazi dedicati a essa. Con gli spazi chiusi e inaccessibili anche le assemblee sono un problema. Così il parco diventa una risorsa. Varie realtà della sinistra veronese si iniziano a riunire lì. L’esperimento si amplia.
«Quindi non avete problemi con il Comune o altro?». Chiedo. «Forse». Mi risponde G. sorridendo.

Mi prendo una birra e preparo le domande. Oggi sono qui per parlare di sport popolare. Per chi viene da certi ambienti forse la domanda è scontata, ma trovare una definizione ci sembra impossibile. Così volevo sentire qualcuno che mi dicesse come la pensa e ora davanti a me ho M. e G..
M.: «È una maniera alternativa di fare sport. Il che non vuol dire fare sport in modo qualitativamente più basso. Vuol dire fare uno sport che va controcorrente rispetto al sistema sportivo proposto dalla nostra società e, nel nostro caso, dalla nostra città. Io parlo soprattutto per gli sport da combattimento che sono spesso, le palestre di questi sport, luoghi in cui c’è sempre un clima molto esaltato, molto competitivo, dove sei sempre portato a dare il massimo, dove sei spronato anche con metodi che vanno contro le logiche di sport. Motivatori negativi (ambiente tossico, dice G.). Invece che fare sfogare la rabbia, ne generano dell’altra. Al contrario, lo sport popolare per noi è un modo per includere tutte le persone che sono escluse dallo sport da combattimento classico. Le persone che non possono permetterselo, chi ha paura ad avvicinarsi: soggetti ai margini o con una sensibilità diversa rispetto al classico ragazzino di periferia incazzato con il mondo. Magari può essere il migrante, la ragazza. Può essere una persona qualsiasi che non ci ha neanche mai pensato, perché la boxe la vede come gliela ha dipinta la società. Invece, la boxe (la nostra palestra fa solo boxe) è uno sport povero che nasce da niente che non ha bisogno di niente per essere praticato. Da qui è nata l’idea di fare una palestra diversa qui a Verona. Di andare controcorrente. Avevamo voglia di trasmettere un messaggio diverso in una città come questa. Una città in cui lo sport popolare, uno sport diverso, non è mai esistito. Questa è un po’ la mia visione delle cose ed è in parte il motivo per cui è nata la nostra palestra».
G.: «Proprio per questi motivi, io mi sono avvicinato alla boxe da zero attraverso la palestra Jacovacci, dopo un anno che era nata. A me lo sport è sempre piaciuto. Però volevo fare sport in un contesto non-tossico, non solo nell’approccio ma anche nei valori che porta. Insomma volevo che lo sport contenesse anche un punto di vista politico. Noi siamo caratterizzati dall’antifascismo che per noi vuol dire anche antisessismo e antirazzismo, valori fondamentali da portare avanti nel posto in cui fai sport. Cioè aggregare e portare dei valori. Noi abbiamo avuto contraddizioni al nostro interno, ma le abbiamo risolte confrontandoci perché il gruppo era abituato a stare insieme, a farlo attraverso lo sport. È importante che tu faccia politica anche se in modo non tradizionale…»
M.: «…in maniera nuova rispetto a uno spazio politico o culturale, che sia. È una maniera diversa per far crescere dei valori. Se non ci fosse stata la palestra, tutto questo giro di persone che sono passate in questi anni, magari non si sarebbero avvicinati a determinati contesti politici e culturali. Non gli sarebbero stati trasmessi dei valori. Lo sport, soprattutto in questi anni in cui molti CSO sono stati sgomberati e il prototipo di far politica del centro sociale è andato a scemare, lo sport popolare (soprattutto con il Covid) ha ripreso forza in tutta Italia. In un contesto in cui i movimenti si trovano un po’ in crisi a livello di piazza, di spazi, lo sport è sicuramente un’arma da giocare quando non sai come arrivare alle persone».
Alla Jacovacci lo sport popolare tiene insieme la dimensione dell’inclusione e della politica. Si dice sempre che lo sport sia di tutti, ma spesso non è così. Fare sport costa. Ci sono sport da uomini e sport da donne. Esistono barriere che facciamo finta di non vedere ogni giorno fuori dallo spogliatoio e che al suo interno spesso si fanno più evidenti. Tutto questo è già contenuto politico. Nonostante le continue campagne contro il razzismo, le curve continuano a ululare; nonostante gli arcobaleni, gli atlet* hanno paura di mostrare la propria identità non-eteronormata; nonostante i grandi risultati dello sport femminile, le sportive vengono sempre giudicate in base all’aspetto. Insomma, sembra che si faccia sempre tanto, quando in realtà non si fa niente. Nello sport popolare così non è. È banale forse, ma qui si fa già qualcosa semplicemente allenandosi. Palestre politiche. Parliamo di trasmissione di valori come l’antirazzismo e l’antisessismo, ma c’è anche la pratica: lavorare insieme, coordinarsi, discutere e dialogare. Nel momento in cui lo spazio permette questo tipo di attività, anche tali semplicità acquistano un peso relativo immenso e lo sport diventa progettualità. Il singolo con i propri bisogni e i propri desideri si riesce a riconoscere in un collettivo.
Lo diceva anche P. «chiunque entri qui è ben accetto, ma sappia che sta entrando in un perimetro politico».

Parlando di valori, prima, mentre aspettavo in coda al bar, ho fatto qualche chiacchiera con L., altro atleta Jacovacci. È un tipo molto tranquillo e cordiale. Mi ha fatto strano, poi, vederlo nel quadrato con i guantoni, sentire il suono dei suoi pugni. Gli chiedo il perché della boxe. M. mi ha già detto molto, ma lui riesce a parlarmi di che cosa vuol dire stare sul ring. Mi parla dei valori e di come sia facile perdersi. Insomma la boxe non è solo menarsi, vincere, annientare l’avversario. È uno scontro anche contro se stessi, una lotta per non smarrirsi nel momento in cui ti lasci andare alle sensazioni del corpo. Dietro a ogni sport c’è una morale specifica. Da esterno, ho sempre visto i match come se fossero scontri tra tigri (Eye of the Tiger), tra bestie che si odiano fra loro e si vogliono sbranare. Non è così, più il coefficiente di rischio si alza, più le regole devono essere chiare. A monte di tutto sta poi un codice non scritto: rispetta l’avversario. Non lottare per distruggerlo, ma lotta per te stesso, per metterti alla prova sul piano fisico, sul piano mentale e soprattutto sul piano del cuore.
La boxe, diceva M., si trova per questo in un momento difficile. Da un po’ di anni a questa parte sta subendo la concorrenza (sleale) del MMA. Mi parla dei face to face e delle differenze tra i vari sport. «Nella boxe e anche nella thai difficilmente c’è mancanza di rispetto, mentre in altri sport, come l’MMA, c’è molto più spettacolo. Per questo la boxe tira molto di meno. Oggi va di moda l’idea del gonfiarsi, del menare duro, dell’annientarsi, mentre la boxe nasce dalla strada, dalla periferia, dal disagio e cerca di mettere in riga chi viene da lì con valori sani. Primo fra tutti il rispetto».

Sta per avere inizio lo sparring. Mi trovo un posto defilato e guardo le tante facce che mi circondano. Ripenso a quello che G., M. e P. mi hanno detto sull’assemblea. Sul ring, intanto, stanno C. della Jacovacci e una ragazza della padovana Chinatown. L’assemblea è una forma di coordinamento, risponde a un bisogno pratico. Le due palestre iniziano a scaldarsi, il brusio aumenta tra gli incitamenti e i consigli. “Non farti mettere sotto!”, “tieni alta la guardia!”. Se le danno forte. Ma non è solo questo. Qui ci sono molte attività, molti modi di stare insieme. Ci si allena e si pensa. Nell’assemblea si crea una sintesi. In quei momenti, i singoli, con le proprie visioni del mondo, con i propri ragionamenti politici e le proprie strategie, si devono per forza confrontare. P. mi ha fatto un elenco: la Palestra, il gruppo di lancio dei coltelli, c’è Senegambia, un gruppo di autodifesa femminista… C. è chiusa in difesa e subisce, ma in un attimo riesce a lanciare un jab oltre la guardia avversaria. Incassa. Insomma, lì c’è una mediazione, un confronto, una sintesi. Ding Ding Ding. Suona la sirena messa dal telefono. Penso al rapporto tra il singolo e il collettivo. Penso ai modi di vivere attivamente la propria responsabilità politica. Le atlete abbassano la guardia, si cercano con le mani.
Si abbracciano con i guantoni.
Me ne vado contento di aver scoperto questo spazio e con la sensazione di aver capito perché quelle piastrelle sono così importanti.
Ringrazio la gentilezza dei ragazz* della palestra, la disponibilità di tutt* quell* che hanno voluto scambiare due chiacchere o una birra con me e, infine, Enrico per le foto.