di Lorenzo Zaggia
Tra il 1974 e il 1975, Laurie Anderson si trova a Genova. Ferma gruppetti di passanti raccontando storie della sua vita e facendo ascoltare le sue composizioni per violino. Indossa un paio di pattini con le lame conficcate in blocchi di ghiaccio; quando perde l’equilibrio e cade per terra, i malcapitati sono liberi di andarsene.
Pochi anni dopo la ritroviamo in un contesto completamente diverso: è all’Opera House della Brooklyn Academy of Music, di fronte ad un pubblico di duemila persone. Ha otto ore di spettacolo da mettere in scena in due serate. Lo spettacolo ha un nome semplice e ambizioso: United States. Tra i vari brani ne spicca uno che si apre con il messaggio di una segreteria e cita il motto del servizio postale americano.
Nel 1980, la stessa canzone viene pubblicata come singolo. Il piano è di venderla via posta, ma sorprendentemente la modesta tiratura organizzata dalla piccola casa discografica che l’ha rilasciata in America non può fare fronte alle pressanti richieste che giungono dall’estero e dall’Inghilterra in particolare. Serve una distribuzione più ampia, ma per questo bisogna scendere a compromessi. Un anno dopo la canzone è al secondo posto della classifica dei singoli inglesi, e Laurie Anderson si ritrova ingaggiata da una delle maggiori etichette americane, la Warner Brothers Records, con un contratto per registrare otto album.
Un bizzarro gioco del destino mette i mezzi che di regola sono al servizio dell’ennesimo artista pop promettente in mano a Laurie Anderson, una donna che ha trascorso gli anni ‘70 addentrandosi nel vasto mondo dell’avanguardia artistica newyorchese, tra John Cage, Philip Glass, Robert Wilson, Patti Smith e William S. Burroughs. Un salto impressionante e impensato — non solo per Anderson ma anche per il mondo artistico che abita.
L’inizio degli anni ottanta segna un punto di non ritorno per l’avanguardia americana. Se il 1981 si apre con un ballo anti-inaugurale per l’elezione di Ronald Reagan, e una decisione come quella di Laurie Anderson è ancora guardata con diffidenza (aleggia l’accusa di selling out), pochi anni dopo un accordo con un’etichetta discografica mainstream non sarà altro che un’ottima mossa commerciale. Ma Laurie Anderson non è tipa da dimenticare così in fretta le sue origini e la sua vocazione.
Per il suo debutto discografico sceglie di rovistare tra il materiale per il suo colossale United States, il ritratto di una nazione approdata ad un periodo di benessere economico senza precedenti, ma anche di progressiva frammentazione sociale ed impoverimento culturale. È un mosaico di brevi pezzi di performance e musica che orbitano sostanzialmente attorno a quattro temi: Trasporti, Politica, Denaro, Amore. Big Science potrebbe essere considerato quasi una sorta di “best of” di questa ricchissima opera.
Riascoltato dopo tutto questo tempo, Big Science dà l’impressione paradossale di essere sia tremendamente avanti rispetto alla sua epoca che fondamentalmente incompatibile con il panorama musicale odierno, quasi come se fosse in dialogo con un futuro alternativo. Anche se vi si rincontrano alcune delle tecniche che ormai sono di prassi comune, orecchie abituate all’accessibilità della musica pop trovano a stento un appiglio, un richiamo a qualcosa che sia una vera e propria melodia. Allo stesso tempo, però, pensare a Big Science come una sorta di luogo inaccessibile, completamente impermeabile al piacere dell’ascolto è dire solo una mezza verità. Come molti altri, è un album che non si rifiuta al suo pubblico; è che la sua fruibilità si esprime in modo diverso, in un linguaggio completamente estraneo da quello del mondo del pop.
Ad esempio, se qualcosa colpisce della musica in Big Science è quanto i suoi arrangiamenti (radicali ma mai abrasivi, discreti ma mai insignificanti) possano, ad un primo ascolto, trovare quasi un punto di contatto con le frange della sensibilità pop odierna che ricercano un certo minimalismo. Ma se nella musica pop questa etichetta è spesso una scusa che permette al pezzo di passare quasi inosservato, nel caso di Big Science si tratta di una deliberata scelta artistica, della prima traccia del carattere particolare dell’album, della sua austerità minacciosa. Principalmente gli elementi in gioco sono due: da una parte le note di sottofondo delle tastiere, che ricordano quasi dei droni, dall’altra le percussioni, mantenute ad un ritmo moderato e ridotte spesso ad un singolo pulsare di tamburo; occasionali incursioni smuovono questa cappa quasi immobile, tra cui gli strumenti a fiato che segnano soprattutto la cacofonia quasi Klezmer di “Example #22”.
Al centro della performance c’è comunque Laurie Anderson. Oltre ad occuparsi delle tastiere, fornisce i contributi musicali più potenti col suo violino, lo strumento che la accompagna da sempre nella sua carriera artistica. Contrasta in modo decisivo con il resto dell’arrangiamento; dove domina la freddezza dei sintetizzatori, gli ingressi dello strumento a corde riportano al centro del panorama sonoro dell’album un elemento lirico, struggente. Il momento in cui gli viene concesso il maggior respiro è forse il lungo assolo che conclude “Born, Never Asked”, appena sostenuto dal pulsare di sintetizzatori, una marimba e battiti di mano. È un momento ancora più spiazzante nella sua melanconia se si considera la breve introduzione parlata del brano, la risposta alla domanda «Come sono nato?»: l’entrata al mondo non è altro che l’entrata in scena, è essa stessa la risposta al pubblico raccolto in una stanza a chiedersi «cosa c’è dietro a quel sipario?». È una risposta che più che offrire una soluzione dimostra il limite del voyeurismo in una società ormai completamente assuefatta alla prassi dello spettacolo: la domanda degli spettatori è la stessa di chi sta in scena, e punta ad un “prima” inquietante, irraggiungibile, inconcepibile — e forse ormai nemmeno necessario: ciò che sta dietro al sipario acquista senso solo una volta che si sarà aperto.
La cosa più surreale di tutte resta che questo enigma irrisolvibile sia presentato da una voce priva di qualunque tipo di enfasi, quasi anonima. E in effetti la chiave di volta dell’album, il tratto che più contribuisce a fornirgli il suo carattere così peculiare, sta probabilmente nella voce della stessa Laurie Anderson. Dove non è mascherata da effetti che ne alterano il timbro (“Let X=X”, ad esempio) o straziata all’inverosimile nel cantato di “Sweaters” o “Example #22”, aderisce perfettamente al parlato di tutti i giorni, arrivando persino ad imitarne le incertezze. Ma questa serietà un po’ dimessa, quasi noncurante, è veicolo di testi a volte al limite dell’inverosimile: il senso di Laurie Anderson per il comico sfocia in un deadpan che mescola impercettibilmente allucinazione e quotidianità, metafora e lettera, denunciando l’assurdità di entrambi. È evidente fin dal brano di apertura, “From The Air”, in cui la voce completamente calma di un pilota d’aereo informa i suoi passeggeri che “stiamo per effettuare un atterraggio di emergenza”, ma a questa terribile notizia aggiunge anche affermazioni inquietanti:
Sapete, ho la strana sensazione di aver già visto tutto questo.
Perché?
Perché sono un cavernicolo.
Perché ho degli occhi dietro la testa.
Se persino i piloti d’aereo sono cavernicoli con occhi perennemente rivolti al passato, che cosa può voler dire parlare del futuro nel mondo dipinto da Big Science? Da una parte, sembra che la realtà sconfini sempre di più nel virtuale. Nel collage di immagini, stralci di dialogo e impressioni della title track ci troviamo, ad esempio, di fronte ad un labirinto urbano semplicemente proiettato, in cui i ciascuna zona è contrassegnata da ciò che vi verrà costruito: dunque una delle voci può fornire le indicazioni all’altra per raggiungere la città dicendole «Beh, gira a destra di dove costruiranno il nuovo supermercato, passa oltre a dove metteranno la nuova autostrada, svolta a sinistra del posto in cui ci sarà il nuovo centro sportivo…». Ma il gelo dell’astrazione non proviene soltanto da un futuro imposto; piuttosto, appartiene intrinsecamente al presente. I rapporti umani, in particolare, sono come atrofizzati, incapaci di concedersi al cambiamento. La conclusione dell’album, “It Tango”, ne è un ottimo esempio. Due personaggi, ‘lui’ e ‘lei’, tentano di identificare una figura; e proprio come nella storia biblica è lui, una specie di Adamo, che insiste con un nome in particolare: «Non è proprio come una donna?». A lei non resta che arrendersi; la voce di Anderson dice che «lei ha detto: ne serve una per riconoscerla», ma anche che «lei non l’ha detto a nessuno».
Ogni rapporto è un rapporto di forza, e questo diventa evidente soprattutto nella relazione fondamentale, quella tra genitori e figli. Se i figli non riescono a concepire di essere venuti al mondo, chi li precede è una madre che non è mai diventata madre perché lo è sempre stato. È questa figura a dominare “O Superman”, il perno dell’album, la canzone che ha proiettato Laurie Anderson al di fuori della sua cerchia ristretta rendendola quasi una star. Unità ritmica e cellula generativa del pezzo è una sillaba filtrata attraverso il vocoder. Viene ripetuta costantemente, anche quando il mantello dei sintetizzatori — l’unica altra presenza a livello strumentale — sembra coprirla. A questa voce si affianca poco dopo una seconda voce modificata che riprende la melodia (ma anche, e in modo più decisivo, il senso) di un’aria del compositore Jules Massenet, “Ô souverain, ô juge, ô père”. Nell’opera, l’aria corrisponde ad un momento di massima disperazione per il protagonista, che prima di combattere si rimette a Dio, in cui riconosce le tre figure autorevoli che danno il titolo alla composizione. Per Anderson i nomi sono un po’ diversi: “O Superman, o giudice, o mamma e papà”; e man mano che la canzone si evolve (anche musicalmente — i sintetizzatori di sottofondo cominciano a farsi sempre più marcati, più soffocanti) ci si rende conto che le figure non rimandano ad una sola immagine ma che sono indissolubilmente legate, l’una la conseguenza dell’altra:
Perché quando non c’è più l’amore, resta sempre la giustizia.
Quando non c’è più la giustizia, resta sempre la forza.
E quando non c’è più la forza, resta sempre la mamma. Ciao, mamma!
Dietro a queste figure non c’è altro che il potere, che pian piano muta forma per sopravvivere, e riesce nel suo intento proprio con l’ultima della serie. Supera così le resistenze della sua interlocutrice, a cui si era presentato dicendo di essere sua madre e poi si era rivelato come «la mano, la mano che prende». La canzone, infatti, si conclude con il completamento del cerchio. La protagonista ora capisce che chi l’ha chiamata è proprio sua madre, una madre a cui si abbandona completamente:
E allora stringimi, Mamma, nelle tue lunghe braccia,
Le tue braccia petrolchimiche,
Le tue braccia militari,
Nelle tue braccia,
Nelle tue braccia elettroniche.
In queste ultime frasi si trova la beffa più grande: queste smanie di conquista, di progettazione si rivelano in realtà l’ennesimo sogno di un bambino sperduto che si affida all’immagine rassicurante di chi sa accudirlo e custodirlo. È forse in questa conclusione la lezione decisiva di Big Science — che quello che viene offerto come progresso possa portare con sé un regresso, e che prendendo quella che sembra la strada della salvezza si può sprofondare nell’apocalisse. Ma in “O Superman”, più che altrove, emerge l’anima politica di Big Science. Nel mirino di Anderson c’è soprattutto l’abbandono a una forza che porta avanti il mondo esautorando l’azione individuale e sospendendo la propria responsabilità. Il lavoro dell’artista dev’essere dunque di inquietare, cogliendo le contraddizioni celate e mettendole in scena (letteralmente: United States era anche una rappresentazione teatrale, dopotutto) a chi le vive senza rendersene conto. Uno dei pezzi più brevi dell’album incarna questo gesto con estrema chiarezza. È incentrato su una sensazione che la donna che pochi anni prima suonava di fronte a passanti perplessi sperando di non perdere l’equilibrio deve conoscere molto bene:
Cammini. E non te ne accorgi sempre,
Ma stai sempre cadendo.
Con ogni passo, cadi un po’ più in avanti.
E fermi la tua stessa caduta.
In questa formidabile intuizione si cela il cuore dell’album: ogni passo avanti porta con sé il fantasma della rovina, ma allo stesso tempo anche la possibilità di salvarsi. La realtà è molto più complessa di quanto sembri; un continuo gioco di forze che restituisce in verità l’immagine poco rassicurante di un vagabondaggio più che quella di un progresso. È con questo stesso incedere che Big Science è giunto alla soglia dei suoi quarant’anni.