di Laura Ferro
La cultura Ballroom si diffonde tra gli anni Sessanta e Settanta a New York e dintorni. Le protagoniste del cambiamento sono le donne transgender della città. Alcune manifestazioni precedenti c’erano state negli anni Venti, ma riguardavano gruppi composti quasi esclusivamente da persone bianche. Le persone nere, se ammesse, spesso dovevano truccarsi di bianco. All’indomani dei fatti di Stonewall si assiste ad un cambio di paradigma: le persone nere queer «cambiano la percezione di sé all’interno della sottocultura: dal senso di colpa e dalle scuse si passa ai sentimenti di autoaccettazione e di orgoglio». Gli ambienti Ballroom diventano così uno spazio sicuro per persone queer nere e latino-americane, emarginate non solo dalla società ma anche dalle famiglie biologiche. Non è un caso che i gruppi si chiamino “house” o “family” e siano guidati da “fathers” e “mothers”. È un lessico che bene esprime la necessità di ricostruire un confine di protezione e accoglienza. Le partecipanti “camminano” (sfilano, nello slang Ballroom), gareggiano per categorie che prevedono differenti modalità espressive in competizioni in cui ambiscono ad ottenere dei premi. Le performance vanno dal ballo, al posing, all’interpretazione, alla trasfigurazione del proprio personaggio. Soprattutto, le performance nelle ball, gli eventi organizzati, rendono possibile la rappresentazione di sé in un orizzonte libero dalle costrizioni che pone la società tradizionale.
Da allora fino ad oggi le partecipanti alla comunità Ballroom resistono attivamente a diverse forme di emarginazione sfidando i ruoli di genere tradizionali e le identità eteronormative. A Padova uno spazio che promuovesse la cultura Ballroom mancava. Circa un anno fa da qui nasceva Padov-HA! Chiedo allora di incontrare le ragazze che ne fanno parte.
È un lunedì mattina, piove parecchio. Ci sediamo ad un tavolo, ordiniamo qualche caffè. Davanti a me ho cinque ragazze: Cocco, Jacopo, Lucinda, Myuji e Rosacroce. È una rappresentanza che subito mi fa riflettere, disattendendo lo schema dell’intervista uno a uno o con pochissimi portavoce. Tra di loro ci sono le iniziatrici di Padov-HA!, ma non solo. «Ho ripetuto a tutte le altre ora e luogo», dice Rosa e suona come una rassicurazione, con l’attenzione di chi vuole che nessuna si senta esclusa. Siamo 6 ora, ma tra qualche minuto potremmo forse diventare 7, 8, 15. Come a dire che quello che seguirà è un discorso da fare insieme, di cui partecipa la parola di ognuna. Un discorso che esiste solo collettivamente. Si parla della storia di uno spazio, ma anche dell’intreccio di tante storie personali. C’è chi si è avvicinato per una domanda identitaria, chi per la passione per il ballo, chi per la ricerca di un ambiente queer autentico. Forse il motivo non è mai unico. È una scacchiera su cui ci muoviamo piano, delicatamente, avendo cura di definirne soprattutto i limiti terminologici. Il discorso, dicevamo, va fatto insieme e va fatto bene, con le parole corrette. Nel suo svolgersi ci aiutiamo, con parole e gesti di assenso, ci diamo ascolto, nel raccontare e nel voler capire.
Si inizia presentando lo spazio, dalla genesi del gruppo ai suoi riferimenti, fino all’esigenza a cui Padov-HA! sente di rispondere. Alcune ragazze da tempo si erano avvicinate al voguing, la parte ballata della Ballroom, grazie al training tenuto dall’insegnante Real Ninja: è qui che inizia a prudere l’idea di creare un ambiente più ampio, di riferimento per tutte. Padov-HA! nasce come «spazio di supporto e di divulgazione della Ballroom non in modo accademico ma esperienziale», raccontano e sottolineano quanto ciò si giochi a «livello comunitario», quanto sia un «crescersi assieme», privo di strutture. Per quanto riguarda il nome mi spiegano che «nel voguing ci sono degli elementi fondamentali, in particolare spin and dip. La dip, quel passo iconico che prevede l’esecuzione di una caduta al suolo, si fa su un conto particolare della musica che è 4-8 oppure 1-5. In quel momento viene prodotto un suono chiamato ha o crash. Lo abbiamo scelto perché è un nome molto riconoscibile, un riferimento chiaro».
Padov-HA! cresce ponendo al centro innanzitutto il principio cardine dell’accessibilità economica. Tengono a precisare quanto Padov-HA!, come tutti gli ambienti Ballroom, sia espressione di una subcultura povera, abitata oggi da studentə fuorisede, che si barcamenano tra budget ridotti e scarse possibilità. «Le ball ufficiali a cui siamo sempre andate sono a Milano, Bologna, Firenze e Roma. Ciò prevede un grosso dispendio di energie, non solo fisiche, ma anche economiche. Abbiamo allora voluto ricreare uno spazio Ballroom a Padova che fungesse da trampolino per gli ambienti ufficiali: essere più numerose significa avere la possibilità di accedere più facilmente e camminare nelle ball ufficiali». Da qui la scelta di organizzare eventi esclusivamente gratuiti e accessibili. Altrettanto inclusiva vuole essere l’altra scelta fondante dell’ambiente Ballroom padovano: non avere giudici, figure che nelle ball ufficiali si occupano di regolare le competizioni e decretare le vincitrici. Sostanziale infatti è l’esigenza di uno spazio «il più sereno possibile» ed «estremamente non competitivo». Da una parte, dunque, la volontà di non sostituirsi alle ball ufficiali, dall’altra l’idea che la presenza dei giudici possa creare un’atmosfera in qualche modo «destabilizzante e demoralizzante», lontana dallo spirito del Padov-HA!.
Le citate Milano e Bologna, rispettivamente con le realtà di MooD-Ha e KikiBolo, sono i riferimenti principali che Padov-HA! riconosce. Evidenziano però una significativa differenza: «Una difficoltà che abbiamo trovato come realtà padovana era il clima politico che si respirava in città. Mentre MooD-Ha e KikiBolo sono realtà nate all’aperto, che si sviluppano in piazza, noi qui avevamo una serie di problematiche. Ricordiamoci anche che di lì a poco ci sarebbe stata la legge anti-rave. La problematicità politica dei corpi esposti ci ha portate a scegliere uno spazio al chiuso. Inoltre rispetto a Milano e Bologna, non avevamo una scena Ballroom solida che ci potesse aiutare in questo». Altra storia è stata la ricezione da parte della comunità giovanile e queer. Gli eventi raggiungono un pubblico di 400 persone, i training passano dal riunire pochə interessatə ad attrarre moltə partecipantə. «Questo dimostra quanto Padov-HA! sia riuscito nei suoi intenti». Questo spiega il «comune sentimento di necessità» di cui parlano, derivante anche dalla constatazione che «la comunità queer a Padova è importante e ampia, ma non unita». Continuano: «A Padova ci sono locali LGBTQIA+ ma non sono queer, non nascono da persone gender non conforming, non nascono dal basso, non nascono da una necessità. Il Padov-HA! fornisce uno spazio per scoprire sé stesse in totale libertà». Affondano qui le radici del proposito che più agita Padov-HA!, ovvero proporsi come ambiente «safer», specificano,«not safe». Nel comparativo di maggioranza si consuma la vera rivendicazione: «Se ci viene chiesto se esistono degli spazi safe per la comunità LGBTQIA+ a Padova rispondiamo di sì, ma la domanda che ci poniamo è: esiste uno spazio safe per le altre parti della comunità marginalizzata? E la risposta è no. L’obiettivo allora è costruire uno spazio più sicuro per le comunità marginalizzate che hanno già uno spazio safe».
Dalle origini della cultura i temi sono cambiati ma l’urgenza è rimasta. Sulla scena Ballroom si affacciano nuove istanze di lotta. Le ragazze chiariscono un importante presupposto: «la lotta è reale solo se intersezionale e solo se parte dal basso». E il «basso» nella Ballroom sono proprio le categorie, quegli spazi dinamici, laboratoriali, aperti alle nuove rivendicazioni. Divise nelle aree di fashion, performance e beauty, rappresentano delle cornici in cui incontrare liberamente identità, ruoli ed estetiche. È attraverso le categorie che la cultura Ballroom esercita la sua presa sulla realtà e fornisce strumenti di azione.
Mi raccontano che, ad oggi, al Padov-HA! e in Italia ci si pone dei cocenti interrogativi riguardanti alcune categorie, soprattutto quelle riguardanti il conformarsi alle norme di genere tradizionali. Una delle categorie fondanti della Ballroom, realness, per il suo essenziale significato originario, si basa su di un sistema binario. I corpi in realness effettuano un passing (un passaggio, appunto, una personificazione) verso una rappresentanza maschile o femminile. Realness ha un valore storico per la Ballroom: consisteva in un esercizio di sopravvivenza per le donne transgender e le butch queens (uomini cisgender gay) emarginate negli anni ’60 e ’70.
Allora la struttura della Ballroom su un principio dicotomico, soprattutto in categorie come body (in cui il centro dell’attenzione è posto sul corpo) o face (incentrata sulla bellezza del volto), diventa un argomento di cui domandarsi. Sorge spontanea una domanda: «Se io non mi sento di impersonare un’identità maschile o femminile, dove vado? È necessario riflettere su questo». Ecco dunque il significato di quel «safer». Si discute, ci si sbatte la testa. Si agisce nel piccolo, esercitandosi per la prima volta in categorie GNC (Gender Not Conforming) che possano accogliere chi non si riconosce in un meccanismo binario e avere poi risonanza negli spazi ufficiali.
Il nostro incontro si avvia a conclusione. Sono più di due ore che non ci muoviamo da quel tavolo. Le spiegazioni cedono al racconto di sé e risalgono le impressioni, la materia viva. «A chi mi chiede perché partecipi alla Ballroom rispondo che mi pare ovvio che le donne cisgender abbiano il diritto di esserci, in quanto marginalizzate»; «sono sempre stato timido e nella Ballroom ho trovato pace alla lotta con la mia identità»; «qui posso esercitare un’androginia che ho sempre sognato di avere anche all’esterno». A partire da queste storie ci si accompagna alle ball, dove la stessa fragilità diventa motivo di celebrazione. Le ragazze le descrivono come grandi feste, fatte di curati esercizi di stile ma anche di accessori e abiti arraffati all’ultimo minuto, con quel carattere scapestrato e irriverente di una sfilata d’alta moda che inizia dalle strade.
«Ciò che più mi colpisce del Padov-HA! è che, nonostante io non conosca tutte, tutte sono già pronte ad accogliermi». Allora mi rendo conto che quei momenti collettivi, con la musica, le urla, il ritmo dettato dall’MC (Master of Ceremony), che richiama il pubblico ad incitare ed agitarsi, sono forse modi rumorosi per sperimentare il silenzio più importante, quello dell’assenza di giudizio.
Nel frattempo: You better werk b*tch!
Credit foto: @matteorossi.fotografia