Siamo qui per capire come il gruppo di persone che si muove attorno a Catai, Casetta Berta e Potere al Popolo ha impostato l’attività mutualistica a Padova. Ci interessa però partire da una visione complessiva, che prenda dentro la città e quel che è successo in questi mesi.
Emanuele. Dal nostro punto di vista, la situazione di Padova nel contesto nazionale è particolarmente importante per due ragioni: la prima, è stata una delle zone d’Italia a entrare subito in lockdown, a causa del focolaio di Vo’; la seconda, e la più importante, perché quest’anno Padova è capitale europea del volontariato.
Quando è iniziata l’epidemia, noi abbiamo lanciato uno sportello telefonico di supporto sia materiale che umano – cercando di chiarire i dubbi su cosa stesse succedendo, su cosa si poteva fare e non poteva fare; e di capire quali erano i bisogni, per poi strutturare un’iniziativa mutualistica. Per fare questo abbiamo fatto alcune telefonate e strutturato l’intervento, di cui magari parliamo dopo.
Contemporaneamente in città è partito un progetto, lanciato da Comune, Caritas e CSV (Centro Servizi per il Volontariato), dal nome Per Padova noi ci siamo, che ci è sembrato contenere alcuni punti positivi – uno, fondamentale, l’attivazione popolare che ha generato, richiedendo alla popolazione un intervento diretto – e altri negativi. Il primo, che abbiamo riscontrato all’inizio, era che il servizio di spesa andava a coprire le persone con una fragilità di tipo sanitario (si consegnavano spese pagate dai fruitori): iniziavano a intravvedersi le conseguenze economiche di questa crisi sanitaria.
A quel punto, più o meno contemporaneamente, sia noi che il CSV abbiamo cominciato ad attivare un servizio di consegna di pacchi alimentari gratuiti alle persone che iniziavano a entrare in difficoltà economica o che già prima vivevano una situazione di povertà, anche estrema in alcuni casi, acutizzata dall’emergenza sanitaria e dal lockdown.
Come vi siete rapportati al progetto guidato dal CSV?
Alessia. Il CSV, assieme alla rete di associazioni e singoli creata attorno al progetto ha attivato alcuni servizi gestendo anche la distribuzione dei buoni spesa erogati dai comuni grazie ai fondi statali della prima fase dell’emergenza. In un secondo momento hanno attivato la spesa sospesa presso alcuni grandi supermercati che hanno aderito e una raccolta fondi, e quindi anche una distribuzione di cibo gratuita. Per quanto riguarda i buoni spesa ci sono state delle difficoltà e criticità dettate dalle condizioni poste dal governo: molti non hanno potuto accedere ai buoni spesa, dato che il primo dei requisiti è la residenza – moltissime persone che per svariati motivi non hanno la residenza a Padova non potevano accedervi.
Il motivo per cui abbiamo iniziato a pensare a strutturare autonomamente un’attività di questo tipo era che la risposta governativa non era sufficiente. Non lo era, e non andava a coprire tutti i bisogni di alcune tipologie di famiglie e di persone di questa città.
Siccome non pensiamo che vada tutto delegato al terzo settore, come invece è stato fatto, ci siamo attivati a livello politico e mutualistico.
Emanuele. Con questa attività abbiamo voluto dare sostanza, come con diverse iniziative facciamo da qualche anno qui a Padova, al concetto di mutualismo. È un lavoro che non può lasciare perdere il contatto diretto con la persona: è fondamentale instaurare un rapporto che non veda chi aiuta da una parte e chi riceve dall’altra, non metta chi aiuta in una posizione comunque di potere, e quindi di impossibilità di riconoscersi come fratelli e sorelle, compagni e compagne. Questo può avvenire solo stando insieme e lottando insieme, un pezzettino alla volta, per diritti che sono stati erosi negli anni e che con la crisi da Covid – forse la peggiore che noi abbiamo mai vissuto – vengono ancora più erosi.
Per noi quindi affidarci a un centralino esterno, istituzionale, e fare soltanto il lavoro logistico non ha quel senso, e non ha in potenza quella possibilità di creazione di unità di rivendicazioni e di lotte, che invece il mutualismo dà. Secondo noi ci sono tre gambe sulle quali l’attività mutualistica si appoggia.
Una è la più banale: solidarietà, resistenza in questa fase sopravvivenza, cioè chi può dare dà e chi deve ricevere riceve nella misura in cui ha bisogno perché altrimenti moriamo materialmente. Sia noi che tutte le persone che si sono messe a disposizione in tutte le forme (Caritas, CSV, ecc.) hanno dato la possibilità a persone che si sono trovate all’improvviso in difficoltà enormi di mangiare – è un fatto che a pensarci lucidamente, nel 2020 a Padova, fa accapponare la pelle, e rimanere indifferenti davanti a questo ci è impossibile.
La seconda è il riconoscimento, quindi il rapporto diretto: parlare, essere chiari, dire perché lo facciamo. Il contatto con le persone, la condivisione dei problemi, la capacità di aiutarsi a vicenda porta a pensare alla possibilità di affrontare collettivamente i problemi. Le persone che incontriamo non sono stupide, il loro problema sono le condizioni materiali in cui vivono.
La terza gamba è quella della lotta: portare questi problemi particolari, che hai scoperto attraverso l’attività mutualistica, a diventare un problema unico sul quale lavorare e dare battaglia. Le richieste generali riguardano chi non lavora e chi lavora, ma comunque sta nelle fasce più basse della popolazione, sono un reddito di emergenza per tutte e tutti – vero, non con mille condizioni, dignitoso e più esteso possibile. Come fare questo reddito? I soldi li si prende dalle tasche dei ricchi, quell’1% che possiede la maggior parte della ricchezza di questo paese. Con una patrimoniale adeguata si potrebbe tranquillamente redistribuire la ricchezza dall’alto verso il basso, e fare un passo in avanti in termini di giustizia sociale.
In questo contesto per noi l’autonomia è fondamentale: è il mutualismo stesso a richiedere autonomia di chi lo fa, e di chi lo incontra per la prima volta; senza questa autonomia, non c’è possibilità di far passare queste questioni individuali, queste storie individuali che tutte meriterebbero di essere raccontate, a una questione politica generale, a partire dalla quale tentare di provocare un cambiamento reale. Non si può saltare uno di questi passi. Se non si passa da questa strada si fa una cosa giusta, che però secondo noi non ci porta a cambiare le cose.
Provate a spiegarmi, adesso che la fase 1 è finita e siamo nella fase 2, cosa sta succedendo in città?
Alessia. Nell’ultimo periodo, dall’inizio della fase 2, tutta l’attivazione grandissima che c’è stata a Padova, dovuta a tutte quelle associazioni che lavorano sul territorio da tempo e da volontari e volontari che si sono messi a disposizione per portare avanti dei progetti e un aiuto concreto per le persone, ha cambiato un po’ faccia.
Prima di tutto, i soldi arrivati dal governo sono finiti, non ne sono stati stanziati ulteriori, quindi i buoni spesa non ci sono più e nonostante per ora continui il servizio di spesa sospesa c’è una novità: il modo in cui tutta questa rete di volontari e associazioni unita attorno a Per Padova noi ci siamo ha provato a ristrutturare il proprio intervento, partendo da alcuni problemi logistici che riguardano la messa in sicurezza sanitaria dei luoghi. Ad esempio, l’apertura di parchi e biblioteche. Alcuni volontari sono stati dislocati dall’attività di raccolta della spesa e distribuzione dei buoni a un controllo degli ingressi in vari luoghi pubblici. Per ora questo, ci possiamo immaginare altri interventi in questo senso. Ora, per noi questo significa confondere il lavoro con il volontariato: non vedere che ci sono problemi molto gravi in questo momento, persone a casa da mesi in cassa integrazione o disoccupate, e utilizzare la faccia del volontariato in un modo sbagliato. Tutte le persone che si sono attivate, a cui va riconosciuta una grande forza e un ruolo di grande importanza, non possono essere strumentalizzate, né tanto meno indirizzate verso servizi che dovrebbero essere garantiti dalle istituzioni e pagati. Soprattutto in questo momento di crisi, in cui servono posti di lavoro, servono garanzie di tipo diverso.
Emanuele. Se abbiamo a Padova un associazionismo così attivo, un tessuto sociale che, quando serve, si rivela solidale e umano non vuol dire che le istituzioni locali, così come regionali e nazionali, possano affidare al terzo settore tutto. Perché non tutto può essere volontario, il lavoro va pagato, non si può confondere il volontariato con la finalità economica (pensiamo al ruolo, in questa fase utile ma interessato, dei supermercati Alì). Non si deve confondere né strumentalizzare l’attivazione popolare, il grande tesoro che riempie di speranza, che fa sorridere – perché, come dicevano nei Paesi Baschi, sorridere è un altro modo per mostrare i denti, cioè per iniziare a lottare.
Quindi Padova, città capitale del volontariato, anche in queste cose mostra alcune contraddizioni, come ne ha mostrata una gigante prima della pandemia, quando – alle porte dell’inaugurazione dell’anno del volontariato – è stato sgomberato quel presidio di mutualismo e resistenza culturale e sociale che era l’Ex Macello, che ospitava da quarant’anni la CLAC. Così come anche lo sgombero di Berta, dettato da altre questioni economiche interne all’ATER, aveva precedentemente indebolito il tessuto sociale di Padova.
Mi spieghi adesso come vi siete organizzati, dal punto di vista pratico?
Alessia. La distribuzione e la raccolta fondi è iniziata un mese e mezzo fa attraverso dei contatti che avevamo raccolto con le attività di Berta, la Casetta del Popolo in Arcella e del Catai. Oltre allo sportello telefonico, all’inizio abbiamo portato dei pacchi a famiglie e persone che consociamo nelle case ATER dell’Arcella. È bastato pochissimo poi a far girare la voce: da cinque contatti siamo passati a dieci, quindici, venti, trenta, ora ci sono sessanta nuclei famigliari cui portiamo quasi ogni settimana qualche aiuto. Situazioni molto diverse fra di loro, diversa consistenza del nucleo famigliare, non tutti in Arcella. C’è stato un grandissimo passaparola fra le diverse comunità etniche della città. Ovviamente, le condizioni sociali ed economiche di queste persone sono aggravate dalla situazione materiale in cui, anche prima della crisi, vivevano. Pensiamo a persone che fanno i venditori ambulanti, che lavorano a nero, che hanno una famiglia molto numerosa e abitano in una casa minuscola, un sacco di problematiche che sarebbe importante seguire singolarmente.
Per fare ciò, abbiamo lanciato una raccolta fondi online, raccogliendo più di 3000 euro. Stiamo pensando a come continuare l’attività, se in queste forme o trasformandola a seconda dei bisogni che emergeranno.
Per quel che riguarda la parte logistica, una cosa molto bella per noi è stata la partecipazione e l’attivazione di persone anche nuove, che non conoscevamo prima dell’emergenza Covid, che hanno scritto ai nostri canali, sono venute a qualche assemblea, si sono interessate per aiutarci. Da qui si è anche instaurato un certo tipo di rapporto, che speriamo possa andare avanti oltre questa attività singola.
Cosa vi sembra di poter capire rispetto alla situazione in cui siamo, quali sono i problemi fondamentali?
Emanuele. Quello che è evidente – lo era già prima, ma mettere le mani nelle cose lo rende ancora più evidente – è che la povertà è un’emergenza in questo paese, che viene prima del coronavirus e che si è decisamente approfondita in questi pochi mesi di lockdown. Questa crisi già esisteva prima del Covid. Abbiamo poi incontrato tantissime persone di origine straniera, che hanno innanzitutto il problema della residenza o dei documenti, e questo ci riporta al precedente governo, che ha distrutto i già pochissimi ed erosi diritti dei migranti in questo paese. Questo fa capire cosa significa stare in un paese senza documenti, e starci in una situazione di questo tipo.
I problemi più importanti emersi, che abbiamo condiviso fra quelli che hanno deciso di collaborare, sono legati al lavoro e, in relazione all’assenza di entrate, all’accumularsi di bollette e affitti. Uno dei problemi è anche con i proprietari di casa, che non cedono per abbassare l’affitto, o non abbastanza.
I problemi sociali toccati c’erano già prima; quando si arriva così in basso, non si può che tentare di capire come cambiare le cose. La prima lezione è il fatto che se non ci aiutiamo fra di noi non andiamo da nessuna parte. Siamo un collettivo di giovani precari, alcuni studiano, abbiamo gli affitti da pagare, abbiamo verificato a partire dalle nostre vite che non arriva niente dall’alto, arrivano briciole e non a tutti. La forza che possiamo avere è che siamo tanti e tante, e che conoscendoci, e mettendo in comune i problemi e contemporaneamente le conoscenze, le teste, la forza diventiamo una potenza. Solo in questo modo possiamo tentare di modificare la realtà, passettino per passettino.
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