Il 10 febbraio si sono chiuse le iscrizioni scolastiche per l’ a.s. 2024/25. Quest’anno, per la secondaria di secondo grado, ci sono delle novità: il Liceo del Made in Italy e la Filiera formativa tecnologico-professionale. Il primo è regolamentato dalla legge 206 del dicembre 2023, il secondo viene presentato all’interno di un disegno di legge di più ampio respiro (DDL 924/2023) attualmente discusso in Parlamento. Che cosa si nasconde dietro questa riforma della scuola?
Italy: la cultura come prodotto e feticcio
Nel suo primo romanzo Le cose, Perec, allievo di Roland Barthes, racconta di Sylvie e Jerome, una coppia vittima del consumismo: è l’Europa della civiltà dei consumi e della cultura di massa. I due sono travolti dalla forza estetica attrattiva, perfino erotica che l’universo degli oggetti possiede e trasmette. È una storia che lambisce e corteggia la ricchezza, svelando in questa tensione tutta la sua mediocrità. L’autore li ritrae nel loro complicato ingresso nell’adultità, periodo a cui è delegata la soddisfazione dei grandi desideri, della sete di cose, appunto.
«Dunque, dice fra sé il giovane fresco di studi, dovrò passare le mie giornate dietro quelle scrivanie di vetro anziché andarmene a passeggio nei prati in fiore, finirò per trovarmi pieno di speranza alla vigilia delle promozioni, calcolerò, brigherò, morderò il freno, proprio io che sognavo poesia, treni notturni, sabbie roventi? […] A questo punto, è accalappiato e ben accalappiato. Quando è giunto alla fine delle sue pene, il giovane non è più così giovane e potrà persino sembrargli che la vita gli stia ormai alle spalle, che sia stata uno sforzo e non un fine.»
Il mondo di cose in cui i protagonisti si muovono si sorregge su una grande promessa, un’illusione che tutto regola e ammala: l’esistenza di un disegno, di uno scopo, di ricompensa. Un télos che riordini l’ammasso di merce che attraversa le loro mani, la semantizzi. Vivere, allora, si traduce inevitabilmente in un fare per. Peccato poi scoprire che il fine non esiste e ciò che rimane è solamente lo sforzo, la fatica vuota. La merce, lo sappiamo, è anche culturale. E la seducente chimera della realizzazione a volte rende possibile la nascita di nuovi tipi di studi e di istituti che li veicolino, presentati ad arte, proprio come le camicie di seta che Sylvie e Jerome guardano nelle vetrine di Parigi. È questo il caso del nuovo Liceo Made in Italy, annunciato da Giorgia Meloni durante il Vinitaly 2023, sotto la stessa egida della valorizzazione delle eccellenze italiane. Padri dell’iniziativa sono Urso, ministro del Made in Italy, e Valditara, ministro dell’istruzione, di cui in Seize the Time abbiamo già tessuto le lodi parlando di voto in condotta e docenti-tutor.
Di chiaro, ad ora, c’è solo la scansione oraria prevista nel piano di studi. 99 ore per diritto, per gli strumenti della gestione di impresa. 99 ore per economia politica, per le tecniche e le strategie di mercato. 99 ore per inglese, per il sostegno all’internazionalizzazione. 33 ore per storia dell’arte, l’orgoglio italiano. La nuova scuola tricolore appare nel Disegno di legge approvato in via definitiva dal Senato il 20 dicembre 2023, in diretto collegamento alla legge di bilancio 2022. È un lungo documento, contenente disposizioni molto differenti per la promozione del nostro Paese. Non stupisce che la riforma di Valditara e Urso, ministri dell’Istruzione e del Made in Italy, tutta tesa alle professioni delle filiere strategiche (abbigliamento, arredo, ceramica…), nel Ddl si faccia spazio tra investimenti nei settori del legno, valorizzazione dell’olio di oliva e regolamentazione del settore termale. È la cosalità, che traspone agilmente la cultura in prodotto e in feticcio da venerare. Davanti all’inadeguatezza strutturale dell’Italia e alla sua mancanza di competitività all’interno delle catene del valore globale, i nostri governi sembrano rimanere ammaliati dal richiamo negromantico all’eccellenza italiana, quasi fosse una bacchetta magica, risolutiva di tutti i problemi. Come a dire: «State tranquilli. Il popolo di poeti, artisti, eroi, santi, pensatori, scienziati, navigatori ce la farà un’altra volta, risvegliando le sue intelligenze sopite per uscire dalla crisi». Sintomatologia da pensiero magico o semplice propaganda politica? Probabilmente entrambe.
L’istituzione del nuovo liceo non può che essere compresa alla luce di questa dinamica e allo strutturale apporto alle imprese, inattese trasmettitrici di metodi didattici (un aspetto su cui torneremo a breve). Nelle intenzioni di Valditara, il liceo del Made in Italy dovrebbe sostituire nei prossimi anni l’attuale Liceo delle Scienze Umane con opzione Economico-Sociale (LES), attivato nel 2010 e che attualmente raccoglie più di 76.000 ragazzi. Il problema è che, al di là delle nomenclature, la sostanza non cambia: il nuovo liceo assomiglia al LES con meno inglese, più storia dell’arte e un’affezione dichiarata per le discipline Stem (scienza, tecnologia, ingegneria e matematica). Tante le domande che rimangono aperte: quale sarà la sua collocazione ordinamentale? Chi saranno i docenti chiamati a farsi carico dei nuovi insegnamenti? Proprio gli appartenenti alla classe A018, quella di Filosofia e Scienze Umane, che si vuole smantellare? Per avere risposta bisognerà attendere un Regolamento formulato dal Ministero dell’Istruzione, che potrebbe non arrivare fino alla prossima primavera.
Filiera: un ritorno all’apprendistato per risolvere il mismatch
Ma la riforma più importante proposta da Valditara è l’istituzione della filiera formativa tecnologico-professionale, una riduzione del percorso degli istituti tecnici e professionali da cinque a quattro anni con una possibilità di formazione aggiuntiva e specializzante di due anni presso gli Istituti Tecnici Superiori (i cosiddetti ITS, enti di formazione biennale post-diploma nati nel 2010). Come suggerisce la parola stessa, filiera, l’obiettivo è quello di avvicinare offerta formativa e mondo produttivo, nella speranza di risolvere l’annoso problema del mismatch (ne abbiamo parlato qui).
I mezzi per farlo sono i più svariati, come si trova scritto nel disegno di legge attualmente in discussione in Parlamento: ricorso alla flessibilità didattica e organizzativa , stipula di contratti di prestazione d’opera con soggetti provenienti dal mondo del lavoro, promozione di accordi di partenariato e stipula di contratti di apprendistato e formazione. Ma al di là dell’astrazione legislativa, che cosa ci aspetta? Vediamolo nel dettaglio.
Il primo punto è l’introduzione dei cosiddetti campus, ossia accordi che le istituzioni scolastiche aderenti al percorso sperimentale saranno tenute a siglare con una pluralità di soggetti (ITS, università, Enti di alta formazione tecnica e un non meglio definito «sistema pubblico/privato») per co-progettare curricoli scolastici più in linea con le esigenze produttive del territorio. Già qui le criticità sono diverse. Da una parte viene a infrangersi l’autonomia delle istituzioni scolastiche e degli organi collegiali, che saranno tenuti a rispettare o a convalidare quanto presente negli accordi con altri enti, limitando la propria capacità di programmazione (potranno metterci bocca i soggetti privati appartenenti alla filiera); dall’altra questo andrà a creare una difformità di percorsi di curricoli in base ai territori, andando a concretizzare anticipatamente l’autonomia differenziata in campo scolastico.
Un ulteriore schiaffo viene inoltre dato al personale precario del comparto scuola, cui viene chiesto di possedere delle competenze certificate in ambito socio-psico-pedagogico che non verranno richieste, invece, a tutti quei docenti esterni in cattedra, arruolabili tramite contratti di prestazione d’opera solo in nome della loro expertise tecnico-imprenditoriale.
Ma le novità non finiscono qui. Valditara prevede infatti l’anticipazione delle ore di PCTO (precedentemente nominata alternanza scuola/lavoro) al biennio delle scuole superiori. Una proposta totalmente miope rispetto alle reali esigenze didattiche degli studenti che, guardando gli ultimi dati INVALSI, hanno prima di tutto gravi lacune sulle competenze di base (uno studente su due non raggiunge il livello base in italiano e in matematica, alla fine del quinto anno delle superiori) oltre ad avere, secondo i recenti studi, scarsa efficacia formativa se non addirittura dannosa. Due dati è bene ricordarli, a questo punto: dal 2017 ad oggi 18 ragazzi sono morti durante questi percorsi mentre 300mila si sono infortunati. Su questo aspetto si è espresso anche il Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione (CSPI) che ha dato un parere negativo sulla riforma:
CSPI rileva con preoccupazione questa tendenza costante verso l’anticipazione di esperienze lavorative che hanno un forte valore formativo se svolte da allievi che abbiano già sviluppato competenze di base e un’adeguata consapevolezza dei propri interessi e attitudini, ma possono risultare insignificanti e perfino pericolose se destinate ad alunni che non siano ancora pronti ad assumere gli atteggiamenti adeguati in contesti reali non scolastici.
Un ultimo punto da tenere in considerazione è ciò che nel disegno di legge viene definito astrattamente come «ricorso alla flessibilità didattica e organizzativa», una dicitura che viene resa più chiara solo leggendo le FAQ pubblicate a seguito della pubblicazione del decreto ministeriale del 7 dicembre 2023 (un goffo tentativo da parte di Valditara, come vedremo, di anticipare la sperimentazione già nel 2024/25). In questo documento si dice esplicitamente che non sarà necessario che nei quattro anni della sperimentazione si facciano tutte le ore previste per raggiungere il regolare percorso quinquennale (sic!). Inoltre per compensare almeno in parte l’annualità mancante, si potranno modificare liberamente l’orario settimanale e il calendario annuale (leggasi: giornate intere di lezione o l’introduzione di lezioni durante l’estate) e prevedere anche forme di Formazione a distanza (FAD), la cui scarsa efficacia non crediamo nemmeno debba essere ricordata. Tuttavia, quanto proposto da Valditara non è nulla di inedito. È un progetto di lungo corso che ha interessato governi sia di destra che di sinistra: l’introduzione delle ore di alternanza si devono alla Buona scuola di Renzi (2015); le sperimentazioni quadriennali sono state introdotte già dall’ex ministra Fedeli nel 2017 (Governo Gentiloni) e, in maniera forse più subdola, da Pietro Bianchi (Governo Draghi) all’interno del Decreto Aiuti Ter (2022), il quale prevedeva anche i cosiddetti «Patti educativi 4.0», ossia la compartecipazione di figure professionali esperte al momento educativo. Niente di nuovo sul fronte scolastico si direbbe. Certe posizioni sono solo più marcate (il PCTO al biennio) o messe a struttura, accompagnate da una certa spruzzata di autoritarismo (la reintroduzione del voto in condotta e le minacce di bocciatura per gli studenti che occupano le scuole) o da un filo di patriottismo economico (il liceo del Made in Italy). Come per le esperienze precedenti, le adesioni alle sperimentazioni per l’a.s. 2024/25 sono state quasi nulle: in Veneto si contano tre istituti aderenti al liceo Made in Italy a fine gennaio, mentre per la filiera tecnologico-professionale si sono candidati solo sei istituti. Difficile dire di chi sia la colpa. Sicuramente, come sottolinea una infastidita Elena Donazzan, assessora all’istruzione della Regione che tanto aveva puntato su queste sperimentazioni, «calendarizzare la legge a dicembre e partire con le iscrizioni da gennaio» non è stata un’idea particolarmente brillante.

Pensiero magico
Il liceo Made in Italy, così come l’istituzione delle Filiere formative potrà anche non trovare riscontro positivo, ma le idee che lo hanno concepito non spariscono ed è questo che ci dovrebbe preoccupare. La chimera, dicevamo, è la promessa di uno scopo, in questo caso la riduzione del gap tra i giovani e il lavoro. Così presentato, il lavoro entra in un’inevitabile collisione con l’istruzione, vi penetra, assoggettandola ad appendice preparatoria o, addirittura, decurtandola. Le proposte che sono state fatte in questi anni, pur fallimentari, sembrano avere tutte un filo rosso: sono tutti progetti pensati a uso e consumo delle imprese, concepiti per soddisfare il bisogno di manodopera semi-specializzata e a basso costo. La foglia di fico usata per nascondere questa triste verità si rivela una menzogna. Affermare, come fanno Valditara e i suoi, che queste riforme sono concepite per combattere la disoccupazione giovanile significa non comprendere il lavoro e la vita di una persona nella sua totalità. Siamo sicuri, ad esempio che ridurre gli anni di scolarizzazione sia una strategia efficace? Non rischia forse di togliere a quegli studenti l’opportunità di avere un punto di riferimento educativo e renderli manodopera da macello? Inoltre, quanto è lungimirante pensare di sviluppare competenze ed esigenze specifiche, utili alle imprese del territorio in un dato momento? Quando le imprese del territorio non avranno più bisogno di quelle competenze che cosa permetterà al giovane, diventato vecchio, di costruirsi delle competenze necessarie in altri settori produttivi? E ancora: perché vincolare le competenze di un giovane alle esigenze produttive di un territorio?
Domande ce ne sarebbero molte, ma rimane comunque un dubbio più forte di altri. Forse le soluzioni sono più semplici di quanto sembri, ma più costose per i reali beneficiari di questa riforma: politici e imprenditori. Da una parte basterebbe smetterla di proporre leggi sulla scuola prive di finanziamenti e infarciti di slogan; dall’altra basterebbe pagare più dignitosamente i lavoratori. Ma questo, si sa, è pensiero magico.