Per una Liberazione Domestica dal Genere
Il mammo lava i piatti (se non c’è la lavastoviglie, sennò la carica), stira, apparecchia la tavola, cucina il pranzo e la cena, fa la spesa, stende il bucato, butta la spazzatura, spazza il pavimento. Cambia i pannolini, gioca con i bambini, fa i compiti con i bambini. Fa tutto quello che dovrebbero fare i genitori, ma è un padre. E quando in Italia un padre fa il genitore non è un padre, ma un “mammo”.
Come recita il vocabolario Treccani “mammo” s. m. (masch. scherz. di mamma), fam., scherz.- Uomo che, nella cura dei figli e nella gestione della casa, svolge le funzioni tradizionalmente proprie di una mamma.
Il 4 maggio nel nostro paese è iniziata la Fase 2 che ha visto la riapertura di numerose sedi di lavoro, ma non delle scuole. Da qui la domanda: chi resta a casa con i figli nel momento in cui la salute dei nonni, sui quali si regge gran parte del welfare familiare, è in pericolo?
(Il fatto che la Scuola, più che come luogo di educazione, crescita e formazione in cui viene garantito il diritto allo studio, sia stata vista come un’estensione/sostituzione della funzione materna è un’altra pista che non seguiremo, ma che porta in sé le tracce del sistema patriarcale).
Quando una madre è costretta a non tornare al lavoro per rimanere con i figli, con tutto ciò che questo comporta, resta una madre. Quando è costretto a farlo un padre, diventa un “mammo”. A questo termine non sfugge il Messaggero che intitola un articolo del 24 Aprile: Coronavirus “trovate una soluzione per i bimbi”. La lettera del “mammo in quarantena”.
Quando una madre è costretta a non tornare al lavoro per rimanere con i figli, con tutto ciò che questo comporta, resta una madre. Quando è costretto a farlo un padre, diventa un “mammo”.
La situazione emergenziale che stiamo attraversando ha portato alla luce con più forza contraddizioni tanto insite nella nostra società da essere invisibili. Il virus è pervasivo, apparentemente non fa distinzioni, ma in realtà estremizza disuguaglianze preesistenti, rendendo, tra molte altre cose, improvvisamente evidente il ruolo fondamentale del lavoro non pagato delle donne nella società capitalistica.
Come scriveva nel 1978 l’attivista del movimento afroamericano statunitense Angela Davis, un’uguaglianza di sostanza sarà un miraggio finché una divisione precisa del lavoro domestico sarà vista come un aiuto alle donne, finché ci si complimenterà con gli uomini che fanno la gentilezza di svolgere in maniera equa i lavori di casa o di contribuire all’educazione dei figli:
La nuova presa di coscienza dell’attuale movimento delle donne ha incoraggiato la richiesta di sgravarsi, almeno in parte, di questo lavoro ingrato. Sempre più uomini hanno iniziato ad aiutare le loro partner in casa fino a ripartirsi, in alcuni casi equamente, il tempo da dedicare alle faccende domestiche. Ma quanti di questi uomini hanno smesso di concepire il lavoro domestico come un “lavoro da donne”? Quanti di questi non definirebbero le attività domestiche come “un aiuto” verso le proprie compagne? (Donne, razza e classe, Alegre 2020).
Il concetto di “mammo” è il sintomo di una dinamica che non è stata scardinata, anche se sono passati 42 anni dalle parole di Davis. Il mammo è il padre che svolge un lavoro materno con la prole. Ma cosa si intende per lavoro materno?
Traspare con chiarezza nelle dichiarazioni del giornalista Andrea Giambruno, compagno di Giorgia Meloni, annoverata tra i politici italiani che più hanno insistito su una rigida distinzione di genere, avallando la famiglia tradizionale come unica configurazione accettabile di famiglia. Il giornalista infatti, in un’intervista a Libero, afferma: “Non mi infastidisce essere associato a Giorgia, però ho la mia personalità e il mio lavoro e non le ho mai chiesto niente. Nella coppia l’uomo sono io, non faccio il mammo, non so neppure fare da mangiare!”
L’immagine che ne viene fuori è che un uomo che si prende cura di figli e della casa può farlo solo a patto di cedere una parte di sé o della sua virilità: non è più un uomo. Per trovare un’estrinsecazione esplicita dello stretto legame che lega il concetto di “mammo” alla sfera della sessualità, della virilità non serve andare lontano: “Fare il mammo spegne l’eros. Capita sempre più spesso che in una coppia il padre assuma un ruolo troppo “materno”. Il rischio è che si spenga l’attrazione tra marito e moglie” titola un articolo del sito dell’Istituto Riza di Medicina Psicosomatica.
Fare proprio un concetto rigido di mascolinità e di femminilità nevroticizza la relazione tra i sessi, ingabbia in ruoli che ci sono estranei. Per questo motivo ripensare l’idea di virilità fino a svuotarla delle componenti stereotipate è uno dei compiti che dobbiamo prefissarci per dare vita a nuove pratiche di vita in comune.
La figura dell’uomo che porta a casa il pane, tutto proiettato nel mondo esterno e il cui compito è provvedere alla famiglia, così come la figura della casalinga unicamente dedita alla cura dei figli, sono ritagli, figure bidimensionali svuotate di senso, ruoli restrittivi che vengono inconsapevolmente respirati e troppo spesso assunti in maniera a-problematica, così come i loro rispettivi rovesciamenti. L’immagine del “mammo” è, infatti, il contrappunto maschile dell’immagine altrettanto stereotipata della donna che lavora fuori casa. Questa donna “porta i pantaloni”, è “l’uomo della coppia”, “ha le palle”. Anche in questo caso entra in campo l’affettività: il tuo compagno, marito, amante si sentirà minacciato, avrà timore di te, risulterai meno desiderabile…
Quello che dobbiamo fare è uscire dalle categorie definite, dagli stereotipi che ci soffocano e ripensare che cosa voglia dire essere un uomo e essere una donna, in casa, nel lavoro, nella cura dei figli. Non fossilizzarci non solo su come storicamente si sia strutturata la divisione del lavoro, su come il sistema capitalistico si sia fondato su questa partizione dura a morire, ma anche sulle categorie di maschile e femminile che ci attraversano e plasmano il nostro modo di vedere il reale e di raccontarlo.
Quello che dobbiamo ripensare è la sanzione sociale attuata nei confronti dei padri che dedicano tempo ai figli, li ascoltano e si prendono cura di loro non solo economicamente, ma anche in senso pratico e affettivo. Rifiutando l’idea che vede questo tipo di lavoro come secondario e degradante.
In un’intervista all’imprenditore Marco Benatti su Repubblica dal titolo “Quando ho scelto i figli gli amici mi dicevano: Tu dai il cattivo esempio”, l’intervistato, definito “il mammo d’Italia” parla del momento in cui ha deciso di dedicare più tempo alla propria famiglia: “Da allora io smetto di lavorare il giovedì sera e sono tutto loro. Certo, me lo posso permettere perché sono un imprenditore perché le nuove tecnologie mi consentono di lavorare da casa. Ma ho comunque fatto rinunce.”
E per quei padri che non possono permetterselo? Per i mammi involontari? Per coloro che sono rimasti in cassa integrazione come l’autore della lettera del Messaggero? Il discorso sul lavoro domestico e sulla cura dei figli non può essere slegato da un discorso più ampio sul lavoro salariato. Non tutti sono mammi, papà e mamme allo stesso modo e, in ogni caso:
[…] anche se fosse possibile liquidare completamente l’idea che il lavoro domestico sia compito femminile, redistribuendolo tra uomini e donne in eguale misura, il problema sarebbe risolto? Una volta superata la sua assegnazione esclusiva al genere femminile, cesserebbe di essere oppressivo? Le donne probabilmente saluterebbero con entusiasmo l’avvento dell’ “uomo di casa”, ma la desessualizzazione del lavoro domestico non ne altererebbe la natura oppressiva […] In altre parole l’industrializzazione e la socializzazione del lavoro di cura sono diventate ormai delle oggettive necessità sociali. (Donne, Razza e Classe, Alegre 2020).
Il discorso sul lavoro domestico e sulla cura dei figli non può essere slegato da un discorso più ampio sul lavoro salariato.
Sono passati più di quarant’anni da quando Angela Davis scriveva queste parole e il lavoro domestico non è stato industrializzato. Forse ci sono sempre più “uomini di casa” ma non dobbiamo dimenticare che molto spesso, in molte famiglie, i lavori più ingrati e ripetitivi non è il papà a farli, non la mamma, ma un soggetto altro. Spesso sfruttato, sottopagato, immigrato, privo di tutele.
Lo stesso soggetto, il lavoratore domestico, che è stato dimenticato anche dal Decreto Legge Cura Italia del 17 marzo: impossibilità di accedere alla cassa integrazione, nessuna chiarezza sulla possibilità di usufruire del congedo parentale o di accedere al premio di cento euro previsto per i lavoratori impossibilitati a lavorare da casa.
Non vi stupirà sapere che questo soggetto, come emerge da un rapporto del 2019 di Domina, nell’ottantotto per cento dei casi, è una donna. Il femminismo che vogliamo appartiene anche a loro. Buona festa delle mamme, nessuna esclusa.