Torna nella nostra città l’International Month of Photojournalism, IMP festival, il più importante festival di fotogiornalismo mondiale in Italia. Ma cos’è oggi il fotogiornalismo oggi? Quali idee lo attraversano e con quali aspirazioni? Abbiamo intervistato Riccardo Bononi, direttore del festival.
Vorrei iniziare chiedendoti una risposta alla Uliano Lucas, padre del fotogiornalismo italiano invitato da voi l’anno scorso. Alla domanda «qual è il futuro del fotogiornalismo italiano» rispondeva – sintetizzo un po’- «è morto, è un fenomeno novecentesco. I fotografi si scambiano per artisti […] Siamo in mano a gente che ci sta trascinando verso una comunicazione visiva che è di un’astrattezza incredibile, è il potere che vuole questo. L’Italia invece è un Paese tutto da scoprire. […] I fotografi dovrebbero fare dei collettivi di controinformazione fotogiornalistica, perché oggi l’informazione visiva passa da due grandi agenzie che hanno il monopolio mondiale, ad esse le nostre testate giornalistiche sono abbonate. Il risultato è che vedete sempre la stessa realtà». Ecco, se hai puntualizzazioni o vuoi già rispondere nel merito….
Sì, più che abbonate direi asservite, è una cosa grave. Sono fondamentalmente d’accordo con quello che dice Lucas, conoscendolo da anni, ma vorrei contestualizzare meglio. Non so se ha risposto esattamente così, ma so che è la sua posizione. È la sua posizione da fotografo impegnato, del ’68, degli anni in cui quello che raccontava era intrinsecamente rivoluzionario, erano i sogni di un’intera generazione; poi si è ritrovato in un mondo in cui i fotografi fanno a gara a chi compra dei like finti sui social, screditato dall’essere poco conosciuto su quei social; si è ritrovato in un mondo in cui l’informazione è cambiata radicalmente, vedendo diluito l’impulso rivoluzionario che la muoveva in un mare di aspetti secondari che definisce squallidi come il pubblicare gratis o in cambio di visibilità, nella fotografia come in altri settori .
Aggiungo però che quando l’ho conosciuto, eravamo in un panel a Orvieto e ha chiesto di salire sul palco dopo di me per constatare che esiste ancora una generazione che non sta assecondando quel tipo di modello, una generazione che decide, prima di pubblicare una storia, di passare anni sul campo , con l’umiltà di sapere di essere uno straniero, di farsi portavoce di una cultura altra, della sua storia coloniale. Ha sempre criticato che i fotografi non fossero colti, relegati all’essere gli artigiani del mondo dell’informazione, non delle persone che hanno studiato il linguaggio delle immagini e hanno imparato a maneggiarlo realmente e innovarlo. Sono contento di avergli fatto parzialmente cambiare idea e anche quando l’anno scorso è venuto al festival e ha visto i lavori di oltre dieci anni di fotografi che avevano meno della metà dei suoi anni si è reso conto che sì, e qui cito: «il sistema del fotogiornalismo italiano è morto ma il fotogiornalismo italiano continua a vivere come forma di resistenza attraverso singole persone».
Che forme avete trovato nella tua generazione per continuare a opporvi e fare un buon fotogiornalismo?
Trovo l’idea del collettivo come qualcosa di antiquato, in Italia ne nascono e muoiono con la stessa facilità. Non sono comunque quelli di una volta, perché con la minore possibilità di pubblicare sorgono lotte intestine e diventa difficile continuare ad avere ideali comuni. Esistono e resistono esempi virtuosi chiaramente, come TerraProject Cesura, che da anni fanno un ottimo lavoro, ma non sono tanti. Piuttosto che a un collettivo tornerei addirittura all’idea del manifesto, cioè a una serie di valori messi neri su bianco che possano essere condivisi non per forza da gruppi formali di persone ma anche da singoli individui che mentre si trovano dall’altra parte del mondo e completamente in solitaria sul campo possano farvi riferimento. Idee volte ad educare pubblico, photo editor, redazioni delle riviste e gli autori stessi, che quando si trovino a dover scegliere possano trovare ispirazione in quei principi . Faccio riferimento per esempio al fatto che ancora oggi la deontologia del fotogiornalismo ci dice di non intervenire mai nelle situazioni in cui ci troviamo: si può rischiare il lavoro se anziché fotografare ti fermi ad aiutare un soldato ferito, ti intrometti, cerchi di tirare fuori qualcuno dalle macerie. La deontologia del fotogiornalista è ancora quella di dover essere un testimone distaccato. Credo che andrebbe valorizzata l’identità dei giornalisti, la loro competenza specifica, e valori più ampi di quelli dei singoli collettivi. Per questo dico che è meglio pensare a poche linee guida più generali.
Quali idee comporrebbero questo manifesto?
L’Imp è nato promuovendo i valori dello Slow Photojournalism. Una storia che stiamo costruendo. A tutti i fotografi che partecipano chiediamo se aderiscono alla lentezza come valore, come opposizione alle fast news. In un mondo in cui c’è ancora il modello Robert Capa, ovvero l’idea che il fotografo migliore sia quello che è arrivato prima e si è avvicinato di più, l’idea un po’ machista di fotografo di guerra, noi cerchiamo di sostituire la vicinanza fisica con una vicinanza umana e una profondità di conoscenza, cercando di guardare al fotografo non come a un eroe che si butta sul campo, ma come a un esperto, un ricercatore che si avvicina attraverso la conoscenza reale del campo. Ancora oggi, quando leggiamo un articolo, il fotografo si è avvicinato al tema per due o tre giorni al massimo. Da lettore prima ancora che da giornalista mi piacerebbe vedere immagini scattate non da un turista di passaggio ma da qualcuno che conosca davvero quell’argomento, altrimenti le riviste diventano ripetitori di idee preconcette sul mondo.
Dunque, cos’è l’Imp festival e come si è sviluppato?
Nasce nel 2019. Venivo invitato in numerosi festival in vari ruoli, ma sono stato visitatore del triplo dei festival che mi hanno ospitato, e sia come ospite che come visitatore ho sempre riconosciuto il festival come spazio più adeguato rispetto a quello editoriale per lasciare davvero libertà di parola ai fotografi. Come lettori spesso apriamo i magazine, anche tra quelli che hanno una verifica maggiore delle notizie, come l’Internazionale, e un articolo occupa al più tre o quattro pagine nelle riviste migliori, una nelle altre. Magari il giornalista ha impiegato dieci anni per quel lavoro e ha un archivio fotografico immenso con conoscenze e sfumature concettuali, ma lo spazio editoriale è talmente poco che sono costretti a un riassunto banalizzante. Invece, i festival permettono di presentare anche quaranta fotografie, ognuna delle quali spesso ha didascalie più corpose del testo di un intero articolo. Una specificità dell’Imp è poi di portare sempre e comunque tutti gli autori dai cinque continenti, anche se vengono da Paesi in conflitto, con la possibilità di incontrare il pubblico con una visita guidata e un talk di due ore su quelli che per loro sono i temi importanti. Aprono il loro archivio parlando di lavori passati o presenti, parlandone come autore e come testimone oculare sul campo. Il visitatore può così valutare non solo le informazioni ma anche la persona che dà quelle informazioni.
Guerre, droghe, colonialismo, violenza di genere, i temi di cui parlate sembrano essere quelli che opprimono il mondo. Come scegliete i temi?
Non li scegliamo a priori: nell’ottica di considerare i giornalisti come esperti, la selezione avviene in base a quanto tempo hanno dedicato alle loro storie.Se qualcuno, come Finbarr O’Reilly ha passato dieci anni a raccontare un’Africa al di là degli stereotipi, a raccontare la fashion week di Dakar, anche se non c’è nulla di catastrofico né un’intrinseca esigenza di cambiare il mondo, lasciamo che quella storia venga raccontata, nella convinzione che qualcuno che vi ha dedicato tantissimo tempo possa far emergere degli aspetti molto importanti. Persino una storia di costume come quella del più grande evento di moda del continente africano racconta molto dell’Africa di oggi, di un’Africa giovane, economicamente pulsante, quanto di più lontano da un Salgado che continua a raccontare stereotipi che allontano
La stessa apertura vale per la selezione degli autori…
Sì, solo quest’anno abbiamo sei vincitori del World Press Photo, due premi Pulitzer, ma davvero, sono onesto in questo, non li scegliamo per aver vinto dei premi, ma li hanno vinti per le stesse ragioni per cui li scegliamo. Due di questi fotografi sono stati esiliati dai loro Paesi, Manoocher Deghati è stato l’unico giornalista al mondo a raccontare e denunciare i linciaggi in piazza dopo la Rivoluzione, nell’81 è stato esiliato e non contento di questo è andato a Kabul e ha fondato la prima scuola di fotogiornalismo per studenti afghani e continua ad andarci anche adesso che stanno scappando tutti, lì esiste ancora una scuola di fotogiornalismo libera, per ora scampata al radar dei talebani. L’altro, Greg Marinovich, fondatore di uno dei collettivi di cui parlava Lucas, il Bang Bang Club, nato in Sudafrica all’inizio degli anni ’90. Anche lui esiliato dal governo per non aver collaborato denunciando le sue fonti. Il tutto per sottolineare che non è tanto l’essere bravi, ma tra i bravi l’aver dedicato molto tempo a una questione.
Non c’è una selezione nemmeno dei generi quindi…
Sì, lasciamo piena libertà sui contenuti e sulla forma, quindi anche nel momento in cui lasciamo libertà sui contenuti lo stesso vale per le commistioni tra i generi e la libertà espressiva. Abbiamo avuto Alex Webb, fotoreporter di Magnum considerato padre della street photography. Le sue foto avevano un valore estetico talmente potente da valere anche anni dopo che la notizia si era esaurita. Lo stesso per la libertà espressiva: dal bianco e nero al colore, ai formati: quest’anno abbiamo diversi fotografi che sono tornati a scattare col banco ottico, con grandi formati in analogico.
Cos’hanno in comune questi fotografi?
La mia impressione e di gran parte dello staff è che più un fotografo sia riuscito a cambiare poco poco il mondo più è una delle persone più umili che puoi incontrare. C’è qualcosa che lega i fotografi, quando sono al bar tra una talk e l’altra, che lega i fotografi che hanno visto epidemie e guerre ed è uno sguardo profondo sulle cose, anche in una situazione sociale e senza farne riferimento condividono il non dare per scontato quello che hanno davanti, l’essere grati di potersi bere un aperitivo in piazza e poter parlare liberamente di certe cose perché hanno visto quel qualcosa di peggio, hanno visto al di fuori del cinema e della fantascienza mondi distopici che noi possiamo solo immaginare e ne hanno visto le conseguenze nelle piccole cose e nei dialoghi tra le persone ed è una cosa che dà una profondità che si percepisce anche nelle loro battute.
Ancora, quest’anno torna quella che per me è la più grande fotografa al mondo, che ha fatto scuola per un’intera generazione e il manifesto dello Slow Photojournalism è probabilmente ispirato a lei: Darcy Padilla. La prima fotografa al mondo a dedicare un tempo smisurato a un reportage su una singola persona, l’unica a tradurre il genere biografico in fotografia, a portare l’intera vita di una persona all’interno della fotografia, con un lavoro che dura da 26 anni e che procede attraverso la vita dei figli oltre la morte di Julie. Di solito quando i fotografi dedicano tanto tempo a un lavoro non sono solo esperti, ma anche attivisti, persone che cercano di usare il mezzo fotografico per fare attivismo dal basso.
Penso che il tuo stesso lavoro di fotografo incarni le idee che muovono il festival. Dalla lentezza come valore alla tensione etica. Tu sei un antropologo visuale e le tue foto in Madagascar racchiudono anni di studi e trasferte. Hai vissuto per dieci anni con il popolo malgascio, raccontando un mondo dove la morte non esiste, non per come la pensiamo noi. Un lavoro approdato al libro fotografico “Une belle vie une belle mort”. Alla lettura antropologica del mondo intrecci poi quella politica e il tentativo di cambiarlo. Raccontaci di Ralalitra (la città delle mosche) e dicci poi se altri fotografi dell’Imp hanno avuto la tua stessa fortuna di riuscire a cambiare le cose con la fotografia.
Tolgo subito l’eroismo dalla tua domanda: per ogni volta che uno può raccontare un episodio positivo in cui è riuscito a cambiare le cose ce ne sono altri cento in cui hai dovuto lasciare situazioni disperate, inascoltate nonostante le pubblicazioni. Fai piangere qualcuno ma magari non sei riuscito a identificare il target giusto. Sì, ci sono state fotografie nella Storia che hanno funzionato. Non puoi prevederlo ma puoi sperare che ogni mille foto che fai ce ne sarà una che potrà smuovere un granello. A volte, per l’effetto farfalla questo granello che muovi riesce a cambiare le cose. Il caso cui fai riferimento è il caso di una discarica, una delle più grandi del continente africano, grande come il centro storico di Padova, ci abitavano tremila persone, più della metà bambini, cresciuti da altri che a loro volta erano stati abbandonati lì. Il governo nega l’esistenza di questo luogo, che il caso vuole essere anche il posto con più casi di peste bubbonica e polmonare al mondo. Lì hanno contato il tempismo, l’esperienza anche linguistica data dagli anni passati in Madagascar, che mi ha dato la possibilità di entrare e capire i pericoli, e da lì è stata fortuna perché la situazione andava avanti dagli anni ’60 e già delle Ong avevano tentato di far qualcosa ma in quel caso si sono messi assieme vari fattori . Io sono stato la persona giusta al momento giusto: il video che abbiamo girato [il riferimento è al videomaker Francesco Rufini e al loro lavoro “La città delle mosche”] è diventato virale durante una tornata elettorale delicatissima del sindaco; in più collaboravo con una infettivologa che ha legato i casi di peste bubbonica in periferia a quella discarica, cosa che nelle preoccupazioni del governo avrebbe fatto male al turismo più dei bambini morti. Inoltre una pubblicazione avveniva in Germania, Paese che senza saperlo finanziava indirettamente questa società privata che aveva in concessione la gestione della discarica, una gestione mafiosa. Però nemmeno questo elemento, da solo, sarebbe bastato: fu l’insieme delle pressioni economiche europee, politiche da parte della popolazione in periodo elettorale, la ricerca universitaria assieme al ministero della sanità che identificava quel luogo come il più caldo della Terra per quella malattia. Oggi non ci sono più bambini in quel posto, le poche persone presenti sono pagate, chi di dovere arrestato e la ditta municipalizzata. Ma sono stati gli insiemi di questi fattori, non uno solo, probabilmente da fotografo avrei pubblicato tre o quattro volte la storia e basta.
E gli altri autori?
Sì, ci sono tanti esempi, in generale, da Nick ‘Ut con la foto di una bambina che scappa da un bombardamento al napalm in Vietnam – foto che ha messo fine alla guerra di lì a un mese – e sì, anche fotografi del nostro festival, ma il punto è che è difficile valutare l’impatto. Per esempio Francesca Volpi ha fatto un bellissimo lavoro sugli omicidi seriali delle persone LGBTQ+ in Honduras. Non ha risolto il problema ma ha fatto in modo che partissero manifestazioni e che queste persone si sentissero ascoltate, che prendessero coraggio per fare outing. Eppure il governo non ha modificato alcuna legge. Ancora, in punto di morte la ragazza seguita da Darcy per tutta la vita l’ha ringraziata per averle dato un’identità, per averla ascoltata. I figli hanno trovato una nuova famiglia dopo che il patrigno violento è finito in carcere e stanno facendo una vita felice. È cambiare il mondo? No. E’ cambiare la vita di una famiglia singola? Sì. Per quello ti parlavo di una postura antieroica. È difficilissimo valutare l’impatto. Ci sono autori come Krysztof Miller, che abbiamo ospitato con una mostra che finiva con le ultime parole del diario che ha lasciato prima di suicidarsi e che è diventato poi il titolo della mostra: “le fotografie che non hanno cambiato il mondo”. Miller ha visto orrori su orrori, non è mai riuscito a cambiare le cose e fu sovrastato dall’impotenza del presentare problemi senza mai venirne a capo. Lavorava per un’agenzia di news, quindi veniva inviato sul campo senza una preparazione, altro esempio dell’importanza dello Slow Photojournalism per conoscere bene il contesto in modo da poter interpretare quel che vedi, sia a livello personale che per orientarne la lettura e l’azione: molti fotografi con la loro esperienza collaborano con delle Ong nel pensare progetti di intervento. Insomma è difficile valutare sul lungo periodo cosa sarà servito e cosa no.