Il 12 settembre si è tenuto a Marghera un convegno per ricordare le tre giornate di rivolta che, tra il 3 e il 5 agosto 1970, hanno visto come protagonisti gli operai delle ditte d’appalto. Sono intervenuti sindacalisti, studenti e operai che quei giorni li hanno vissuti. Abbiamo deciso di analizzare quegli eventi insieme a Gianfranco Bettin, presidente della municipalità di Marghera e testimone di quelle giornate di fuoco. L’intento è quello di ravvivare il ricordo di un pezzo di storia veneta praticamente dimenticato, andando a tracciare dei fili rossi col mondo del lavoro odierno.
Il 2 agosto 1970, gli operai della Electron (controllata dalla Montedison), dopo aver collezionato 200 ore di sciopero a partire da maggio, bloccano il cavalcavia e la stazione di Mestre. La celere di Padova interviene la mattina del giorno successivo, all’altezza del capannone del petrolchimico, al confine tra fabbriche e case popolari. La lotta dilaga così anche nei quartieri, lo scontro con le forze dell’ordine è durissimo. Gradualmente, gli operai degli appalti ottengono l’appoggio dei dipendenti “diretti” della Montedison e scendono così in campo anche i gruppi di Lotta Continua e Potere Operaio. Il terzo giorno si accoda infine il sindacato, che dichiara lo sciopero generale e organizza una grande manifestazione in piazza Ferretto; viene così finalmente aperta una trattativa che si conclude con importanti conquiste per i lavoratori delle imprese.
Partiamo dalla posizione che gli operai degli appalti occupavano nelle fabbriche tra gli anni ‘60 e ‘70. Uno degli aspetti più interessanti è forse la differenza con gli operai “diretti”, che avevano il posto garantito, erano iscritti al PCI o al sindacato e godevano di numerose tutele. Quando il passaggio alla produzione in serie porta all’ingresso in fabbrica di una marea di manodopera giovane e appaltata, c’è un attimo di spaesamento e la notevole diversità di trattamento crea sin da subito degli attriti con la dirigenza. Cosa ci può dire oggi il fatto che due soggettività di fabbrica così diverse, quasi contrapposte, siano riuscite ad unirsi nella lotta e ad agire in solidarietà reciproca?
Il punto di partenza per gli operai d’appalto è la loro totale assenza di diritti e di solidità salariale. Non potevano mangiare in mensa, né usare i servizi igienici, i trasfertisti addirittura dormivano in macchina. L’incontro con i dipendenti veri e propri non fu facile proprio perché questi lavoratori costituivano una massa dequalificata, precaria e ricattabile. Interessante è anche la sovrapposizione che si trovava, in molti casi, tra la figura del lavoratore d’appalto e del “metalmezzadro”, quell’operaio del settore metallurgico che nel tempo libero lavorava il proprio pezzo di terra. Entrambi erano soggetti a discriminazione da parte dei lavoratori più esperti, sia per le loro origini contadine, sia perché erano considerati degli avanzi di galera. Per quanto riguarda l’impegno politico, la radicalizzazione di questi settori avveniva al di fuori delle file del partito e del sindacato e molto spesso tutta in un colpo; la rivolta di quei giorni ne è l’esempio lampante. Teniamo presente che lo Statuto dei Lavoratori non riguardava gli appaltati, che, quindi, dovettero conquistarsi quei diritti lottando autonomamente. Durante le tre giornate dell’agosto 1970, infatti, la solidarietà non è sgorgata spontaneamente; la prima giornata e l’inizio della seconda sono state totalmente delle imprese d’appalto. Si è dovuta aspettare la fine della seconda perché scendesse in piazza il resto del petrolchimico. Alla Montedison, invece, il sindacato aveva sconsigliato ai lavoratori di unirsi alle proteste dei colleghi. La loro riluttanza aveva quasi portato allo scontro. Solo il terzo giorno e solo dopo una massiccia attività di picchettaggio, la Montedison ha chiuso. La rivolta, insomma, aveva sorpreso un po’ tutti, ma c’è da dire che un coordinamento degli operai d’appalto aveva aperto una vertenza già due mesi prima per chiedere l’adeguamento salariale, un migliore trattamento nel luogo di lavoro e il blocco degli straordinari. Nel portare avanti questa vertenza, erano rimasti soli, ignorati anche da una parte significativa dei gruppi più rivoluzionari, come Potere operaio, che aveva un forte seguito nelle fabbriche. La solidarietà quindi non è mai scontata: in quei giorni è stata raggiunta solo una volta che ci si è accorti che appoggiare la lotta degli appaltati avrebbe dato una migliore disciplina a tutto il movimento, riducendo notevolmente il margine di manovra dei padroni. E, infatti, alla fine, con l’accordo sulle ditte appaltatrici, sono stati riconosciuti tutti i punti richiesti. Il punto fondamentale è questo: ogni catena è forte quanto il suo anello più debole. Oggi come ieri, è negli interessi dei lavoratori col posto fisso lottare al fianco dei lavoratori precari, per evitare che questi ultimi vengano strumentalizzati dai padroni. Avviare un processo di ricostruzione dei diritti dal basso è necessario per ottenere un miglioramento trasversale, ed è anche un passaggio imprescindibile per raggiungere una vera unità di classe.
Come abbiamo visto oggi, queste condizioni di estrema precarietà e di sfruttamento non sono affatto scomparse per i lavoratori degli appalti, anzi, sembrano essere state estese a tutto il mondo del lavoro. Con la legge 30, l’introduzione di decine di contrattazioni diverse, il Jobs Act, il lavoro intermittente ecc. si è andata ad intaccare non solo l’integrità del processo produttivo, ma anche quella del movimento operaio stesso. È possibile oggi imparare da conflitti come quelli degli anni ‘60/‘70? È ancora possibile portare la lotta ad un livello così avanzato quando il lavoro è ormai poco più che una parentesi discontinua nelle nostre vite?
Indubbiamente, oggi dobbiamo muoverci in un contesto meno favorevole rispetto a quello che aveva partorito la rivolta del 1970: all’epoca, lo Statuto dei Lavoratori aveva aperto il terreno dell’estensione dei diritti, mentre adesso quel terreno è pesantemente sotto attacco. C’è un disperato bisogno di lavoro sindacale che riparta dalle radici e, a tal proposito, penso sia più che salutare l’apporto dei sindacati autonomi, che creano un po’ di sana competizione – se così vogliamo dire – alle sigle più rappresentative. La ristrutturazione che ha seguito la stagione di lotte degli anni ‘70 ci ha consegnato un cantiere frammentato in 500 imprese, una vera e propria “giungla degli appalti”, con diverse migliaia di lavoratori di ben 43 nazionalità diverse. Ricostruire da zero il rapporto operaio-operaio, operaio-sindacato, operaio-classe è un’impresa ardua, che deve e può ripartire dalle istanze dei frangenti più arretrati e “schiavizzati”, andando così a rimuovere quella trazione al ribasso che questi esercitano involontariamente sugli altri lavoratori. Può essere che sia proprio il capitalismo globalizzato a fornirci i mezzi per superare quest’impasse, ma ciò non significa che si possa prescindere dalla condizione oggettiva in cui ci troviamo.
E questo in parte spiega anche perché, a parità di sfruttamento e di privazione dei diritti, oggi la risposta non possa essere la stessa.
Certo. La stratificazione interna al mondo del lavoro pesa moltissimo. Ad esempio, il fatto che quasi tutti i lavoratori degli appalti e dei subappalti siano immigrati non è di poco conto, dal momento che, per ottenere il permesso di soggiorno, devono per forza avere un contratto di lavoro. Questo li rende molto vulnerabili, li spinge ad accettare condizioni degradanti (non sono affatto rari i turni da 13 o 14 ore al giorno, senza ferie e senza malattia) e a subire ricatti, sia da parte dei capi loro connazionali sia da parte dei funzionari italiani che ci stanno dietro. Per molti aspetti, le condizioni sono addirittura peggiorate rispetto a cinquant’anni fa, perché una volta, certo, mancavano le tutele e il salario era esiguo, ma almeno non c’erano le cosiddette paghe globali e i taglieggiamenti sullo stipendio. Oggi molte imprese monetizzano sulla sanità, le assicurazioni e la previdenza sociale, cosicché i lavoratori ogni anno si ritrovano solo la metà dei contributi versati. Delle indagini cominciate dieci anni fa sul caso di alcuni operai del Bangladesh hanno solo di recente portato a qualche condanna, mentre sono ben dodici i dirigenti di Fincantieri indagati per frode fiscale e corruzione. Questi comportamenti criminali sono aumentati esponenzialmente negli ultimi anni anche a causa delle infiltrazioni mafiose all’interno del cantiere. I legami tra le imprese d’appalto e alcune famiglie camorriste di Eraclea sono comprovati e non è da escludere la connivenza dei piani dirigenziali più alti. Tutto questo per dire che ci sono delle enormi difficoltà di organizzazione a questo livello, ma ci sono anche difficoltà da parte dei dipendenti nel farsi carico di queste battaglie. Non bisogna però cadere nella tentazione di credere che la presenza di sacche di forza-lavoro demansionata e schiavizzata sia fisiologica o, addirittura, funzionale ai fini dell’equilibrio economico. Chi considera gli appaltati lavoratori di serie b del tutto estranei alla causa non si accorge che, al contrario, questi sono determinanti proprio perché è lì che si trova il punto più avanzato della lotta contro l’iper-sfruttamento dilagante.
Torniamo alla rivolta. Nella prima giornata di scontri, la notizia – poi smentita – della morte di un ragazzo di 19 anni per mano della polizia scatena dei tumulti nel quartiere di Ca’ Emiliani e nel centro urbano di Marghera. Questa dinamica, per cui la notizia di una vittima della repressione poliziesca porta all’insurrezione nella città, ci è molto familiare, dati i recenti sviluppi delle rivolte negli USA. Cosa può dirci sul riot come strumento di estensione della lotta dalla fabbrica al territorio urbano?
A dire la verità, in quelle giornate la rivolta popolare c’è stata sin da subito. Io abitavo proprio a Ca’ Emiliani, avevo quattordici anni, e il 3 agosto ero in giro in bicicletta con gli amici quando ci fu la prima carica della celere. Dopo il primo contrattacco, le file operaie si dispersero fra le vie del quartiere. Là vivevano molti operai delle imprese e, per questo, Ca’ Emiliani era considerato un quartiere sottoproletario. Inoltre, la sua posizione – proprio a ridosso del petrolchimico – non è un dettaglio secondario; il quartiere, infatti, nasce ai margini del nucleo urbano per volontà del regime fascista che voleva concentrarvi gli asociali e gli oppositori politici. Quindi sì, in un certo senso, grazie a questa terra di confine la lotta di fabbrica diventa riot. Se dovessi, però, trovare una differenza direi che all’epoca l’unico bersaglio preso di mira era la polizia, non ci fu quella sistematica distruzione di proprietà privata e attività commerciali che vediamo oggi perché nel quartiere la consideravamo tutta roba nostra. Poi c’è da dire che oggi il riot si sta imponendo come forma di lotta privilegiata laddove manca quella cinghia di trasmissione tra bisogni sociali e rappresentanza politica. Gli USA, non a caso, sono un paese dove questa mancanza si fa sentire molto. Nel 1970, invece, questo legame c’era ancora; le appartenenze politico-ideologiche all’interno del quartiere erano chiare e distinte. La presenza del PCI era molto forte, ma anche quei pochi democristiani che c’erano erano democristiani di fabbrica. Ciononostante, nemmeno queste appartenenze poterono contenere la rivolta, perché i motivi che la causarono – l’isolamento degli appaltati nel portare avanti le loro vertenze e la ghettizzazione del loro quartiere – trascendevano la politica istituzionale. In quel caso, si scese in piazza a prescindere dalla tessera di partito che si teneva in tasca. Riflettere su questo punto oggi è importantissimo: se si vogliono ricostruire dalla base le condizioni del lavoro, è necessario intraprendere un lavoro sindacale che riesca ad andare molto più a fondo della fede politica. Un lavoro, quindi, radicale nel vero senso della parola, che scava fino alle radici per far crescere una nuova coscienza di classe più matura e consapevole.