Un punto sulla Salute Mentale in Veneto.
Che effetto può avere per la psicologia di una persona fragile un evento traumatico come l’epidemia di Covid-19? Come ripensare ai servizi di salute mentale? Quali le risposte dello stato? E quelle della Regione Veneto?

La Regione Veneto ha deciso di temporeggiare. Ha deciso che quelle risposte erano meno urgenti di altre. Nessuna comunicazione ufficiale fino al 23 aprile, la data in cui è stata pubblicata una circolare ministeriale volta a dispensare le Indicazioni emergenziali per le attività̀ assistenziali e le misure di prevenzione e controllo nei Dipartimenti di Salute Mentale e nei Servizi di Neuropsichiatria Infantile dell’Infanzia e dell’Adolescenza.
Per andare in profondità nella comprensione della gestione dei servizi di salute mentale durante la Fase Uno abbiamo intervistato Luisa Consolaro, psichiatra e psicoterapeuta familiare; in un secondo momento, abbiamo partecipato alla conferenza “Salute Mentale nel Veneto e Pandemia Covid-19 – Esperienze apprese, cambiamenti attuati, idee per il futuro” organizzata dalla Sezione veneta della Società Italiana di Psichiatria (PSIVE) per costruire alcune traiettorie che tengano insieme ciò che è successo, a partire dai reparti psichiatrici degli ospedali, fino ad arrivare alle comunità e ai privati. Per pensare a nuovi modi di uscire dalla crisi, non attraverso la prudenza, non assumendo una postura cauta ma cogliendo questa frattura come un’opportunità di un inizio diverso.
Come ha sottolineato Moreno De Rossi, direttore del Dipartimento di Salute Mentale di Venezia, i medici sono stati travolti quotidianamente da una serie di documenti, raccomandazioni e procedure generali. Per quanto riguarda la salute mentale si sono dovute talvolta trovare delle soluzioni alternative, perché prima della fine di aprile non erano state date indicazioni specifiche.
Il 15 aprile, infatti, è stata pubblicata una nota sulle attività che potevano essere erogate in via telematica, ma nulla riguardava la psicologia e la psichiatria. I medici si sono sentiti orfani. Più del solito.
Il ritardo, la lentezza nell’agire, nel dare risposte a livello regionale, così come a livello nazionale, racconta la storia di uno stigma che non ricade solo sulle persone affette da disagio mentale, ma su tutto ciò che le riguarda.
Nelle prime righe della circolare ministeriale si legge la seguente frase: «Le persone con problemi di salute mentale, rispetto alla popolazione generale, presentano una maggiore suscettibilità̀ allo stress emotivo scatenato dall’attuale pandemia, con conseguenti ri-cadute o peggioramento di una condizione di salute mentale già esistente».
Questa affermazione contrasta fortemente con l’esperienza raccolta durante la pandemia dagli psichiatri stessi. Così lo racconta Luisa Consolaro: “Ci si può aspettare che chi è in difficoltà subisca maggiormente le conseguenze di una situazione di emergenza, ma non è sempre così. Un mio paziente che frequenta il Centro Diurno mi ha detto, sorprendendomi, che nel momento in cui le persone non sono più potute uscire a lavorare e sono dovute rimanere chiuse in casa, finalmente ha sentito che non era più lui l’unico a vivere senza lavoro e con la paura di uscire e questo l’ha fatto sentire più normale. Per la prima volta si è sentito come gli altri. Questo ci permette di cogliere quanto il modello di normalità della nostra società sia una variabile che può contribuire ad aumentare il disagio psichico funzionando come pressione e condizionamento quotidiano per coloro che sono più fragili. Ma siamo sicuri che sia così solo per loro? O attraverso la loro difficoltà di “adattarsi” possiamo cogliere quanto la nostra normalità sia snaturante anche per noi?”
Bisogna andare oltre l’idea stereotipata che la pandemia sia necessariamente un trauma più forte per chi soffre per un disagio psicologico. Non è possibile fare un discorso unico, anzi: questo dato, riportato anche dagli psichiatri presenti alla conferenza, può servirci per riflettere sulla nostra presunta normalità.
Pensiamo che sia più difficile per alcuni soggetti scelti, designati, predisposti e, ovviamente, in alcuni casi lo è anche stato. Ma non si è tenuto conto dell’effetto negativo che i modelli sociali preesistenti, e le relative tecniche di gestione della diversità, esercitavano sul vissuto di queste persone. Stili di vita la cui rottura, o temporanea sospensione, ha avuto effetti sorprendenti.

Come afferma Bruno Fortin, psichiatra con base a Belluno, nella situazione pandemica c’è stato un cambiamento radicale che ha allentato il rapporto con la realtà. In questo nuovo contesto molti pazienti gravi sono riusciti a “funzionare” meglio, grazie ad una rottura del mondo come lo conoscevamo, ad una semplificazione drastica della nostra vita relazionale. Molti pazienti si sono sentiti meglio anche perché si è verificato un allentamento dello stigma nei loro confronti. Ci si può chiedere se sia consolante il fatto che molti pazienti, ad esempio pazienti psicotici, in questo periodo, abbiano mostrato segni di miglioramento. Forse non lo è, ma ciò che è accaduto può forse aprire una nuova prospettiva per il rapporto con queste persone. Come afferma Luisa Consolaro: “Gli psicotici c’erano anche nella società contadina ma, gli stili di vita e i ritmi più lenti di quel mondo permettevano a molti di loro di convivere e partecipare, anche parzialmente, ai compiti della quotidianità. La vita di oggi così frenetica, competitiva e divorata dalla logica della prestazione esclude chi non sta al passo. Non dovremmo allora interrogarci sul nostro modo di vivere?”.
Mappare la gestione dell’emergenza da parte delle strutture dedicate alla salute mentale non è facile. Ma ci abbiamo provato. Ecco cosa è successo.
1. SERVIZI PSICHIATRICI DI DIAGNOSI E CURA (SPDC):
Il Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura (SPDC) è un servizio ospedaliero dove vengono attuati trattamenti psichiatrici volontari ed obbligatori in condizioni di ricovero. Esplica, inoltre, attività di consulenza agli altri servizi ospedalieri.
Per queste strutture ci si è chiesti: come si fa a gestire pazienti non collaborativi all’interno di un reparto con una paradossale maggior libertà di movimento di altri e più aree comuni? Come si fa a rispettare il distanziamento, unica modalità di contenimento del contagio, di fronte ad un paziente scompensato, agitato, senza mascherina?
Le domande sono state tante e molto spesso la Regione Veneto non ha fornito risposte.
«Nella salute mentale, molto è stato prodotto tra di noi nel tentativo di risolvere i problemi». così ha introdotto la questione il dottor De Rossi, rimandando al vuoto legislativo a cui hanno dovuto far fronte, dovendo decidere se curare i pazienti potenzialmente infetti all’interno del SPDC, oppure nelle aree Covid e come gestire a livello pratico l’isolamento.
Ognuna delle possibili strategie operative ha vantaggi e criticità e, a seconda della situazione territoriale e ospedaliera, sono state intraprese l’una o l’altra strada. Per esempio, a Schiavonia, diventato Covid Hospital, l’intero ospedale è stato sottoposto a restrizioni estreme. Secondo Ida Bertin, primario del Dipartimento di Salute Mentale, non si sono verificati traumi in nessuno di coloro che erano interni al reparto psichiatrico, diversamente da altri reparti. Anzi, attraverso l’esperienza dell’isolamento è stata rivalutata la dimensione relazionale, da sempre centrale in questi reparti. È possibile ipotizzare anche che la capacità dei pazienti psichiatrici di reagire positivamente alla situazione sia dovuta alla loro familiarità nei confronti dello stigma e della malattia sconosciuta.
La situazione drammatica ha condotto molti operatori della salute a confrontarsi con sintomi psichici come ansia e paura, claustrofobia e attacchi di panico: sintomi precedentemente sconosciuti e banalizzati sono stati, anche all’interno delle strutture ospedaliere, riconosciuti a tutti gli effetti, palesando quanto possano diventare invalidanti e di conseguenza quanto fondamentale sia dare e ricevere aiuto.
2. CSM ED AMBULATORI
Il Centro di Salute Mentale (CSM) è il centro di primo riferimento per i cittadini con disagio psichico. Coordina nell’ambito territoriale tutti gli interventi di prevenzione, cura, riabilitazione dei cittadini che presentano patologie psichiatriche.
L’attività in presenza in queste strutture è stata quasi completamente sospesa, se non per i casi urgenti e i contatti indifferibili. Ciò ha fatto emergere la possibilità di svolgere alcune prestazioni a distanza, seguendo i pazienti da remoto, scardinando una certa idea di assistenza terapeutica. Ma, ci chiediamo, la telepsichiatria è sul serio da considerarsi come un avanzamento? Certamente è un bene che alcuni pazienti abbiano potuto usufruire di queste prestazioni a distanza durante l’emergenza, ma non dovrebbe diventare una prassi per l’evidente insostituibilità della presenza, dell’essere-in-relazione, lo strumento principale della cura psichiatrica. Un ruolo che la burocratizzazione e i tagli alla sanità negli ultimi anni hanno assottigliato fino a depotenziarla.
Infatti, anche nell’ambito della salute mentale, la pandemia ha smascherato alcune dinamiche di impoverimento latenti che riguardano il Sistema Sanitario Nazionale. Fino a venti, trent’anni fa, quando ancora era forte l’influenza basagliana e non erano intervenuti i tagli al personale, gli psichiatri avevano il tempo e la possibilità di andare a visitare a domicilio i pazienti. Oggi questa cosa non accade più e il personale non è sufficiente nemmeno per fare i turni di guardia in ospedale. Questo evidentemente non permette di istituire una relazione forte con le persone e con il territorio. Con danni per tutti coloro che lo abitano.
3. CENTRI DIURNI
Il centro diurno è una struttura semiresidenziale con funzioni terapeutico-riabilitative, collocata nel territorio. Le strutture presenti in Veneto sono state chiuse e di conseguenza alcuni utenti, abituati a trascorrervi diverse ore durante la settimana, si sono ritrovati a contatto con le famiglie 24 ore al giorno, sette giorni su sette.
Sia l’utente che la famiglia sono stati supportati da remoto, ma questa, come già evidenziato sopra, non si configura come un’alternativa sostenibile: né per quanto riguarda i colloqui con i familiari, né per quanto riguarda le attività terapeutiche-riabilitative rivolte ai pazienti, molte delle quali spesso si svolgono in gruppo.
4. STRUTTURE RESIDENZIALI PSICHIATRICHE
Una struttura residenziale è una struttura extra-ospedaliera in cui si svolge parte del programma terapeutico-riabilitativo e socio-riabilitativo per i cittadini con disagio psichiatrico inviati dal CSM con un programma personalizzato. Queste strutture hanno lo scopo di offrire una rete di rapporti e di opportunità emancipative, all’interno di specifiche attività riabilitative.
Su questa realtà è stata Maria Bianco, dirigente medico presso la Psichiatria di Treviso, a riportare uno spaccato interessante: anche per quanto riguarda la realtà residenziale non vi è stata nessuna attenzione specifica. «Ora le attività residenziali non sono più viste come utili. Dal ministero hanno puntato sullo scoraggiare il contagio indiscriminatamente. Non un pensiero né una parola specifici rivolti alla salute mentale […] Le strutture hanno tentato di adeguarsi e a questo cambiamento è corrisposta una totale sospensione delle attività interne e soprattutto una sospensione delle attività verso l’esterno: le più importanti».
Questa “dimenticanza” non è data dall’eccezionalità della pandemia ma rispecchia una dinamica che riguarda profondamente il rapporto delle istituzioni con la salute mentale. Quando l’emergenza sarà rientrata, le risorse territoriali diminuiranno a causa della crisi economica. I servizi in questo senso sono messi davanti alla necessità di cambiare, di pensare a percorsi non di contenimento ma di riscoperta dei ruoli personali, attraverso un recupero dei singoli progetti dei pazienti. I percorsi standardizzati non saranno più sufficienti, però questo potrebbe essere un incentivo per pensare percorsi più flessibili, implementando l’integrazione sociosanitaria. Il discorso sulla salute mentale non può più essere slegato da un discorso più ampio sul sociale e sui legami con il territorio.
Dobbiamo ricordare che il “modello Veneto” in questa situazione ha tenuto solo perché, rispetto ad una regione come la Lombardia, abbiamo assistito ad una politica di privatizzazione più lenta. In realtà in Veneto, nel corso degli ultimi trent’anni, sono stati fatti molti errori che sono sotto gli occhi di tutti: ad esempio tagli agli investimenti, operazioni di progressivo accentramento. E non si è invece supportata la medicina territoriale, che rappresenta un argine importante per fare prevenzione e non diagnosi precoce.
Come afferma Consolaro: “Zaia non ha salvato il Veneto, né lo stava salvando prima dell’inizio della pandemia. Basta andare a vedere i bilanci degli ultimi anni sulle politiche sanitarie e sociali. La pandemia ha bloccato il processo subdolo di Lombardizzazione del Veneto appena in tempo… Inoltre, è importante non dimenticare che la Salute non è solo questione di ospedali e di medici, ma abbraccia un più ampia idea di benessere sia del singolo che della comunità. I determinanti della salute sono tanti. Il livello di reddito, di cultura, di integrazione sociale, la qualità delle relazioni familiari, ciò che si mangia, ciò che si respira, gli stili di vita, l’accesso ai servizi sono tutti elementi che condiziona il benessere dei singoli e della comunità. Nessuno di questi punti andrebbe dimenticato e nel modello da cui veniamo non erano presi sufficientemente in considerazione.
Il Covid-19 ci ha RI-insegnato che prendersi cura di un territorio e dei suoi abitanti in una dimensione di prossimità è fondamentale, sia per la salute fisica, che per la salute mentale. Se avessimo avuto dei presidi sui territori, dei luoghi intermedi di prevenzione e prime cure, non avremmo intasato le terapie intensive. Anche lo psicologo potrebbe svolgere una funzione di presidio, non solo in distretto, ma agendo in piccoli nuclei. Questa capacità di essere sul territorio per educare, prevenire e anche curare era nella progettazione della legge di Riforma Sanitaria del 1978 ed era nello spirito della riforma psichiatrica che non a caso ha spostato la cura della sofferenza psichica dal manicomio al territorio lavorando ad ampio raggio, facendo in modo che la persona non venisse espulsa dal suo ambiente, creando le condizioni non per un sussidio di invalidità, ma per un inserimento lavorativo adatto a quella persona”.
Continua Consolaro: “La cosa che mi fa arrabbiare è che sappiamo fin dalla legge 180 che questa era la strada da seguire e avevamo costruito tantissimo per dare vita ad una vera riabilitazione psichiatrica, per dare gli strumenti giusti alle persone, per fare in modo che nel lavoro con le persone fragili si supportasse la famiglia e si educasse il territorio di provenienza ad una maggior integrazione di queste persone, per non aggravare ulteriormente le loro difficoltà. Per non dare soluzioni temporanee ai pazienti che dopo pochi mesi ricadono e bisogna ripartire da capo. Sono, però, almeno 20 anni che questa strada è stata prima rallentata e poi contrastata dalle logiche “aziendali” e tecnicistiche delle politiche sanitarie regionali. Tuttavia, questa emergenza può farci pensare e può permetterci di capire dove stavamo andando e quanto è pericolosa la strada che stavamo intraprendendo.
Temo che continueremo a percorrerla, mentre la situazione attuale potrebbe rappresentare una grande opportunità per riallacciare determinati nodi, per riconnettere il benessere economico di un paese con quello psicologico, fisico, relazionale. Questa pandemia ha messo in evidenza che la privatizzazione dei servizi alla persona non è possibile: le politiche sanitarie e sociali non possono essere sottomesse al PIL. Nella logica neoliberista questo è stato fatto passare come necessario e normale ed è diventato cultura dominante tanto che ci eravamo assuefatti; invece ora ci siamo resi conto di quanto distorta fosse la normalità che avevamo accettato. In particolare la Psichiatria oggi deve riprendere la sua funzione di cura della sofferenza psichica e del disagio sociale delle persone e del loro ambiente di vita. Non può essere intesa come la cura del cervello o il controllo del comportamento, ovvero come una pratica di distribuzione dei farmaci o una forma di controllo sociale o, ancora peggio, una delle tante pratiche ambulatoriali”.

La patologia è collegata agli stili di vita che conduciamo, lo dimostra il fatto che alcuni pazienti per la prima volta si siano sentiti come tutti gli altri in questa pandemia, perché tutti erano sottoposti in maniera diversa a delle restrizioni.
Questo mondo ci vuole iperattivi e l’emergenza ci fa capire che sono i nostri stili di vita ad essere problematici. E forse chi non riesce ad essere funzionale e ben adattato nel mondo malato nel quale viviamo, potrebbe sembrare più sano di chi ha vissuto la situazione dovuta alla pandemia come un momento eccezionale, dopo il quale tornerà la “normalità”.
Senza pensare a cosa ci può insegnare questa pandemia e a quanto, quando uno stile di vita è più umano per tutti, si aprano possibilità di stare meglio. Tutti.
La foto in evidenza è di Raymond Depardon / Magnum Photos, da “Manicomio” 1977-1981
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