di Cecilia Beretta
Alcune impressioni sul film di Alessandro Comodin Gigi la legge
Uno dei meriti di Alessandro Comodin e del suo protagonista, Gigi, suo zio, è quello di aver ricordato a noi che qui siamo nati o dal Veneto siamo stati adottati che anche in Pianura Padana c’è il sole. Grazie a Gigi la legge abbiamo potuto sperimentare quello che nel nostro territorio accade solo per un brevissimo lasso di tempo stagionale, la sensazione del sole slegata dall’afa, anche se le palme e la divisa di Gigi che a volte aderisce al suo petto ci rammentano che l’umidità è insita al territorio scivoloso che ci troviamo ad abitare.
Gigi la legge segue il protagonista, un poliziotto di provincia, nelle sue bislacche indagini alla ricerca di un inesistente colpevole di un suicidio sui binari. L’evento potrebbe sembrare un pretesto per raccontare la vita di Gigi, ma non è così.
Premiato al Locarno Film Festival, è un film atipico che sta facendo parlare di sé proprio per un profondo scollamento rispetto alla media dei film prodotti in Italia. Il lungometraggio è girato quasi interamente nella cittadina di San Michele al Tagliamento, al confine tra Veneto e Friuli, e per interi tratti all’interno della macchina in cui Gigi esercita la sua professione, quella di vigile urbano. Anche se, fin da subito, ci è chiaro che non è il membro della polizia che mette le multe al quale siamo abituati ma un cuore semplice, capace di profondità abissali travestite da ovvietà, che ci arrivano mediate da una cornice surreale e iperrealistica allo stesso tempo.
Fin dalla prima scena lo vediamo stazionare in un giardino-giungla, il suo, in cui bambù e ombre diventano il teatro di un delirante dialogo con il proprio vicino di casa, disturbato dagli alti alberi di Gigi che invadono la sua proprietà, probabilmente uno di quegli innaturali e curatissimi prati all’inglese di cui è disseminata la provincia.
Già da questa prima scena ci sembra di conoscere questo “clown triste”, come è stato definito dai giurati del festival di Locarno, umanissimo ed alieno al territorio, alla sua professione, ai rapporti con gli altri; ai quali in certi casi preferisce sostituire un’altra realtà, immaginaria, maliziosa e piena di suspence.
La realtà abitata e animata da Gigi, da lui parzialmente reinventata, si configura come totalmente alternativa a quella popolata dai cittadini che bruciano sterpaglie o dal suo superiore che tenta di rendergli la vita difficile e guastare la sua serenità inspiegabile, arrivando ironicamente ad assumere le improbabili tinte del poliziottesco anni ‘70 evocate dal titolo.
Il regista dipinge un microcosmo luminoso e inquietante che inizialmente appare spaccato a partire dal suicidio di una donna sui binari del treno, ma poi si rivela punteggiato da eventi tragici come questo, una spia di qualcosa che sfugge all’immagine di un territorio inerte in cui nulla accade, in cui l’unico movimento nel paesaggio è dato da signore attempate che pedalano lentissime su biciclette arrugginite, dalla macchina di Gigi che macina chilometri sulla statale, da un ragazzo con un motorino truccato a cui Gigi raccomanda di non farsi beccare dalla polizia che potrebbe multarlo, venendo così meno al suo stesso ruolo (nel suo caso quasi una maschera).
Come ha affermato il produttore e aiuto regista Giulio Squarci, l’altro protagonista di questo film, che ricalca su pellicola un paesaggio in cui Gigi si possa liberamente muovere, è la Salute Mentale. Il gong che risuona con il suicidio sui binari apre in realtà una riflessione che si dipana in ogni inquadratura, a partire dall’ossessione di Gigi per la cattura del presunto colpevole, esplicitando negli atti quello che molti vorrebbero poter fare davanti ad un gesto tanto tragico.
Le indagini sconclusionate del vigile urbano fungono da bussola al film, il cui Nord, preparato con delicatezza estrema, è rappresentato dalle ultime scene in cui Gigi è costretto ad accompagnare una ragazza all’ospedale di Latisana, in vista di un trattamento sanitario obbligatorio. La scena non è il pretesto per parlare di un tema, ma la semplicità e i silenzi di Gigi e della sua collega Paola (nella vita reale un’ostetrica), seduti su una panchina fuori dal dipartimento di Salute Mentale, rappresentano la conclusione perfetta di una storia altra, sottesa ad ogni inquadratura. Il cuore del film, infatti, mette a nudo la fragilità delle nostre vite e l’enigma che sono in grado di contenere (anche quelle vite dimenticate di provincia, anche quella di un vigile urbano gentiluomo), ma soprattutto ci interroga su quanto siamo in grado di accogliere noi in prima persona l’enigma degli altri, l’implicita domanda che ogni incontro rappresenta.
Alessandro Comodin non dà risposte e chiude il suo film con una sequenza impazzita di luce e verrebbe voglia di concludere anche noi qui, con l’immagine di un’auto che corre in campagna, del sole, del semplice desiderio subito esaudito di aprire i finestrini agitando la propria mano nel vento cantando Amore Disperato di Nada, senza un perché.
Tuttavia nel film si può leggere anche una contraddizione evidente: San Michele al Tagliamento si pone al confine tra un Veneto che taglia i fondi ai reparti psichiatrici e il Friuli Venezia Giulia, la terra di Marco Cavallo, dell’apertura dei manicomi, la terra che ha adottato Basaglia, veneziano di origine e che ha reso possibile una rivoluzione globale nella quale, fortunatamente, sopravvive ancora qualcosa di questo afflato. Ci sono regioni italiane più adatte di altre per impazzire.
Gigi la legge è, quindi, anche un film politico che ci riporta a un Veneto diverso da quello squallido e oscuro di Piccola Patria, o dominato da capitali stranieri e smania per gli schei come in Effetto Domino, o dai crack delle banche e dalla miseria umana di The Italian Banker, ovvero il Veneto raccontato, nella sua verità più cruda, da Alessandro Rossetto, ma ci restituisce una regione (non solo territoriale ma anche del pensiero) soggetta ad una legge diversa, quella di persone come Gigi, un po’ mago e un po’ matto, capace di emozionarci solo per il fatto di esistere nella sua trasparente purezza, dietro e davanti alla telecamera.
E tiriamo un sospiro di sollievo, anche se siamo solo al cinema.
IL REGISTA
Alessandro Comodin è originario di San Vito al Tagliamento (PN). Ha studiato lettere a Bologna e cinema a Parigi, quindi all’INSAS di Bruxelles. Con L’Estate di Giacomo (2011), il suo primo lungometraggio, ha vinto il concorso Cineasti del presente al Festival di Locarno 2011. I film successivi sono I tempi felici verranno presto (2016), di cui è anche sceneggiatore e montatore, e Gigi la legge (2022), che ha ricevuto il Gran Premio della Giuria alla 75esima edizione del Festival di Locarno.