Periodicamente si torna a discutere di mismatch, cioè del mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro. Il dibattito è vivo in tutte le economie dinamiche, ma l’Italia ne sembra più vittima di altri paesi. Sul tema abbondano i dati, le ricerche, i dossier, i convegni e i pareri degli esperti. Le diagnosi però tendono alla miopia, a volte al ridicolo: «In Italia non manca il lavoro, mancano i lavoratori».
Ricordiamo tutti il piagnisteo dei ristoratori che non trovavano personale perché «con il reddito di cittadinanza la gente preferisce stare a casa sul divano» e non perché il lavoro è precario e malpagato. Anche nelle analisi più fini, spesso, la causa del mismatch è ridotta a un semplice problema di formazione e orientamento: la scuola che deve essere più sul pezzo, più aggiornata, legata al tessuto produttivo; i giovani che devono imparare a scegliere bene su cosa formarsi. La soluzione è quindi ovvia: riforme scolastiche.
Se volete gustarvi un esempio di come viene affrontato mediamente il tema del mismatch potete godervi questo breve intervento (meno di due minuti) di Claudio Gentili per il JOB&Orienta tenutosi a Verona nel novembre 2023
Questo genere di discorsi però guardano sempre e solo a un lato della medaglia. Il problema del mismatch infatti ha due facce: una è quella che vede il livello di istruzione e le scelte formative della popolazione come inappropriati rispetto alle esigenze del mercato; l’altra è una richiesta inadeguata delle imprese rispetto alle aspettative della popolazione. Allora quando si discute di mismatch sarebbe il caso di ricordare anche le caratteristiche del sistema produttivo dell’Italia: poco specializzato su settori ad alta intensità tecnologica e ad alto valore aggiunto. Con molti settori importanti per la nostra economia (e per numero di addette e addetti) in cui i margini di profitto paiono risicati e gli stipendi troppo bassi. Inoltre, il tessuto produttivo italiano è imperniato sulla piccola e media impresa, ossia su strutture aziendali che offrono poche possibilità di crescita professionale.
Un passo indietro
Il termine mismatch nel mercato del lavoro si riferisce al mancato incontro tra domanda delle imprese e offerta dei lavoratori; è però un concetto che racchiude più fenomeni. Si parla infatti di mismatch orizzontale per la difficoltà delle imprese di assumere laureati in discipline specifiche. Si usa invece mismatch verticale quando il livello di istruzione richiesto dal mercato non è adeguato alla posizione occupata nel mondo del lavoro. In questo caso il livello di istruzione può essere superiore (over qualification) o inferiore (under qualification) rispetto a quanto richiesto. In Italia pesa di più l’over qualification che non l’under qualification: la media dei lavoratori sovra qualificata è infatti del 20,2% contro una media Ocse del 16,5%. E ciò accade sebbene in Italia, nella fascia d’età 25-64 anni, ad avere un titolo di studio terziario sia solo il 20,0% della popolazione; tanto che l’Italia è penultima nell’Ue a 27 per numero di persone laureate, sopra alla sola Romania. E l’over qualification continua a pesare nonostante molte persone laureate scelgano la via dell’emigrazione: la questione della fuga dei cervelli nel nostro paese è infatti rilevante; d’altronde i dati Almalaurea mostrano che i laureati italiani occupati all’estero, a un solo anno dalla laurea, guadagnano già il 40% in più rispetto ai laureati impiegati in Italia.
Sicuramente parte del mismatch orizzontale (difficoltà delle imprese a trovare laureati con specializzazioni specifiche) si deve a un’offerta di laureati non in linea con la richiesta di lauree tecniche, ma è anche vero che negli ultimi vent’anni il mercato ha profondamente riorientato le iscrizioni all’università. I dati del Ministero dell’Istruzione e del Merito mostrano chiaramente come, per esempio, sia sceso in modo rilevante il numero di studenti di giurisprudenza o di architettura, mentre sono aumentati gli studenti che scelgono ingegneria industriale o dell’informazione, ma anche economia. D’altronde “architetto” negli anni ’90 era sinonimo di ricchezza, oggi di precariato ammorbato dalla partita iva.
In ogni caso queste scelte sono un segno, appunto, del ruolo del mercato nell’orientamento verso l’università. Va però ricordato che i tempi con cui si misurano i risultati di questo orientamento (laureati pronti per il mondo del lavoro) si stimano in anni, se non decenni.
Qui si deve inoltre inserire una riflessione: i principali settori industriali in Italia sono caratterizzati da una media intensità tecnologica. Nel nostro paese infatti sono scarsissimi gli investimenti in ricerca e sviluppo, l’Italia vi investe solo 1,48% del Pil rispetto a una media Ocse del 2,71%. Il grafico mostra chiaramente come negli ultimi decenni l’Italia non sia riuscita a creare posti di lavoro ad alta specializzazione: siamo passati dal 18,1% del 2008 al 18,4% del 2022.
La questione non è rilevante “solo” perché ha ricadute sull’eventuale soddisfazione per il proprio lavoro, ma anche per il dramma italiano della scarsa produttività. L’Italia è ancora la seconda manifattura d’Europa per numero di addetti, ma non spicca per i livelli di produttività; anzi, si fa notare per il gelo nella crescita di quest’ultima: dal 2012 al 2022 il Pil per ora lavorata è cresciuto dello 0,3%; la media europea è dello 0,9%: cioè il triplo. Tale dinamica è una delle cause (una, non la sola) dei bassi livelli salariali italiani. Bassi livelli salariali che a loro volta si ripercuotono sui livelli di istruzione: che senso ha spendere soldi, fatica e stress quando un alto livello di istruzione non ha conseguenze rilevanti sul proprio futuro lavorativo?
Che cosa cercano le imprese
Potremmo sinteticamente dire che si cercano tecnici e camerieri.
Metà della forza lavoro italiana è impiegata nei settori del commercio, dei trasporti, dei servizi di alloggio, nella ristorazione, nelle costruzioni e nell’industria. Campi in cui risulta meno rilevante possedere una laurea. Oltre un terzo delle aziende in Italia è alla ricerca di operai specializzati, ossia tecnici specializzati nell’edilizia, metalmeccanici specializzati, installatori e manutentori di attrezzature elettriche ed elettroniche. Non a caso ogni volta che si discute di mismatch il dibattito pubblico finisce sulla scuola: «È necessario riformare la scuola», lo sentiamo in continuazione. Non stupisce allora che sia alle porte l’ennesima riforma degli istituti tecnici e professionali, con il correlato tentativo di incentivare gli ITS. Quello che si chiede è forza lavoro pronta, già capace in quel preciso impiego: la scuola deve essere in linea con le richieste del mercato.
Oltre al settore delle attività di informazione e comunicazione, a soffrire del mismatch è in particolare tutto l’universo dei servizi di alloggio e ristorazione. Il nostro pare un paese di ristoratori e affittacamere: è corretto allora pretendere che siano i giovani a dover scegliere il proprio percorso formativo assecondando le esigenze del mercato?
Un paio di dubbi
Non è il mercato al servizio dell’essere umano? La vera risposta è ovviamente no! Eppure, dovrebbe essere legittimo desiderare un lavoro soddisfacente, in linea con le proprie aspettative, con ritmi sostenibili, paghe decenti e svolto in un ambiente positivo. Si può allora porre il problema del mismatch alle aziende: perché non siete in grado di soddisfare le richieste dei lavoratori? L’intervento politico dovrebbe provare a riformare il sistema produttivo italiano e smettere di intendere la scuola come un centro di avviamento professionale, tutto sommato esiste già l’apprendistato. Invece ogni volta che si discute di mismatch ci si limita ad affrontare la questione ritenendo unicamente legittime le esigenze poste dalle imprese e le soluzioni restano miopi: riforme scolastiche e orientamento. Il che sembra un invito ad “adattarsi” e anche a non studiare troppo, che dopotutto non serve.
Infine, è da ricordare che il cambiamento tecnologico è rapido e le conoscenze tecniche hanno un alto livello di obsolescenza. Se oggi il mercato chiede che l’informatico sappia fare X e Y la scuola dovrebbe correre per riformare gli indirizzi di studi, magari formare i formatori e sfornare studenti pronti. Quanto ci vuole? Servono ragionevolmente alcuni anni. Non è che tra un giro d’anni il mercato chiederà all’informatico di saper fare A e B? Piace in Europa e in Italia discutere di long life learning, ma come si fa formazione continua? Forse chi lavora dovrebbe potersi formare mentre lavora, e pagato. Non è compito dell’azienda (pure con il supporto dello Stato) stare sul mercato e fornirsi di competenze adeguate anche formando la propria forza lavoro? L’interesse della collettività che finanzia la scuola attraverso le imposte non è quello di fornire tecnici specializzati, semmai è quello di formare cittadine e cittadini, che sanno stare al mondo, che cercano di convivere, che provano ad essere felici e che sanno anche formarsi e difendere i propri diritti, compresi quelli lavorativi.