Da settimane in tutta Europa si parla delle proteste degli agricoltori, e a causa loro l’UE ha fatto diversi passi indietro sulle sue politiche ambientali. Ma il problema dell’agricoltura sta veramente nelle leggi a tutela dell’ambiente? L’abbiamo chiesto a Franco Zecchinato, presidente della storica cooperativa agricola bio padovana El Tamiso.
di Emanuele Caon e Leonardo Mezzalira
Delle proteste degli agricoltori in Europa si parla da alcune settimane. L’apice è stato raggiunto intorno al primo febbraio, quando più di mille trattori hanno invaso Bruxelles accendendo roghi e devastando una statua davanti al Parlamento europeo. Intorno ai manifestanti si è creato un clima di generale benevolenza: la polizia li ha lasciati fare (non osiamo immaginare cosa sarebbe successo se a fare le stesse cose fosse stata Ultima Generazione) e la politica ha acconsentito ad alcune delle loro richieste – il ritiro di una proposta di regolamento europeo volto a ridurre l’uso dei pesticidi in agricoltura, una deroga agli obblighi di messa a riposo dei terreni previsti nella nuova PAC (la Politica agricola comune dell’Unione europea) e un limite alle importazioni di grano dall’Ucraina.
Con un po’ di ritardo hanno iniziato a svolgersi manifestazioni simili anche in Italia. Per il nostro Paese le richieste che hanno fatto più notizia sono quelle relative al mantenimento degli incentivi per il gasolio agricolo, di cui è stata ipotizzata una revisione, e dell’IRPEF agevolata per i redditi agricoli. Proprio grazie a un accordo su quest’ultimo punto sembra che i manifestanti ora siano pronti a smobilitare, concludendo un’ondata di proteste che lascerà un segno contraddittorio. Per capirci di più ne abbiamo parlato con Franco Zecchinato, presidente della storica cooperativa agricola El tamiso di Padova.
Qual è il profilo di chi ha partecipato alle proteste?
Ma li avete visti i trattori? Chi ha qualche ettaro di terreno da coltivare non può avere macchine che costano più di centomila euro. Più che i piccoli coltivatori diretti, mi sembra che in piazza e per strada siano scesi soprattutto i contoterzisti, cioè gli imprenditori senza terra ma con le macchine che offrono servizi agli agricoltori. Sono poi rappresentati gli interessi della grande proprietà. D’altronde chi utilizza più gasolio sono i contoterzisti, mentre chi riceve più contributi dalla PAC sono proprio le grandi proprietà.
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È vero che l’agricoltura è in gravi difficoltà economiche?
Sì, ma bisogna capire quali sono i reali motivi. Al centro delle critiche sono finite le politiche green dell’Europa, che però c’entrano veramente poco con le difficoltà dell’agricoltura; anzi, sono politiche decisamente troppo timide.
Pensando a un’azienda medio piccola, quali sono secondo te i reali problemi dell’agricoltura?
Il problema fondamentale è che, da moltissimo tempo, manca il riconoscimento del giusto prezzo per il prodotto agricolo, anche a causa di come funzionano i contributi europei. Per affrontare questo problema bisognerebbe iniziare a rivendicare dei rapporti strutturali diversi, ossia ragionare sul funzionamento della filiera agroalimentare che è in gran parte in mano alla Grande distribuzione organizzata. Un secondo problema è l’eccesso di burocrazia, che obbliga il piccolo produttore ad una quantità di lavoro extra del tutto insostenibile.
Partiamo dal primo problema: il prezzo. Hai detto che c’entra la Politica agricola comune europea. Ci spieghi meglio come funzionano i sussidi europei all’agricoltura?
Provo a raccontarvelo con un aneddoto. Mio zio aveva quattro mucche, io avrò avuto tredici o quattordici anni, era quindi la fine degli anni Sessanta. Questo mio zio lavorava seguendo i ritmi tipici del mondo contadino, era legato alla terra, agli animali. Un giorno vado a trovarlo e lo trovo molto triste, il figlio gli aveva venduto le vacche per poter usufruire del contributo europeo sull’abbattimento degli animali in Italia. Al di là della tristezza per gli animali, la cosa che mi aveva colpito era che alla fine il macellaio gli aveva pagato le bestie la metà con la scusa che tanto i soldi lui li recuperava dal contributo europeo.
Quindi il vantaggio dei contributi non va ai piccoli contadini.
No. Il contributo, da sempre, ha l’effetto di tenere basso il prezzo al produttore e di aumentare il margine della grande distribuzione organizzata. Il risultato è che la parte alta della filiera spreme gli agricoltori perché sa che questi sopravvivono con i contributi europei, ma è la GDO che di fatto si intasca quei soldi potendo rivendere la merce con un margine enorme. Tra gli agricoltori, poi, chi se ne avvantaggia di più è il grande proprietario, dal momento che i contributi vengono erogati un tanto all’ettaro. Capirete che al piccolo proprietario riempirsi di burocrazia per portare a casa 800 € l’anno cambia poco, mentre a un’azienda con mille ettari 400.000 € possono fare comodo per coprire certe inefficienze.
Hai detto che un altro problema dell’agricoltura è quello della burocrazia.
Sì, ed è connesso a come funzionano le associazioni di categoria come Coldiretti, che offrono servizi come i CAF o i centri di assistenza tecnica professionale. Queste organizzazioni sono direttamente interessate a mantenere alti gli standard di burocratizzazione perché far carte è il loro lavoro. Per questo e per altri motivi sono organizzazioni che non rappresentano proprio nessuno se non se stesse e i propri interessi, che oltre che nei servizi burocratici comprendono anche la commercializzazione di prodotti inquinanti e gli OGM. Intanto per il piccolo produttore la burocrazia è una catastrofe, tanto che si inizia a parlare di diritto all’analfabetismo burocratico.
Se i reali problemi sono questi, perché tra i temi della protesta è emerso così tanto quello degli standard ambientali?
Con prezzi così bassi qualsiasi costo diventa un problema, anche quello dovuto al rispetto di qualche standard ambientale in più. Però retrocedere su obiettivi ambientali non è assolutamente la soluzione: non va bene nemmeno per il mercato, che richiede sempre di più un prodotto sostenibile e biologico. In Italia un quinto dell’agricoltura è certificata Bio e il dato è in continua crescita. Quando ho cominciato ad occuparmene, il settore biologico oltre a garantire migliori standard ambientali prometteva anche di costruire un’alternativa alla filiera legata alla GDO; in questi ultimi anni, però, è fortissima la tendenza a trasformare il biologico in un prodotto da banco che rispetti quel tipo di rapporti economici. Da qualche anno la grande distribuzione ha preso in mano oltre la metà del mercato del biologico, spesso vendendolo con il proprio marchio e quindi facendo sparire il nome del produttore dal prodotto.
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Come può il contadino difendersi dagli accerchiamenti della grande distribuzione?
Non è facile. Una risposta in passato è stata quella della cooperazione. La piccola azienda di qualche ettaro può avere sostegno da una forma di associazione cooperativa, questa però ha a sua volta bisogno del sostegno dell’opinione pubblica perché poi non si può vivere senza crearsi un mercato di vendita dei propri prodotti. Qui si vive un altro dramma, ossia che il concetto culturale della cooperativa è stato devastato, se dico cooperativa alla gente vengono in mente le cooperative del lavoro e subito si pensa a una manica di delinquenti che sfruttano i lavoratori. Anche in campo agricolo abbiamo i nostri problemi. Solo per fare un esempio, in Trentino ci sono le cooperative, ma anche la Melinda ha le cooperative, e qui il ruolo del socio è puramente formale: si tratta di un grosso gruppo in cui di cooperativo c’è assai poco.
La protesta dei trattori dunque non ha centrato i punti che sarebbe stato necessario rivendicare.
Se l’unico risultato è il ritiro di una legge per ridurre i pesticidi, no. Eppure a qualcosa è servita, perché è riuscita a porre il tema dell’agricoltura al centro dell’attenzione pubblica. Il cibo è ormai diventato un’esigenza corporale o una merce luccicante sugli scaffali più che una pratica sociale, e fuori dal settore agricolo di come si produce il cibo si sa davvero poco. Ne sanno evidentemente poco anche i decisori politici, anche nei casi in cui non siano più attenti ai richiami delle multinazionali. Ne sa molto poco l’opinione pubblica in generale, infatti, sapendolo, ci si chiederebbe: “ma perché io con le mie tasse debbo finanziare i costi agricoli? Per poi pagare nuovamente quei costi da consumatore finale? Come fa un kg di grano tenero ad essere pagato alla produzione 20 cent, poi con 800 gr di farina si fa un chilo di pane, che noi si paga 5 euro?! Non dovrebbe essere il libero mercato che determina il successo o meno di una proposta produttiva?”