di Valentina Lazzara
Continua la nostra rassegna su migrazione e accoglienza. Oggi vi parliamo di hub di transito, non-luoghi creati per fare confluire sul territorio italiano chi arriva a Lampedusa, dove le persone richiedenti si trovano a stazionare per mesi, in attesa di poter essere accolte in accoglienza. Anche a Padova ne é nato uno e si trova presso l’ex aeroporto militare Allegri, dove, come riferisce il report dell’Associazione Open Gates, circa 80 persone stanno trascorrendo l’inverno all’interno di container, isolati dal resto della città. Vi riproponiamo ciò che Open Gates ha denunciato, cercando di fare un po’ il punto sulla situazione in Italia e in Veneto.
Il 2023 è stato un anno che si è giocato interamente sulla pelle delle persone migranti. Con l’arrivo al governo, nel 2022, di una coalizione profondamente di destra, le politiche migratorie degli ultimi 20 anni, già fortemente precarie e di matrice securitaria, sono diventate muri invalicabili per chi arriva in Europa con il progetto di costruirsi una vita. Assenza di posti in accoglienza, attese interminabili per la formalizzazione e per l’accoglimento della domanda di protezione; a cui seguono difficoltà nel trovare una casa e un lavoro, una volta usciti dall’accoglienza. Con la Legge 50/2023 (Decreto Cutro), i tagli al sistema di accoglienza hanno riguardato l’abolizione della scuola di italiano, dell’operatore legale e dello psicologo, trasformandolo in un mero “sistema” di vitto e alloggio, e abbandonando le persone migranti a un futuro incerto. Questo succede in quanto la migrazione continua a essere osservata e narrata come un fenomeno emergenziale, possibile da contenere a parole, ma nei fatti non arginabile. E lo dimostrano i dati: nonostante le sanzioni alle ONG, la mancanza di soccorsi in mare, la violenza della polizia di frontiera, le persone continuano a partire, perché il loro desiderio di una vita diversa prevale sull’arroganza europea di decidere per loro.
Le condizioni però in cui queste persone si trovano una volta arrivate in Italia sono drammatiche. A fronte di una carenza di posti in accoglienza, la soluzione trovata, con il Decreto 133/2023, è stata quella di aprire dei campi provvisori di transito, in cui sistemare le persone in attesa che si sblocchino sistemazioni in CAS, la cosiddetta prima accoglienza (in SAI, ovvero la seconda accoglienza, è possibile entrare solo avendo già ottenuto la protezione). Noi di Seize the Time ne avevamo parlato qui.
Anche a Padova ne è stato aperto uno: si tratta dell’ex aeroporto militare Allegri, in via Sorio, dove da settembre 2023, a seguito dell’emergenza palestre (di cui abbiamo già parlato qui), sono state trasferite numerose persone. Attualmente il campo ne conta un’ottantina, tra maggiorenni e non. Si tratta di un progetto che può essere ristretto o ampliato a seconda degli arrivi e che garantisce un parcheggio provvisorio per le persone che arrivano da Lampedusa. Si parla di parcheggio, perchè di fatto, queste persone non sono inserite in un progetto di accoglienza e integrazione, ma sono in attesa di potervi accedere.
L’Allegri è un luogo abbandonato e fatiscente, lontano dal centro cittadino, in cui i richiedenti sono stati collocati, prima all’interno degli edifici militari, e poi, con l’arrivo dell’inverno, in 25 container da 4 posti ciascuno, stipati in fondo all’aeroporto. Entrando nella struttura, infatti, è necessario percorrere un tragitto di 15 minuti prima di riuscire a intravedere il piccolo accampamento, gestito da tre cooperative locali, su incarico della Prefettura. La collocazione lontana dalla vita cittadina, evidenzia come lo scopo di questi hub sia quello di creare spazi che non turbino l’opinione pubblica, che rendano la migrazione un “problema invisibile”, aprendo alla possibilità di gestire grandi numeri senza necessariamente tener conto del rispetto minimo dei diritti di queste persone.
La denuncia delle condizioni dell’hub dell’aeroporto Allegri è partita lo scorso dicembre dalle volontarie e dai volontari di Open Gates, associazione che si occupa di fornire sostegno legale e di accompagnare i migranti nell’intricato iter burocratico della richiesta di asilo.
Il comunicato di Open Gates evidenza una situazione di segregazione socio-spaziale e di isolamento dal restante tessuto cittadino. Entrando in contatto con alcune persone ospitate all’interno dell’hub, è emersa la mancanza di numerosi servizi essenziali: oltre allo sportello legale, necessario per avere un sostegno nella domanda di protezione, a mancare erano anche una mediazione linguistico-sociale adeguata, l’erogazione del pocket money e una scuola di italiano, quest’ultima fondamentale per permettere alle persone di poter iniziare ad approcciarsi ai servizi della città di Padova e per potervisi orientare. Alle condizioni di estrema precarietà abitativa, si aggiunge, inoltre, l’attesa infinita per ottenere un primo appuntamento in Questura per il fotosegnalamento e la formalizzazione della domanda di protezione. Si parla di mesi di attesa, durante i quali le persone richiedenti devono fare estrema attenzione negli spostamenti in città, in quanto il rischio che corrono è quello di essere fermate e, per la loro condizione non regolare, di essere spostate in un CPR.
La conseguenza di queste mancanze si traduce in giornate scandite dal solo mangiare e dormire, in assenza di attività formative e/o ludiche; queste ultime fornite esclusivamente da associazioni esterne, quali Quadrato Meticcio e la già citata Open Gates.
Un’altra problematica sollevata è stata quella della compresenza di minori e adulti nello stesso spazio; da Decreto (133), “in caso di momentanea indisponibilità di strutture ricettive temporanee il prefetto può disporre la provvisoria accoglienza del minore di età non inferiore a 16 anni in una sezione dedicata nei centri e strutture, non superiore a 90 giorni.” In realtà, però, all’interno dell’aeroporto, secondo le volontarie di Open Gates, questa separazione non è messa in atto, e sarebbe costituita da una linea immaginaria tra i container; ciò può comportare l’esposizione dei minori a situazioni di sfruttamento, a difficoltà nel percorso di integrazione e al rischio di subire danni.
In risposta a queste denunce, Luca Favarin, a capo della gestione dell’hub, parlava di condizioni perfettamente in regola, dicendosi indignato per il fuoco amico e rivendicando anche di aver reso più ospitale l’ambiente con l’aggiunta degli alberelli di Natale.
Che la situazione sia migliorata, come sostenuto dalle Cooperative interessate, a seguito delle denunce mosse, non è verificabile, in quanto l’accesso al campo si ottiene solo con permesso della Prefettura; ma il punto è proprio un altro: che queste persone abbiano ricevuto vestiti e scarpe adeguati, qualche improvvisata lezione di italiano e un supporto legale è il minimo sindacabile. A non dover essere normalizzato è proprio il fatto che sia accettabile che accanto a noi ci siano persone, che per la loro condizione di richiedenti, siano costrette a vivere dentro a dei container per tutto l’inverno. Continuare a trattare la migrazione come emergenza comporta la creazione di non-luoghi in cui il diritto viene sospeso e ad essere alimentate sono la segregazione, la marginalizzazione e l’illegalità. Gli hub di transito non rappresentano nulla di extra-ordinario, anzi, sono la manifestazione più concreta e coerente di queste politiche securitarie, che difficilmente nei prossimi anni prenderanno una direzione diversa. Gli stessi CAS, introdotti con la Legge 142/2015, avrebbero dovuto avere carattere straordinario, eppure ad oggi rappresentano la prima forma di accoglienza. Anziché investire in un’accoglienza diffusa e strutturale, che garantisca reali opportunità di costruzione di una rete sociale, si investe in strutture dispersive, da utilizzare all’occorrenza. Addirittura, la Legge 50 (ex Decreto Cutro), introduce l’opportunità di aumentare del 100% i posti all’interno delle strutture CAS, ossia “di poter derogare ai parametri di capienza minimi, nella misura non superiore al doppio dei posti previsti”, aprendo a possibili situazioni di sovraffollamento.
Lo scenario che si prospetta per chi arriva in Europa, insomma, è drammatico: a fronte di un viaggio durato mesi, o addirittura anni, passando per le carceri libiche o per i soprusi della polizia bulgara, bosniaca o croata, il limbo degli hub di transito e la violenza di un no formalizzato su un foglio A4 appaiono insopportabili; e torna in mente un passaggio del docufilm “Trieste è bella di notte” di Andrea Segre, in cui uno dei protagonisti, raccontando del respingimento subito sulla rotta balcanica, evidenzia l’ipocrisia della fortezza Europa: “il giorno del respingimento è stato terribile per me. L’unica cosa che chiedo all’Italia e all’Europa è di chiudere a questo punto il sistema di asilo.”
E noi? Siamo disposti a restare in silenzio?
Se non ci tocca, non sta succedendo?