Produzione e distribuzione agricola allo specchio della pandemia
Prendendo le mosse dallo sciopero dei braccianti dello scorso 21 Maggio, inauguriamo una serie di analisi e di interviste a proposito dell’effetto delle misure per il contenimento del Covid19 sulle filiere agroalimentari, allargando lo sguardo alle pratiche dell’agricoltura contadina, dei mercati di prossimità e delle reti di acquisto e di distribuzione autogestite.
Fin dai primi segnali della diffusione della pandemia in Italia il tema delle filiere agroalimentari ha iniziato ad occupare molto spazio nel dibattito pubblico. L’attenzione si è concentrata soprattutto sulla carenza di manodopera nell’ambito delle aziende agricole che producono per la grande distribuzione: una situazione denunciata già dagli inizi di Marzo dalle principali associazioni datoriali in agricoltura (Confagricoltura, Coldiretti e CIA). Dopo lunghe trattative, nel «Decreto rilancio» approvato lo scorso 13 Maggio sono state inserite alcune norme che facilitano la regolarizzazione temporanea di immigrati irregolari, con lo scopo dichiarato di far fronte al problema della manodopera in agricoltura: ne abbiamo già parlato in occasione dello sciopero dei braccianti dello scorso 21 Maggio.
Ma la fragilità del sistema di reclutamento della manodopera non è l’unica delle criticità di una struttura produttiva che in Italia, in trent’anni, ha visto il numero di aziende agricole dimezzarsi e la quota di mercato controllata dalla grande distribuzione arrivare quasi al 75%. I supermercati, in ciascuno dei quali migliaia di persone al giorno entrano e si riforniscono autonomamente dagli scaffali, si sono rivelati luoghi estremamente esposti al contagio. L’interconnessione tra la grande distribuzione alimentare e il resto delle attività produttive si è rivelata così complessa e irrazionale che, istituito il lockdown, è stato difficilissimo discriminare quali aziende potessero restare attive e quali dovessero chiudere.
Infine, e non è poco, è stato messo in luce che il sistema di produzione agroindustriale fa parte della catena di cause della pandemia stessa. Da anni è noto che il diffondersi delle malattie infettive di origine animale nella popolazione umana è un effetto della distruzione degli ecosistemi nei quali i patogeni erano confinati: e la distruzione degli ecosistemi è spesso una conseguenza dell’espansione dell’agricoltura intensiva. La diffusione di queste malattie, poi, è favorita dalla pratica dell’allevamento intensivo degli animali, che costituisce l’ossatura del sistema agroindustriale (in Europa oltre il 70% del terreno agricolo è destinato all’allevamento intensivo) e con la sua voracità di risorse contribuisce, circolarmente, alla distruzione degli equilibri ecologici.
Una conferma di questi dati sembra venire da una ricerca effettuata in Aprile dall’Università di Firenze, che mette in correlazione il grado di diffusione del contagio da Coronavirus con il modello di sviluppo rurale presente nei diversi territori. Nelle aree agricole urbane e di agricoltura intensiva si registravano, il 9 Aprile, 94 casi per 100km2, mentre nelle aree a media e bassa intensità energetica 32 casi ogni 100km2. Una differenza che rimane significativa anche ponderandola con la differente densità abitativa delle diverse aree. Sembra insomma che l’agricoltura industriale faccia parte di un modello complessivo di sviluppo del territorio che da un lato è direttamente responsabile della diffusione delle pandemie, dall’altro è particolarmente fragile ed inadeguato a farvi fronte.
Esiste una soluzione? È percezione comune che l’agricoltura su larga scala, intensiva e industrializzata, sia un male necessario per garantire le necessità alimentari di una popolazione numerosa e fortemente urbanizzata. Ma a livello mondiale, come ricorda Andrea Ghelfi di Genuino Clandestino durante questo convegno online, le grandi catene di produzione, pur impiegando il 70-80% del miliardo abbondante di ettari destinati all’agricoltura nel mondo, producono solamente per il 30% circa del fabbisogno alimentare. Il resto di ciò che viene mangiato è prodotto dall’agricoltura tradizionale e contadina, che ha sempre continuato a rappresentare un modello produttivo molto più efficiente.
L’alternativa alla produzione agricola su larga scala ha molti nomi: agricoltura contadina, agroecologia, filiera corta, autodeterminazione alimentare dei territori, mercati di prossimità. E, in Italia, è portata avanti da una grande quantità di attori e attrici, tra chi produce, chi organizza gruppi di acquisto e chi diffonde la conoscenza su queste pratiche. E sulle loro implicazioni positive dal punto di vista dell’ambiente, della salute, della distribuzione del potere, della disponibilità alimentare. Numerosissime sono le reti che se ne occupano a livello nazionale, da Genuino Clandestino a FuoriMercato, da Associazione rurale italiana (Via Campesina) ai numerosissimi GAS e DES che curano l’aspetto della distribuzione e la messa in contatto di chi produce e chi acquista.
La capacità di questo modello di prevenire e di affrontare situazioni come quella generatasi a seguito della diffusione del Covid19 è enorme, ma non sembra esser stata compresa da chi ha stilato i primi provvedimenti contro la pandemia. In Italia, per qualche settimana in molti territori le attività agricole per autoproduzione sono state considerate alla stregua di attività hobbistiche e ostacolate. E abbiamo assistito alla chiusura dei mercati contadini all’aperto in molti Comuni, come se la vendita diretta dal produttore al consumatore, in uno spazio aperto, fosse meno sicura del cibo-merce che passa attraverso decine di trasformazioni e passaggi di mano e viene acquistato in luoghi chiusi dopo lunghissime attese in coda.
Ciò nonostante sia le piccole aziende agricole che le reti di acquisto non solo – spesso – hanno retto alla pandemia, ma nel loro complesso si sono riorganizzate e hanno contribuito in modo essenziale alla continuità della distribuzione alimentare sia nel periodo della chiusura totale che nelle fasi successive. E spesso sono cresciute, raggiungendo nuove persone e adottando nuove modalità di distribuzione efficiente del cibo. È questa tendenza, insieme alle sue contraddizioni e alle sue eccezioni, che tenteremo di analizzare nelle interviste che seguiranno a questo articolo.