Gli Stati Uniti bruciano. Se le strade stanno accogliendo migliaia di persone, anche sui social la comunicazione è imponente, e si raccoglie attorno a #blacklivesmatter e #nojusticenopeace. Difficile muoversi attraverso un qualsiasi social e non ritrovarsi davanti a video e foto delle manifestazioni, ma anche a poster, graffiti, disegni e grafiche in solidarietà col movimento. Se diamo ragione a Gil Scott-Heron e poniamo che the revolution will not be televised, allora è lecito pensare che saranno altre le forme che racconteranno quello che accade, e che queste forme saranno autoprodotte. Attraverso i propri video, le proprie foto, certo, ma anche attraverso la produzione di materiale per la comunicazione, l’arte, l’estetica.
È un problema che qualsiasi gruppo, movimento o partito si pone. E se lo pone anche chi ne sta fuori, e dall’esterno riceve un volantino colata-di-testo in carattere 9pt fronte/retro, quasi automaticamente gettato nel cestino due passi più in là. Se lo posero anche le Black Panthers che, grazie al lavoro del grafico Emory Douglas, condensarono la loro azione politica in immagini e grafiche divenute iconiche. Ve ne proponiamo un assaggio.
Tratto nero e spessissimo, composizione geometrica, esaltazione dell’azione. C’è un deciso marchio di riconoscibilità nelle grafiche e nei poster che uscirono con la rivista «The Black Panther», dell’omonimo partito e movimento politico. La storia del giornale è inseparabile da quella del suo curatore grafico, Emory Douglas (4 maggio 1943), che fu anche il Ministro per la Cultura per il Black Panther Party dal 1967 fino allo scioglimento degli anni ‘80.
La storia di Douglas come artista politicamente attivo risale a poco prima della sua militanza nelle Black Panthers. Gli anni sessanta in America vedono il diffondersi delle lotte per i diritti civili, contro la discriminazione e la segregazione razziale; dal punto di vista formale ci riuscirono, ottenendo importantissime leggi che garantivano l’accesso al voto e proibivano la discriminazione sui luoghi di lavoro, negli spazi pubblici, nel diritto alla casa.
È in questi anni che, prima di militare nelle Black Panthers, Douglas conosce il Black Arts Movement (BAM). In seguito all’assassinio di Malcom X, il BAM si propose di “ricostruire” la cultura afroamericana dal fondo, istituendo numerosi canali di diffusione autonomi, case editrici, giornali, programmi di ricerca e finanziamento. Si trattò di un importante movimento in grado di esercitare una nuova soggettivazione culturale dell’arte afroamericana, fino a quel momento subordinata o semplicemente nascosta. È in questo ambiente che Douglas conosce alcuni membri delle Black Panthers, e comincia a comporre i primi volantini e le prime grafiche, occupandosi anche dell’impaginazione del giornale.
Nel momento in cui il partito sceglie di strutturarsi, dividendosi i compiti in “ministeri”, Douglas si prenderà in carico quello della Cultura, coordinando le iniziative, gli striscioni, la grafica delle comunicazioni, seguendo e diffondendo le attività politiche del gruppo per oltre un decennio. L’esperienza politica e artistica di Douglas è continuata anche dopo gli anni ‘80 e dura tutt’oggi.
L’estetica di Emory Douglas ha reso largamente riconoscibile la comunicazione politica delle Black Panthers, nella misura in cui ogni manifesto è riuscito ad essere non solo per la chiarezza geometrica e formale, ma per la capacità di raggiungere immediatamente il livello politico.
Parte di questa limpida sovrapposizione tra politico ed estetico viene da elaborazioni precedenti. In particolare, dallo stile della OSPAAAL (Organization of Solidarity for People of Asia, Africa and Latin America), un movimento politico cubano per il coordinamento delle lotte antimperialiste, a livello globale. Uno degli strumenti principali di cui il movimento si dotò, infatti, era proprio quello artistico, attraverso una fitta produzione di poster e manifesti diffusi in diverse lingue. Le grafiche dell’OSPAAAL sono ancora consultabili a questo sito. Minimalismo geometrico, equilibrio su tutta la pagina, simbolismo piano e bidimensionale. Vediamo come le grafiche di Douglas si allontanino da queste.
L’autodifesa popolare – Nei lavori di Douglas di fine anni ’60, donne e uomini neri vengono rappresentati come figure militanti e fiere, armate di fucili, carabine, coltelli: le armi erano utili a difendersi dai bianchi, dalla polizia e dai razzisti (che nelle stampe di Douglas sono rappresentati da grassi maiali in divisa). Il riferimento costante alle armi può sembrare strano oggi, essendo abituati a pensare che chi difende il diritto costituzionale americano di possedere armi sono solitamente white conservatives. In realtà le Black Panthers credevano fermamente nel diritto a difendersi in maniera armata e organizzata e pertanto impugnavano il secondo emendamento americano come proprio diritto ad imbracciare le armi.
Il mutualismo e l’attività sociale – Nei primi anni ’70, l’interesse del movimento delle Pantere Nere passa dall’autodifesa armata verso l’organizzazione di una politica comunitaria, più di stampo sociale, che si riflette nelle attività di mutualismo e solidarietà. Vennero avviati diversi progetti, come la raccolta di alimenti per le famiglie più povere, l’organizzazione di organi di solidarietà come il “People’s Free Food Program” o il “Free Breakfast for Children Program”, ma anche ambulatori popolari e molti altri servizi utili alla comunità, come linee di bus gratuite dalla città al carcere e ambulanze gratuite, ribattezzati in seguito come “survival programs”. Douglas in questi anni cambia i soggetti e l’atmosfera delle sue stampe, che mantengono un forte carattere celebrativo della comunità nera, ma che raffigurano e promuovono principalmente i programmi mutualistici del Black Panther Party, che arriveranno ad essere quasi una sessantina.
L’anticapitalismo – È sempre negli anni ‘70 che Douglas rappresenterà anche temi politicamente più ampi, come quelli dell’anticapitalismo e della disuguaglianza economica, sottolineando l’influenza delle grandi corporations sugli interessi del governo.
La semplicità che è difficile a farsi – I lavori di Emory Douglas riescono a mantenere due piani. Da un lato, rappresentano i neri americani in maniera realistica, fiera e protagonistica, con uno stile che rivendica la fisicità nera e ne fa un elemento di primo piano. In questo senso l’arte di Douglas è partecipe dell’identità afroamericana, e contribuisce a produrla. Proprio perché elemento centrale, viene rifiutato sia il voyeurismo fastidioso che spesso contagia la rappresentazione dei poveri, sia quella stilizzazione dei corpi possenti e gonfiati dei manifesti sovietici.
Dall’altro lato, Douglas rappresenta la comunità nera nel momento dell’azione politica. Le sue opere non rimangono semplice denuncia dello stato di cose, ma mostrano uomini e donne in lotta contro di esso, e allo stesso tempo sono lavori che “agitano” gli animi, si impegnano per la liberazione della propria gente attraverso idee e slogan popolari. Non troviamo più i volti statici delle grafiche OSPAAAL, posti al centro delle locandine come icone. Troviamo invece gesti, moti, azioni in tensione sulla pagina; se compare una geometria non è mai per pura decorazione, ma per descrivere un campo di forza.
Non c’è una ragione solamente politica o solamente estetica se «The Black Panther» è stato, a cavallo tra gli anni ‘60 e ‘70, il giornale “nero” più letto negli Stati Uniti d’America. Le due ragioni non potevano essere separabili, e il giornale ne era testimone. È perché l’arte di Douglas non può darsi senza una tensione politica che il suo risultato è vivido, ci invita all’azione e non si risolve: perché gli slogan dei poster non sono sufficienti e i suoi lavori sono un esempio di una semplicità che è difficile a farsi, mostrandoci donne e uomini nel loro personale momento di struggle che sta sotto l’idea di rivoluzione.