di Giada Arcidiacono e Iacopo Chiaravalli
Iniziamo la pubblicazione di una serie di articoli su quel che è successo nel mondo del lavoro in Veneto nei mesi del lockdown e sulle sue conseguenze. Tutti partono dai dati raccolti in un’inchiesta, portata avanti da militanti di Potere al Popolo in regione, di cui si può trovare una prima versione qui sotto.
Durante questi mesi di emergenza sanitaria, il mondo del lavoro si è trasformato scoprendo quella che viene venduta come la panacea di tutti i mali: lo smart-working. Questa rivoluzionaria modalità di lavoro è la soluzione che l’essere umano cercava da secoli: concilierebbe perfettamente la vita privata e quella lavorativa e salverebbe, addirittura, la nostra amata Madre Terra.
Tutto ciò, però, ha un retrogusto stantio. La traduzione più corretta di smart working infatti è “lavoro domestico”, una forma di sfruttamento che il Veneto conosce fin troppo bene. L’impero mondiale della famiglia Benetton non è forse nato fornendo i tessuti a lavoratori e lavoratrici che tessevano a casa, assumendosi il costo dei macchinari e rovinandosi di debiti? Ma via, lo smart working non ha nulla a che spartire con una cosa così vecchia! In fondo non dobbiamo acquistare un telaio, perché tanto il computer ce l’abbiamo tutti e pagheremmo comunque Internet. Ammettiamo che tutti abbiano un computer di potenza sufficiente e non debbano acquistarlo allo scopo; comunque, come nel lavoro a domicilio, anche nello smart working non v’è nessun orario perché ci sono solo consegne a lavoro ultimato. Si tratta di una forma di cottimo, e dove c’è cottimo c’è assenza di diritti.
In fondo va bene così, perché siamo più fortunati di chi ha perso il lavoro e poi lo smart-working lo ha promosso pure Conte, che mai una volta ha nominato il telelavoro, parlando, nelle sue molte dirette, sempre e solo di smart working. Ma non sono la stessa cosa? Telelavoro significa lavorare da remoto, non è così anche per lo smart working? Sì, con una piccola differenza. A differenza del telelavoro, che come tipologia contrattuale esiste dagli anni ’90, lo smart working non prevede contratti collettivi e, in Italia, non è regolamentato da una legislazione chiara sui tempi e sull’infortunistica.
A rassicurarci sulla positività dello smart working, però, ci sono i dati raccolti da numerosi enti di ricerca. Una recente pubblicazione di ENEA (Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile) ha evidenziato come uno dei vantaggi del lavoro agile sia proprio quello di permettere ai lavoratori e alle lavoratrici di prestare maggior cura a figli e parenti. Promettere la piena conciliazione fra vita privata e attività lavorativa è un grande cavallo di battaglia della retorica pro smart working: ci donerebbe addirittura maggiore tempo libero. Invece, come sono gli stessi dati ENEA a confermarci, si tratta di una migliore – cioè più funzionale – integrazione di lavoro di cura e lavoro salariato. Gli individui vengono visti come strumenti di lavoro, produttivo o riproduttivo, e lo smart working deve consentire di svolgerli entrambi al meglio. L’immagine idilliaca del giovane sorridente seduto sul divano con il fuocherello acceso, il computer sulle ginocchia e la tazza di tè in mano, stride con quella, ben più reale, di una donna seduta su una sedia scomoda con un computer davanti che cerca di ignorare i continui “Maaammmaa!”.
La retorica dello smart-working come mezzo per conciliare vita privata e lavorativa rimane, di fatto, valida solo per poche persone privilegiate che hanno a disposizione spazi adeguati e personale che svolge il lavoro di cura. In questi mesi, infatti, molti lavoratori e, soprattutto, molte lavoratrici si sono trovati dapprima costretti a lavorare in smart working, per poi sceglierlo successivamente. Questa decisione è stata dettata dalla necessità di dover assistere parenti malati o anziani oppure di dover accudire i figli lontani da scuola. Ecco che quindi lo smart-working non solo non aiuta lavoratori e lavoratrici ad avere più tempo libero, ma anzi entra prepotentemente nella vita quotidiana, erodendo gli spazi del privato e andando a colpire quei soggetti, le donne, sulle cui spalle una secolare divisione dei compiti su base patriarcale ha scaricato il lavoro di cura. Questo, inoltre, solo presupponendo che la casa sia un luogo sicuro per chi la abita. Tuttavia, per molte donne essa è tutto fuorché un luogo dove rilassarsi ed essere serene. L’imposizione dello smart working toglierebbe loro la possibilità quotidiana di sfuggire a un ambiente che spesso è fonte di violenza psicologica e fisica.
Sempre lo studio ENEA ci offre un ulteriore esempio di come lo smart working dovrebbe migliorare le nostre vite. Il lavoro domestico porterebbe a una drastica diminuzione di molti agenti inquinanti: dalla più nota CO2, al metano, agli idrocarburi. Innanzitutto, lo smart-working non prevede necessariamente di rimanere a casa. Non è detto, infatti, che il proprio domicilio rappresenti un luogo adatto dove lavorare. C’è poi da considerare che durante gli spostamenti lavorativi molte persone effettuano soste per impegni personali (spesa, commissioni etc.) che effettuerebbero comunque. Ancora, questo tipo di visione, oltre a presupporre come totalizzante il mondo lavorativo, tende a scaricare sul singolo individuo la responsabilità del cambiamento climatico. Se la temperatura sale e i ghiacciai si sciolgono, non è colpa dell’inquinamento dettato dall’insensata logica del profitto che dietro di sé lascia solo deserto, ma nostra, che prendiamo la macchina per andare al lavoro. Insomma, fra pink e green di washing nella retorica sullo smart working ce n’è a iosa.
Non stupisce allora che, quando lo smart working deve essere presentato a chi fa profitto, le parole utilizzate siano del tutto diverse. Nel documento “Veneto agile: lo smart working in regione Veneto” redatto dall’Osservatorio sullo smart working del Politecnico di Milano e commissionato dalla regione Veneto, si parla soprattutto di “produttività” ed “efficienza” dei e delle dipendenti, così come di risparmio. Infatti, al netto di tutte le promesse idilliache, chi ci guadagna è il datore di lavoro perché meno dipendenti in loco significano: meno spese di struttura (bollette meno costose, affitti più bassi, risparmi su spese di pulizia e su buoni pasto), meno investimenti, lavoro a progetto, nessuno straordinario pagato e dilatazione dei tempi di lavoro. Tutto ciò non ha, ovviamente, nulla a che vedere con l’emancipazione e nemmeno con l’eguaglianza di genere, così come continua ad alimentare il sistema che inquina i nostri fiumi, la nostra aria e il nostro mare. Forse, più che costringere il lavoratore o la lavoratrice a stare a casa senza tutele, per accudire i parenti e per evitare che la Terra vada distrutta, si potrebbe operare in vista di un mondo diverso, dove il lavoro di cura sia socializzato e in cui la produzione non sia finalizzata all’accumulazione di profitto, ma a ciò che è necessario per vivere bene, in equilibrio con l’ambiente che ci circonda. Ma queste sono solo idee poco smart.
Why people still make use of to read news papers when in this technological globe
all is presented on net?