Una quarantina di donne e uomini radunati sulla riva del sestiere veneziano di Dorsoduro che si affaccia su Canal Grande, a poca distanza dal ponte dell’Accademia: se questa scena si fosse svolta un anno fa, probabilmente non li avremmo neanche notati, confusi tra la folla di turisti in movimento – al massimo li avremmo presi per una comitiva di russi o giapponesi, intenti ad ascoltare le spiegazioni recapitate loro via auricolare dalla guida che li accompagnava.
Invece mercoledì 16 dicembre quelle donne e quegli uomini riuniti a Campo della Carità li distinguevamo da lontano, e soprattutto non erano turisti – semmai guide! A mezzogiorno si è infatti tenuto a Venezia, e in contemporanea in altre 11 città d’Italia, il presidio chiamato da Mi riconosci? Sono un professionista dei beni culturali per dare corpo a una petizione fatta circolare nelle ultime settimane, e sottoscritta da decine di realtà nazionali e locali (per il Veneto sono presenti il Circolo Nadir e lo Spazio Catai di Padova, Yvonneartecontemporanea di Vicenza), in cui si afferma che “Non è tempo libero, è il tessuto vivo delle nostre città”.
Mi riconosci? è un coordinamento nato nel 2015 che riunisce lavoratori e lavoratrici del mondo dei beni culturali, insieme a studenti e studentesse che in quel mondo stanno per entrare. L’occasione è una campagna sull’accesso alle professioni dei beni culturali e sulla valorizzazione dei titoli di studio del settore, ma si allarga rapidamente a una critica delle condizioni di lavoro in questo ambito e dell’ideologia che le rende possibili (i frutti più maturi di queste intenzioni sono due inchieste particolarmente istruttive pubblicate nel 2019, una sulle Discriminazioni di genere nel settore culturale e una su Cultura, contratti e condizioni di lavoro, entrambe reperibili sul loro sito). Questa volta, però, con la petizione che hanno lanciato a fine ottobre si sono fatti portavoce di un discorso più generale, che è rivolto al governo e potrebbe suonare così: a ottobre, come già a marzo, chiudete tutte le biblioteche e i musei, i luoghi in cui vive l’associazionismo, lo sport di base, gli spettacoli dal vivo, senza curarvi né di chi in questi ambiti lavora, né della funzione che essi svolgono nella società – per capire meglio il discorso, come sfondo di queste parole potremmo aggiungere un’immagine a scelta presa dalla galleria degli ultimi mesi: Alzano e Nembro che non vengono chiuse perché così vogliono i padroni delle aziende e i dirigenti di Confindustria, il balletto sui codici ATECO che in primavera permette la riapertura di migliaia di posti di lavoro sulla cui indispensabilità si poteva quantomeno dubitare, la riapertura estiva delle discoteche, la chiamata allo shopping natalizio, e via dicendo. La petizione quindi punta l’indice su quello che le scelte del governo hanno fatto emergere in questi mesi, ossia sull’idea di un Paese nel quale vanno garantite le attività produttive (leggasi: fabbriche e uffici) e la possibilità di consumare, mentre tutto il resto è considerato sacrificabile. Comprese – e qui sta una contraddizione tutta italiana – quelle attività economiche che non fanno capo alla Confindustria, dunque sacrificabili.
Il cortocircuito denunciato da Mi riconosci? è simile a quello che stiamo vivendo a livello sanitario. Vista la scarsità di risorse, gli ospedali convertono i reparti “normali” in reparti Covid: ma questo vuol dire interrompere o rallentare la normale attività di prevenzione e cura svolta da quei reparti, e i danni si vedranno tutti più avanti. Allo stesso modo, la chiusura ripetuta e prolungata di tutti quei presidi culturali e comunitari non direttamente connessi alle esigenze produttive e alla produzione di profitto causerà danni considerevoli nei tempi a venire, unitamente alle difficoltà che già ora vivono tutte le figure professionali coinvolte che sono rimaste escluse dagli aiuti del governo e che, peraltro, anche prima della pandemia vivevano una normalità di precarietà e bassi salari (oltre il 50% dei soggetti coinvolti nelle inchieste citate sopra percepiva meno di 12€ l’ora, l’11% meno di 4€, per il 40% le ore lavorate non corrispondevano a quelle effettivamente pagate, solo 34% aveva un contratto a tempo indeterminato).
“Il sistema culturale ed economico che aveva caratterizzato i primi quattro anni di vita del nostro movimento e gli ultimi trenta del nostro Paese mostra tutte le sue debolezze e contraddizioni” scrive Mi riconosci? sul suo sito, a proposito degli effetti del Covid sul settore in questione. Per questo, forse, il 16 dicembre tra tutte le piazze quella di Venezia acquisiva un rilievo particolare. Qui le contraddizioni sono più scoperte, le debolezze più nitide – la città vuota di cittadini e colma di negozi e hotel, insopportabilmente affollata in tempi normali e pressoché deserta in questi mesi, orgogliosa della propria cultura e della propria storia e sprezzante nei confronti di chi permette di mantenerle in vita, pur costretto o costretta a ritirarsi sulla terraferma quando cala la sera.
Da Venezia è tutto, la parola adesso al ministro Franceschini.