A partire dagli anni Settanta i pericoli di un modello economico basato sulla crescita indefinita del PIL hanno iniziato a diventare evidenti. Nello stesso periodo è nato un termine eretico e dal forte potenziale trasformativo: «decrescita», che secondo uno dei suoi teorici più famosi – Serge Latouche – andrebbe inteso prima di tutto come «a-crescita» o rifiuto di credere nella religione di una crescita economica in grado di risolvere tutti i problemi. Negli ultimi decenni il pensiero legato alla decrescita è maturato, ha dato vita a un intero campo di studi ed è uscito dal recinto dell’originale ispirazione ecologista, stringendo alleanze con le lotte sociali e dei lavoratori. Tra le figure che oggi si dedicano al tema emerge il nome di Jason Hickel, autore del libro Less is more tradotto in italiano come Siamo ancora in tempo! Come una nuova economia può salvare il pianeta (Il Saggiatore, 2021). Pubblichiamo di seguito la traduzione di un post del suo blog, che espone in modo chiaro, anche se molto riassuntivo, i termini di un possibile pensiero decrescente di oggi.
di Jason Hickel
traduzione di Lorenzo Zaggia e Leonardo Mezzalira
Una delle idee centrali che emergono dalla ricerca sulla decrescita e sulla mitigazione climatica è che per una transizione corretta ed efficace è indispensabile avere a disposizione un sistema di servizi pubblici universali.
Il capitalismo si basa sul mantenimento di una scarsità artificiale di beni e servizi essenziali come alloggi, sanità o trasporti attraverso processi di privatizzazione e mercificazione. La privatizzazione consente ai monopolisti di aumentare i prezzi massimizzando i profitti (basti pensare al mercato degli affitti, al sistema sanitario americano o al sistema ferroviario inglese), ma ha anche un altro effetto. Se i beni essenziali sono privatizzati e diventano costosi, chi vuole accedervi è costretto ad avere un salario più alto di prima e lavorare di più per produrre cose di cui non c’è bisogno (aumentando l’utilizzo di energie e risorse e la pressione ecologica) solo per ottenere ciò che chiaramente serve davvero e che molto spesso è già disponibile.
Un buon esempio di questa tendenza è la situazione degli affitti. Se l’affitto aumenta bisogna lavorare di più anche solo per restare sotto lo stesso tetto. A livello macroeconomico, questo significa che abbiamo bisogno di una maggiore produzione complessiva — insomma di più crescita — per soddisfare i nostri bisogni primari. Dal punto di vista del capitale, questa dinamica assicura un flusso continuo di lavoratori per il settore privato e una competizione al ribasso dei salari che facilita i processi di accumulazione. Ma per chiunque altro questo significa sfruttamento insensato, incertezza economica e danni ecologici. E con la scarsità artificiale si diventa dipendenti dalla crescita economica. In un contesto in cui la sopravvivenza è mediata da prezzi e stipendi, se i miglioramenti della produttività e le recessioni generano disoccupazione e non si può più accedere a beni essenziali — anche quando la loro produzione non è intaccata — l’unico modo per risolvere questa crisi sociale e creare nuovi posti di lavoro è continuare a crescere.
C’è un modo per uscire da questo circolo vizioso: se si demercificano i beni e i servizi essenziali si può eliminare la scarsità artificiale assicurando un’abbondanza pubblicamente accessibile, sconnettendo il benessere umano dalla crescita e riducendo le pressioni del mercato a crescere costantemente.
Dalla demercificazione derivano anche altri vantaggi di tipo sociale o ecologico. Ad esempio, questa pratica può avere un impatto molto positivo sul benessere. Diversi studi empirici (vedi qui, qui e qui) confermano che i servizi pubblici sono determinanti nel miglioramento delle aspettative di vita, del benessere e di altri indicatori sociali fondamentali . L’implementazione dei servizi universali metterebbe anche fine all’attuale crisi del costo della vita, influendo direttamente sulla sua riduzione.
I Paesi con servizi pubblici demercificati o comunque universali registrano performance sociali migliori a qualunque livello di PIL e di disponibilità di risorse (vedi qui, qui, qui, qui e qui). Inoltre, come verrà chiarito più tardi, i sistemi di approvvigionamento controllati direttamente dallo stato riducono più rapidamente le emissioni di CO2.
Inoltre, associata alla garanzia d’impiego pubblico, questa pratica si metterebbe fine allo stato di insicurezza economica e risolverebbe l’attuale contraddizione tra gli obiettivi sociali e quelli ecologici. In questo momento è impossibile implementare politiche di mitigazione climatica anche molto basilari, come la riduzione della produzione di combustibile fossile o le attività di altri settori distruttivi, perché i lavoratori dei settori colpiti non sarebbero più in grado di accedere a stipendi, affitti o sanità: una conseguenza inaccettabile per chiunque. I servizi universali e la garanzia di un lavoro emancipatorio possono proteggere da qualunque forma di insicurezza economica, permettendo allo stesso una transizione ecologica corretta. Gli obiettivi sociali e quelli ecologici non devono per forza contraddirsi a vicenda: si possono, si devono conseguire insieme.
I “servizi universali” non sono solo il sistema sanitario e l’educazione, ma anche gli alloggi, i trasporti, il cibo salutare, l’energia, l’acqua e i mezzi di comunicazione. Insomma, la demercificazione investirebbe tutti i servizi fondamentali del settore sociale che forniscono i mezzi per la sopravvivenza quotidiana. E dovrebbero essere servizi davvero universali: attraenti, di ottima qualità, gestiti democraticamente — non quei sistemi stile “ultima spiaggia” e deliberatamente merdosi che si incontrano negli Stati Uniti e negli altri paesi neoliberali. Ma come funzionerebbero questi servizi, e come possiamo arrivare a ottenerli?
Sanità e istruzione. Sono i settori di cui si sente parlare più spesso. La maggior parte dei Paesi europei ha sistemi sanitari pubblici, molti dei quali si collocano tra i migliori del mondo, e un’istruzione pubblica gratuita. Il principio chiave è che la sanità dovrebbe essere a costo zero per l’utente finale e, idealmente, a gestione interamente pubblica, senza l’intermediazione di esose assicurazioni private. Allo stesso modo l’istruzione pubblica dovrebbe essere interamente gratuita dalla scuola primaria all’università. I debiti esistenti accumulati per l’accesso a sanità ed educazione dovrebbero essere cancellati.
Alloggi. Gran parte delle spese di un nucleo familiare è dovuta all’abitazione. Si tratta di un bene essenziale, tanto necessario quanto la salute e l’istruzione. Ciononostante molti spendono il 30-50% del loro stipendio per l’affitto (per case spesso miseramente inferiori allo standard), e in molti posti, per chiunque non sia ricco, acquistare una casa è sempre più un miraggio. È importante distinguere tra il possesso della propria abitazione (che va bene) e il controllo privato di unità abitative in affitto: è a quest’ultimo livello che nasce il problema, specie nel caso di grandi imprese immobiliari che controllano decine (o anche migliaia!) di case. Si tratta della privatizzazione di una risorsa chiave, fondamentale per la sopravvivenza: in ambito sanitario una situazione simile incontrerebbe forti opposizioni, ma per qualche ragione siamo disposti a tollerarla con gli alloggi.
Un intervento efficace potrebbe essere semplicemente limitare il numero di case in affitto che un individuo o un’azienda può possedere, e obbligare i proprietari a vendere le proprietà in surplus. L’afflusso di case nel mercato farebbe scendere i prezzi, rendendo l’acquisto di una casa possibile per più persone, ma anche facendo sì che i Comuni possano più facilmente aumentare e migliorare la qualità dei loro alloggi pubblici, integrandoli nel tessuto cittadino. Tali alloggi potrebbero dunque essere messi a disposizione a canoni accessibili, e l’affitto delle unità abitative private rimanenti scenderebbe per competere con l’offerta pubblica. Come modello si potrebbe indicare il sistema di alloggi pubblici attraenti e di alta qualità di Vienna e Singapore, di cui beneficia il 60-80% della popolazione. La transizione potrebbe essere sfruttata anche per ottenere rapidi aumenti di efficienza in ambito edilizio: miglior isolamento, pompe di calore, elettrodomestici ad alte prestazioni – aiutando così a ridurre rapidamente le emissioni di CO2.
Trasporti. I mezzi pubblici dovrebbero essere gratuiti o costare molto poco. Come esempio si potrebbe citare Barcellona, dotata di un sistema di trasporti nuovo, pulito ed efficiente in cui una corsa in metropolitana o in tram costa solo un euro e l’uso di una bici elettrica ancora meno. Ma nel mondo più di cento città sono andate oltre, arrivando a offrire i propri mezzi pubblici gratuitamente. Nei luoghi in cui il sistema di trasporti pubblici non è sufficientemente sviluppato, le infrastrutture andrebbero portate a un livello tale che i residenti non abbiano più bisogno di utilizzare l’automobile regolarmente. Un trasporto pubblico di alta qualità è necessario per ridurre la domanda di automobili e le conseguenti emissioni di CO2.
Cibo. Il nostro sistema agroalimentare presenta numerosi problemi. Perfino nei Paesi più ricchi del mondo molte persone non hanno accesso a cibo sufficientemente nutriente e salutare. La grande distribuzione è saldamente in mano a poche grandi imprese che puntano soprattutto sugli alimenti lavorati, più redditizi, e alimentano filiere basate sul confezionamento in plastica e sul trasporto a lunga distanza. Si tratta di un modello intensivo, ad alti consumi energetici e basato sulla monocoltura, in cui grandi estensioni di terra sono adibite alla produzione industriale di carne, che genera deforestazione, emissioni, sovrasfruttamento del suolo e perdita di biodiversità.
Adottando adeguate politiche di giustizia agroalimentare sarebbe possibile assicurare a tutti l’accesso a un cibo salutare, vegetariano e ottenuto con i principi dell’agricoltura rigenerativa. I governi potrebbero finanziare lo sviluppo di aziende in linea con tali principi e allo stesso tempo favorire la realizzazione di orti urbani e suburbani, i cui prodotti potrebbero essere venduti al vicinato a prezzi accessibili all’interno di case di quartiere. Questi centri potrebbero permettere ai residenti di acquistare o mangiare cibo in grado di soddisfare tutti i bisogni nutritivi fondamentali e allo stesso tempo facilitare situazioni di convivialità e di vita comunitaria. Un simile sistema produrrebbe miglioramenti nella salute generale e aiuterebbe a ridurre drasticamente l’uso del suolo e l’impatto ecologico del sistema agroalimentare.
Energia e acqua. Si tratta di risorse essenziali alla sopravvivenza, che dovrebbero essere gestite come servizi pubblici e distribuite con un sistema a due livelli. Una quota base, sufficiente a soddisfare i bisogni fondamentali, dovrebbe essere resa disponibile gratuitamente a tutte le case sulla base del numero di residenti. Oltre tale quota l’uso di energia e acqua potrebbe essere soggetto a prezzi crescenti per evitare un uso eccessivo, con ulteriori benefici per l’ambiente. Una soluzione che, oltretutto, tende a raccogliere vasti consensi nella popolazione. Il sistema energetico pubblico andrebbe gestito con criteri scientifici in modo da ridurre l’utilizzo di combustibili fossili e dare priorità al passaggio alle risorse rinnovabili, mentre la gestione pubblica del sistema idrico impedirebbe il sovrasfruttamento da parte delle aziende private ed assicurare una distribuzione stabile ed equa della risorsa nei periodi di siccità.
Comunicazioni. L’accesso a Internet, anche tramite telefono, è attualmente necessario per la vita di tutti i giorni e dovrebbe essere gestito come un servizio pubblico. Un operatore telefonico pubblico dovrebbe garantire ai singoli individui o ai nuclei familiari un credito telefonico di base, con la possibilità di acquistare ulteriore traffico e altri servizi a prezzi di mercato. Tale operatore dovrebbe essere pienamente indipendente dal governo, per proteggere i dati degli utenti e prevenire qualsiasi forma di censura statale. Proprio come il servizio postale non legge le lettere che consegna, un servizio dati pubblico dovrebbe essere progettato per garantire la massima privacy.
A questa lista dovremmo aggiungere tre servizi chiave che dovrebbero essere demercificati e resi accessibili a tutti: la cura dei bambini, la cura degli anziani e i servizi ricreativi (parchi, palestre, centri sportivi, sale comunitarie, teatri ecc).
Come pagare per tutto questo? Secondo la visione tradizionale, per finanziare i servizi pubblici è necessaria una crescita del PIL. In altri termini, prima di tutto bisogna che il settore privato aumenti la produzione di cose non necessarie; i relativi guadagni verranno tassati e con il denaro ricavato verrà finanziata la produzione pubblica di beni e servizi necessari. Quest’idea è talmente radicata nella mentalità comune che viene data assolutamente per scontata, e torna buona ai conservatori per far credere che i servizi pubblici funzionino in qualche modo grazie ai ricchi (quelli che pagano “la maggior parte” delle tasse, cosa molto spesso non vera): di conseguenza dovremmo esser loro grati e fare di tutto perché possano diventare ancora più ricchi. È un’idea pericolosa anche sul piano ecologico. Per raggiungere gli obiettivi climatici abbiamo urgente bisogno, ad esempio, di trasporti pubblici ed energie rinnovabili: se per finanziarli riteniamo di aver bisogno di più crescita nel settore privato, rischiamo di avallare un aumento dei consumi di energia, rendendo più difficile la riduzione delle emissioni.
In realtà non c’è motivo per cui la produzione pubblica debba essere “finanziata” da una produzione privata preesistente (come se le imprese in qualche modo producessero il denaro, cosa che evidentemente non fanno). Qualsiasi governo dotato di sufficiente sovranità monetaria può intraprendere una propria produzione pubblica direttamente, servendosi di denaro pubblico. Come fece notare Keynes, qualsiasi cosa sia realmente possibile in termini di capacità produttiva può anche essere finanziata. E la capacità produttiva delle economie a reddito elevato è già ampiamente superiore ai nostri bisogni. Utilizzare denaro pubblico significa semplicemente trasferire l’uso di questa capacità dalle aziende al settore pubblico, che lo può usare per perseguire obiettivi sociali ed economici democraticamente decisi anziché per accumulare capitale.
La garanzia d’impiego. Con lo stesso approccio potrebbe essere finanziata una garanzia d’impiego pubblico, che metterebbe fine in modo permanente alla disoccupazione e permetterebbe a chiunque voglia di prender parte ai più importanti progetti collettivi della nostra generazione, come produrre più energia rinnovabile, rigenerare gli ecosistemi, migliorare i servizi pubblici o svolgere lavori di cura – lavori urgentemente necessari per la società, retribuiti in modo dignitoso e gestiti in modo democratico. La garanzia d’impiego aiuterebbe a riorientare la forza lavoro verso la produzione di valore sociale ed economico anziché di profitto privato. Un simile programma dovrebbe essere finanziato dal governo, emettitore di valuta, ma dovrebbe essere gestito in modo democratico ad un livello abbastanza locale da tener conto delle forme di produzione più necessarie per i bisogni della comunità. Naturalmente a chiunque non possa lavorare o per qualsiasi ragione scelga di non farlo dovrebbe essere messo a disposizione un reddito di base.
Questa proposta risulta estremamente popolare nei sondaggi. Un suo ulteriore punto di forza è che può essere usata per stabilire degli standard, in termini di stipendi, orari (per esempio accorciando la settimana lavorativa a 32 ore) e democrazia sul posto di lavoro, ai quali le imprese private dovrebbero per forza avvicinarsi per non perdere dipendenti. Se infatti esistesse la possibilità di fare un lavoro dignitoso e socialmente importante in un contesto democratico, chi accetterebbe di lavorare a condizioni peggiori per aziende il cui scopo primario è semplicemente accumulare capitale? Nessuno.
Il potere dei servizi pubblici universali è che consentono di migliorare l’accesso ai beni necessari per una vita dignitosa, con sistemi di approvvigionamento che complessivamente consumano meno energia e risorse e permettono di ridurre più rapidamente le emissioni. Risultati che possono essere raggiunti e migliorati adottando, per i sistemi pubblici, una gestione fortemente democratica. Questi interventi, insieme alla garanzia d’impiego pubblico, permetterebbero di abolire stabilmente l’insicurezza economica — un obiettivo che la crescita da sola non è mai riuscita a raggiungere — e di scollegare il benessere umano dal requisito di una produzione complessiva in perenne aumento. Cambierebbe infine il panorama politico, perché sarebbe possibile contrastare i cambiamenti climatici senza rischi per l’occupazione e i mezzi di sostentamento, progredendo anzi in termini di obiettivi sociali, riducendo la disuguaglianza e incentivando una transizione verso un’economia socialmente ed ecologicamente più giusta.
Questo tipo di politiche dovrebbe essere al centro delle rivendicazioni di un movimento globale unitario per il lavoro e per il clima. Servizi pubblici universali, una garanzia d’impiego, stipendi dignitosi, una settimana lavorativa più corta sono tutti obiettivi potenzialmente in grado di raccogliere un consenso di massa. Movimenti per il lavoro: dobbiamo smettere di fingere che la crescita capitalista un giorno porrà magicamente fine alla disoccupazione, genererà paghe adeguate e partorirà la democrazia sui luoghi di lavoro — non lo fa mai — e dobbiamo cominciare a lottare per questi obiettivi direttamente. Movimenti per il clima, spesso accusati di ignorare le condizioni materiali delle classi lavoratrici: queste politiche affrontano bisogni reali, legati alla sussistenza, e possono creare alleanze con i movimenti dei lavoratori. Questo è il movimento politico di cui abbiamo bisogno.