dalla Redazione
Abbiamo un passato, un prima di Seizethetime. Lo mettevamo in chiaro da subito, quel primo maggio, presentandoci ai lettori: «Siamo gente che fa cose nelle piazze, nelle strade, nei quartieri». Ancora lo siamo, e siamo principalmente questo, non perché è ciò a cui dedichiamo gran parte del tempo e della fatica (anche se spesso è così, per molti e molte di noi), ma perché è solo in quell’orizzonte che il resto delle cose acquista il suo senso. Fare controinformazione è indissolubilmente legato al fare politica, a una visione complessa del presente e a un progetto che tende alla stessa complessità che indaga e rende manifesta, ma in senso trasformativo. Se è vero, alla fine della fiera, che a canzoni non si fan rivoluzioni, di certo nemmeno ad articoli, ma narrazioni e contronarrazioni giocano un ruolo non marginale nel complesso.
Quando, in quel prima, pensavamo a Seizethetime (e succedeva pressapoco un anno fa), era già un coagulo di sensi e propositi diversi. Fare controinformazione per noi non poteva significare semplicemente ripetere il lavoro dell’informazione ufficiale e mainstream mimandolo dall’altro lato della barricata, costruire un golem in grado di scontrarsi frontalmente con la narrazione di sistema, e non perché questo non sia un obiettivo valido e sensato, ma perché ci pareva irrealizzabile. Se le forze sono così platealmente impari, l’offensiva diretta è una strategia fallimentare, l’esito che può dare è insignificante. La controinformazione perciò ha assunto i tratti metaforici della guerriglia: agguati, incursioni e rapine fatte all’ombra del grande nemico. Si tratta per noi di sfruttare gli interstizi, di inserirci nelle crepe della narrazione e forzarle per spingere alla rottura, muoverci negli spazi che si aprono e prendere tutto il possibile da quello che il meccanismo dell’informazione ci offre. In sintesi si trattava di prediligere allo stile cronachistico una modalità di struttura più ragionata e complessa che fosse in grado di offrire gli strumenti critici per destreggiarsi anche nella palude dei media senza farsene risucchiare. Riutilizzo critico del materiale che, per così dire, naturalmente ci viene somministrato come informazione da un lato, dall’altro la necessità di riconnettere tutto il piano della narrazione a quello della prassi, e questo spiega il nostro volerci focalizzare su una dimensione locale, il Veneto.
Questo era il piano. Quando abbiamo lanciato il sito a maggio la situazione dell’Italia, del mondo e del Veneto era (ed è tuttora) quella nota: da subito ci siamo trovati di fronte alla gigantesca necessità del mondo di dover giustificare a se stesso le sue contraddizioni che si facevano palesi e inaggirabili. Stiamo comunque parlando del piano della narrazione, ma quello che succede in questa presunta bolla è sempre sintomatico di processi reali o della necessità di nascondere processi reali. Sono nate parole nuove; e parole antiche, parole proibite sono tornate nella sfera del dicibile: “smartworking”, “diseguaglianze”, “unità”, “patrimoniale”. Si trattava di saggiare il parallelismo tra reale e rappresentato, di penetrare nelle parole e portare alla luce quello che certi significanti esprimevano o celavano dei loro significati. Prendiamo la questione dei medici, degli specializzandi, che sono stati chiamati in vari modi: “eroi”, “angeli”, persino “martiri”, ma c’era qualcosa che nel quadretto stonava. Perché degli angeli dovrebbero mettersi a scioperare? Perché degli eroi dovrebbero protestare? E contro cosa? Oppure, per ripetere una parola che è stata pronunciata così tante volte da usurarsi, perché c’era bisogno di inventarsi lo smartworking quando qualcosa come il telelavoro già esisteva in Italia da oltre un trentennio, con precise determinazioni di diritto?
La pandemia, dal punto di vista della narrazione, ha fatto esplodere una dinamica che è sempre stata attiva, ma in sordina. Nel marasma dell’informazione le parole hanno vita breve, la ripetizione ossessiva le usura, le satura, e in questo modo vengono costantemente rimpiazzate. Le cose cambiano nome in continuazione, ma difficilmente queste brillanti metamorfosi si portano appresso mutamenti di sostanza. E la prova di ciò è proprio il reale, quel reale che possiamo vedere con i nostri occhi e toccare con mano. Prendiamo un articolo che abbiamo pubblicato recentemente, sulla vicenda dei Pili e degli interessi del sindaco di Venezia a riguardo: non è certo solo un equilibrismo retorico che ha permesso a Brugnaro di porre la questione dell’edificazione su un terreno di sua proprietà come interesse primariamente pubblico, ma resta il fatto che alla fin fine parole come “bonifica”, “riqualificazione urbana” e simili vanno direttamente nel grande abbraccio del “bene comune“, un bene così grande da nascondere il vero principio motore di tutta la faccenda. E come non parlare del “grande manipolatore”, che è apparso in più occasioni e in più abiti di scena tra i nostri articoli, Luca Zaia, il presidente che tutti vorrebbero avere. Lo ripetiamo: non è scrivendo che si cambiano le cose, ma smontare le matasse della grande narrazione è un’operazione indispensabile per tracciare sentieri, per ricondurre il mondo come ci è raccontato al mondo come lo viviamo sciogliendo le idiosincrasie tra reale e rappresentato.
La domanda che ci interessa è invece la seguente: ci tornano i conti?
Che non significa a noi personalmente, che sarebbe di poco conto; ma ha a che vedere con l’altro versante dell’azione nostra e di tanti altri, quella al di qua dello schermo, fuori dalle nostre stanze e dalle riunioni su Zoom, che vuole costruire un mondo diverso, dove i rapporti fra le persone siano di una virgola più giusti. La risposta non siamo noi, adesso, a doverla dare; quello che vogliamo suggerire, chiudendo questo editoriale di bilancio e rilancio, è che la direzione ci pare quella giusta. Quando non siamo stati in grado di dire quel che si doveva, è stato per mancanza di forze, non di idee: ed è per questo che, per la seconda volta a partire dalla nascita di Seizethetime, chiediamo a quelle e quelli che sentano il bisogno di dire e mostrare il marcio che c’è appena sotto la superficie di battere un colpo. Noi ci siamo.
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