intervista a Caterina Camposano
Tra poche settimane cominceranno a Cortina i mondiali di sci. Si tratterà, per via del Covid, di un’edizione in sordina rispetto alle previsioni: questo però non deve farci dimenticare come nei mesi scorsi si sia rivelata la presenza di aziende mafiose nei cantieri che preparavano i mondiali. Come era già emerso chiaramente dall’intervista con Gianni Belloni che abbiamo pubblicato a inizio dicembre, non si è trattato di una novità per la nostra regione: infatti, recentemente è arrivata una sentenza che ha coinvolto Eraclea e Caorle. Ciò che emerge di comune a tutti questi episodi è il fatto che tra i primi a viverne le conseguenze sulla propria pelle ci sono stati i lavoratori e le lavoratrici delle aziende coinvolte, perché parlare di mafia in Veneto vuol dire anche parlare del lavoro in questa regione… Questa volta, dunque, ne abbiamo discusso insieme a Caterina Camposano, avvocata del lavoro che si è occupata di questo processo per infiltrazioni mafiose che si è svolto di recente nella nostra regione.
Alcune settimane fa sono arrivate le sentenze con rito abbreviato per associazione mafiosa, per attività che si sono svolte negli anni nelle più importanti località della riviera del Veneto Orientale, in particolare Eraclea e Caorle, compreso voto di scambio che ha portato all’elezione dei sindaci. Tu ti sei occupata, come collaboratrice dell’avvocato Azzarini e per conto della CGIL Veneto e della Camera del Lavoro di Venezia, di portare in questo procedimento lavoratrici e lavoratori. Cosa centra il mondo del lavoro con queste attività? Vuoi raccontarci un po’ qual è stato il ruolo delle organizzazione mafiose nella gestione della forza lavoro?
Rispondo con una frase che pare un’affermazione di principio, ma che purtroppo riassume quel che in concreto si manifesta nella realtà fenomenologica: dove c’è mafia non c’è libertà, e dove non c’è libertà i lavoratori sono le prime vittime di questi fenomeni. Per comprendere il motivo di questa affermazione sono sufficienti poche ed astratte considerazioni.
In un rapporto di lavoro, è già palese lo squilibrio tra le parti: ne esiste una forte – parte datrice – ed una debole – il lavoratore. E questo squilibrio è ciò che fonda il diritto del lavoro, che è, per definizione, quell’insieme di norme scaturite dall’allarme sociale insito in questo rapporto claudicante; un diritto funzionale, in buona sostanza, a bilanciare la posizione delle parti contrattuali. Nonostante i correttivi della legge, sono fatti notori i disagi del lavoratore nel relazionarsi con il proprio datore, anche solo per chiedergli quanto dovuto, per paura di ritorsioni.
Facciamo un passo in avanti e consideriamo l’agire di una associazione mafiosa. Ciò che le caratterizza è il metodo del quale si avvalgono e con il quale si impongono nella realtà civile: l’uso della forza e dell’intimidazione. E questo metodo lo applicano su tutto, anche nei confronti dei lavoratori che operano a contatto con i clan.
Di conseguenza, come può un lavoratore, già parte debole di quel rapporto claudicante, far valere le proprie ragioni nell’ambito di tali contesti? Non può; di regola, chi manifesta le proprie ragioni viene, nelle migliori ipotesi, tacitato e cacciato. Altre volte minacciato e lesionato. Il lavoratore, pertanto, soccombe, non ottiene giustizia. Sono dinamiche seriali, che fotografano il silenzio, e, di conseguenza, la solitudine e la paura di lavoratori, spinti a non denunciare alcunché nemmeno dopo che il rapporto si risolve.
Sottolineo, infatti, che il quadro appena sintetizzato non è il risultato di testimonianze dei dipendenti; sono fatti acquisiti durante le indagini e ricostruiti ex post nelle aule di tribunali. Sono le indagini che hanno portato alla luce soprusi come il caporalato, il lavoro nero (tra l’altro fonte degli ingenti guadagni delle associazioni mafiose) intrisi di quel contegno intimidatorio, quel metodo, cui sopra ho fatto cenno, capace di tacitare proprio i lavoratori che dichiarano di voler andare dai sindacati per ottenere tutela.
E questo è emerso anche nel processo “Eraclea”: capi cantieri pestati perché si rifiutavano di mettere le ore di lavoro imposte dal clan; operai senza nome che passavano da un cantiere ad un altro senza alcuna regolamentazione; se i lavoratori minacciavano di andare dai sindacati, ecco che venivano tacitati, intimiditi e cacciati; e quando il clan veniva a conoscenza della notizia di controlli, parte degli operai venivano lasciati a casa, altri subito regolarizzati come dipendenti di aziende che, dopo poco, sarebbero state dichiarate fallite, portandosi dietro milioni di debiti anche nei confronti dei lavoratori ed anche a titolo di contributi non pagati, posto che nessuna di queste era regolarizzata.
E c’è di più, perché anche quando il lavoratore non è direttamente leso, l’agire di un clan mafioso piega comunque a proprio favore le regole dell’economia. Molto spesso, infatti, le associazioni criminose commettono delitti tra cui usure, riciclaggio, l’utilizzo di varie aziende (sia attive che “cartiere”, ossia finte) per il riciclo del denaro, la commissione di incendi – che colpiscono proprio i mezzi di produzione (camion, capannoni). Anche questi delitti (emersi anch’essi nel processo “Eraclea”) alterano e compromettono l’economia e quindi il mondo del lavoro, con evidenti pregiudizi nei confronti dei lavoratori e, di conseguenza, delle organizzazioni sindacali.
Recentemente è emersa la presenza di aziende riconducibili a capitali mafiosi anche nei cantieri per i mondiali di sci di Cortina 2021, tramite il sistema degli appalti e la pratica del distacco, e negli anni è diventato palese come a Nordest i capitali mafiosi abbiano trovato numerose occasioni di profitto anche saldandosi al tessuto produttivo preesistente e andando a svolgere funzioni “utili”, non quindi una semplice infiltrazione come si è soliti descrivere il fenomeno. Seguendo questo procedimento cosa hai potuto capire?
Certo, sarebbe riduttivo discorrere di infiltrazioni; si dovrebbe invece parlare di conquista da parte della mafia di gran parte del tessuto economico. Il metodo è spesso il medesimo. I clan, detentori di ingenti somme di denaro liquido (che spesso derivano da altri reati commessi dalle associazioni), si impongono con “delicatezza” nell’economia. In periodi di crisi, infatti, gli imprenditori che non riescono ad ottenere liquidità mediante i canali ordinari (come le banche), vengono messi in contatto con questi soggetti e ottengono da questi ultimi prestiti significativi per far fronte a diverse necessita (pagamento dei fornitori, dipendenti ecc); ma, molto spesso, restano imbrigliati nelle usure. Le aziende degli imprenditori usurati, in questo modo, prima si piegano al volere dei clan, poi finiscono per divenire di proprietà del clan medesimo; smettono di essere produttive, diventano cartiere e vengono portate al fallimento accumulando debiti nei confronti dello Stato, dei fornitori ma soprattutto dei lavoratori.
Lavoratrici e lavoratori, già posti in situazioni di forte ricattabilità dalle “riforme” del lavoro degli ultimi anni e dalle condizioni sempre più precarie, in questi casi sono ancora più minacciati e con difficoltà ad organizzarsi sindacalmente. Quali strumenti potrebbero essere importanti per rafforzare i lavoratori in queste situazioni?
Come già detto, l’azione dei sindacati in Tribunale e le sentenze dei Magistrati, ancorché positive, non “curano” la causa, ma curano solo i sintomi di un problema ormai radicato nel mondo del lavoro. Uscendo dal focus del discorso:sempre più spesso la soluzione ai problemi del mondo del lavoro è rimessa alla Magistratura, il che non sottende solo la problematica “riforme”, ma anche un problema maggiore, un problema di classe di lavoratori, che non si sente più tale, perché evidentemente non più adeguatamente e degnamente rappresentata in questa società.
Ad ogni modo, la denuncia di soprusi da parte di lavoratori non risolve la questione; una questione che rimane aperta anche all’esito di indagini e successive pronunce della Magistratura: il succedersi di processi di questa specie evidenziano proprio l’insufficienza della sola risposta giudiziaria a questo fenomeno.
Però, per rimanere su questo fronte, si potrebbe affermare che uno strumento utile può venire direttamente dalla società civile, con la sua costituzione nell’ambito di processi dove si combatte la mafia (e, in generale, dove si persegue il delitto ex art. 416bis cp.).
In altri termini, la presenza di associazioni, di singoli individui, di enti territoriali nel processo – presenza non scontata perché fino al processo “Aemilia” non c’era mai stata – rafforza la coesione sociale e, di conseguenza, l’azione della Magistratura. Solitamente quando un magistrato è impegnato in procedimenti antimafia è accompagnato dalla scorta perché considerato automaticamente in pericolo: viene riconosciuto “solo contro la mafia”. Il senso di protezione reciproca può darlo anche la stessa società civile che si costituisce nel procedimento; la collettività – variamente rappresentata – finisce, così, per muoversi per una finalità comune: nessuno è più solo nella lotta al fenomeno mafioso.
Pertanto, per rispondere alla tua domanda, per essere concreta, risponderei che il modo per rafforzare i lavoratori è continuare a sensibilizzare il problema “normalizzando” la lotta alla criminalità e, per quanto concerne il mio lavoro, “normalizzando” la costituzione del sindacato nei processi per mafia.