di Filippo Grendene*
Ci sono, nei rapporti con le istituzioni, delle situazioni nelle quali la distinzione fra le disfunzioni provocate da sciatteria e quelle provocate da precisa volontà tende a sfumare. Non si parla, in questo caso, dei livelli alti, ma del cittadino singolo che si trova davanti all’ufficio, va a bussare alla porta e attende, con il cappello in mano, sperando che gli vada bene. Chi attende sa che chi ha davanti è una parte dello Stato, che in teoria esiste per aiutarlo; ma d’altra parte sa anche, almeno per esperienza, che è anche un avversario, le cui scelte sono spesso illogiche, non si capiscono, colgono di sorpresa. Siamo nelle mani di un’altra persona, ci sembra di dipendere dai suoi capricci e dai suoi umori, che rispondono a una logica che non sempre si è chiara.
Eppure parliamo la stessa lingua.
C’è però anche il caso in cui la lingua che parliamo non sia la stessa. È la situazione in cui si trovano, ad esempio, i richiedenti asilo.
Cosa succede quando una persona entra in Italia per far richiesta d’asilo politico? Se arriva dal mare, viene presa in carico dal ministero degli interni: una volta fatta la richiesta, dal 2015 se non si dispone di risorse economiche sufficienti al proprio sostentamento si ha diritto all’accoglienza per tutta la durata del procedimento. L’accoglienza è spesso un’incognita, le strutture variano moltissimo, molti affaristi impostano il loro business sulla debolezza dei richiedenti, e infatti spesso lotte e vertenze si sono concentrate sulla denuncia delle condizioni di vita in cui i migranti sono costretti. Però è un diritto.
Per chi arriva via terra, invece, le cose procedono diversamente. Le richieste di asilo politico arrivano individualmente e come tali sono gestite dalle prefetture, che teoricamente dovrebbero fornire l’accoglienza per la durata della procedura, che spesso richiede anni per essere completata; capita tuttavia che ci siano delle sviste.
A ottobre, allo sportello sociale che abbiamo attivato al Catai, si sono presentati due pachistani di 19 e 38 anni. Da settembre, ci raccontano, dormono per strada, principalmente ai giardini dell’Arena. Le loro storie sono dure, il più giovane è partito da casa adolescente e per quattro anni ha girovagato per i Balcani, da un campo all’altro, da una fuga all’altra. Storie comuni a troppi. Hanno un appuntamento per la presentazione per la richiesta di asilo qualche settimana dopo, gli spieghiamo il funzionamento dell’iter burocratico, l’importanza della commissione; gli diciamo di tenere duro.
Passa un mese e ricompaiono. La richiesta è stata presentata, ma gli uffici della Prefettura non li hanno indirizzati a una struttura di accoglienza: è metà novembre, inizia a fare freddo, e continuano a dormire ai giardini dell’Arena.
La loro storia è importante perché esemplare
La loro storia è importante perché esemplare. Facciamo un giro di chiamate fra i nostri contatti nell’accoglienza e nelle cooperative e scopriamo che, in questo momento, c’è per certo una decina di persone in questa situazione, che o dormono per strada oppure che sono provvisoriamente accolti presso sedi di cooperative, per la bontà di alcuni operatori. Proviamo a sentire alcuni conoscenti nelle istituzioni cittadine e ci dicono che i numeri probabilmente sono maggiori: si parla di 20-25 persone sul territorio in questa situazione. C’è un diritto sancito per legge che viene negato, un inverno che arriva, e una pandemia mondiale in corso; ci sono soldi per le imprese, uno due tre quattro ristori, detassazioni per chi non ha fatturato come lo scorso anno, pure i soldi per i monopattini, ma non si trovano le risorse per dare un tetto e un piatto di minestra ai richiedenti asilo. Di chi è la colpa?
Ci sono colpe politiche e colpe tecniche. Da un certo punto divista sono separate: le prime sono quelle delle forme dell’accoglienza nel nostro paese, che da sempre badano, su tutti i piani, a creare situazioni di difficoltà per disincentivare le migrazioni; le seconde sono quelle del funzionamento pratico dell’accoglienza, locale, per cui «non ci sono i posti», «non ci sono i fondi», «sono dublinanti» (cioè sono entrati in Italia attraverso un altro paese europeo, dove hanno lasciato le impronte digitali, e per il regolamento di Dublino dovrebbero richiedere là l’accoglienza), ecc. Ecco allora che, dopo aver espletato le procedure della richiesta d’asilo, il richiedente è accompagnato con un sorriso alla porta, abbia o non abbia un tetto sopra la testa.
Le colpe sono tutte politiche
Da un altro punto di vista, non c’è separatezza fra questi due piani. Le colpe sono tutte politiche. Chi vede le problematiche sul piano tecnico e non agisce è complice e correo della negazione di un diritto stabilito per legge.
La seconda parte della storia è ancora più stupefacente. Sentiamo l’assessore al sociale Marta Nalin che, poco convinta della possibilità di un dialogo con la Prefettura su questo, ci dà il contatto di un avvocato membro di una nota associazione legale di supporto e sostegno, che spesso si è occupato di casi simili. Cosa può fare un avvocato? Ecco un sunto di quel che ci viene spiegato.
«La Prefettura si comporta così, non si sa se per calcolo o per trascuratezza; fatto sta che spesso chi arriva dai Balcani non viene inserito nell’accoglienza. A Padova succede costantemente: è difficile sapere i numeri, dato che si tratta di singoli in condizioni di debolezza, facilmente ignorabili. Io, così come altri avvocati in città, ogni volta che mi trovo davanti a un caso del genere faccio un ricorso al TAR. E ogni volta lo vinco. Ci vuole circa un mese, quindi la Prefettura è obbligata a integrare il richiedente nell’accoglienza. Io ultimamente ho seguito sei o sette casi del genere.»
Sono casi singoli, è questo che importa. Alcuni hanno la fortuna di incontrare avvocati in gamba, organizzazioni di volontariato, strutture politiche come la nostra che li indirizzano, e obbligano lo Stato a rispettare i loro diritti. Altri (ma quanti?) no: restano in strada, in pieno inverno col Covid, o peggio. Le istituzioni locali stanno a guardare, o consigliano un buon avvocato. Questo avviene a Padova, come in tutte le altre città d’Italia, anche se non è chiaro se i modi siano gli stessi. Cosa succederà in una città dove la rete solidaristica e politica non sia stretta come qui? Ad esempio, in un qualsiasi altro capoluogo di provincia del Veneto?

Se i casi singoli sono facilmente esposti agli umori volubili di prefetti e impiegati, un gruppo organizzato può fare di più. Per questo a dicembre abbiamo organizzato un presidio davanti alla Prefettura, per dare voce a chi, davvero, non ha voce, e mandato una lettera al prefetto (che riproduciamo qui sotto). Per questo continueremo a fare attenzione a questa situazione, provando ad allargare lo sguardo ad altri territori.
Si è cercato di svolgere questo ragionamento con lucidità e coerenza, lasciando da parte la rabbia e la frustrazione che montano davanti al trattamento di persone in fuga da situazioni indicibili. Però c’è un’altra parte di noi che, a questi funzionari dello Stato che con un sì e con un no decidono della vita delle persone, vorrebbe solo chiedere: avete capito cosa state facendo, ogni giorno della vostra vita? Ma come fate a dormire la notte?

* partecipa all’assemblea di Potere al Popolo Padova e al collettivo del Catai, spazio politico-culturale attivo in città dal 2016