Padova, 21 maggio: sciopero dei braccianti
“Li vedo arrivare , sono i morti. I caduti di tutte le guerre dei campi.
I morti per la fatica e per le sofferenze patite. I morti di tutte le lotte, utili e inutili, di questa terra. I morti ammazzati per essersi ribellati. I morti ammazzati ancora prima di essersi ribellati. I morti che nessun libro di storia, nessuna articolo di cronaca ha mai menzionato. Coloro che nessuno ricorda”
(Alessandro Leogrande, Uomini e caporali)
Questa mattina lo sciopero dei braccianti è arrivato anche a Padova, anche se in città di campi ce ne sono pochi. Diversi attivisti di Potere al Popolo!, infatti, hanno portato la protesta davanti a tre supermercati in Arcella, seguendo una delle direttrici principali di questa giornata di agitazione a livello nazionale.
Andiamo con ordine. Lo sciopero è stato dichiarato dal sindacato USB (Unione Sindacale di Base) raccogliendo le istanze provenienti dai lavoratori e dalle lavoratrici migranti, concentrati soprattutto nei “ghetti” di alcune regioni del Sud, accampamenti divenuti tristemente famosi negli ultimi anni per via delle terribili condizioni in cui vivono centinaia di persone, nei quali di frequente si verificano incidenti anche mortali, come ad esempio a San Ferdinando e a Taurianova in Calabria e a Borgo Mezzanone in Puglia. L’elemento scatenante per questa mobilitazione è stato il provvedimento di regolarizzazione presente all’interno del Decreto Rilancio e frutto dell’azione congiunta dei Ministeri dell’Agricoltura, del Lavoro, degli Interni e per il Sud. Il decreto è arrivato dopo due mesi di dibattito sulla questione, in cui sono stati coinvolti partiti politici, associazioni datoriali e organizzazioni sociali e politiche impegnate da tempo su questi temi – ma potremmo sintetizzare l’esito di questo dibattito dicendo che la montagna, alla fine, ha partorito un topolino: e proprio questo fatto viene contestato con lo sciopero di oggi.
La regolarizzazione sarà infatti molto limitata. Vi potranno accedere lavoratori e lavoratrici impiegati in attività agricole, di cura o domestiche, che trovino un datore di lavoro disposto ad assumerli con un contratto regolare o a regolarizzare un rapporto di lavoro già esistente, ma in nero. Potranno ottenere un permesso anche coloro che sono stati in passato impiegati in questi settori e che posseggano una documentazione che attesti il lavoro svolto (dunque, aver lavorato in nero non vale). Infine potranno fare domanda per ottener un permesso utile alla ricerca di lavoro tutti coloro il cui titolo di soggiorno sia scaduto dopo il 31 ottobre 2019. La platea di aventi diritto risulta quindi fortemente limitata. Soprattutto, però, il provvedimento sdogana esplicitamente l’idea che diritti che sono fondamentali per ogni uomo e ogni donna debbano essere elargiti solo se viene dato qualcosa in cambio – in questo caso, una prestazione lavorativa utile a far funzionare il sistema produttivo in un momento di emergenza, in una sorta di perverso do ut des.
L’idea stessa del provvedimento, del resto, è sorta per fare fronte agli effetti della pandemia che stiamo attraversando. Con l’arrivo del coronavirus, difatti, il sistema su cui si reggeva l’agricoltura italiana è semplicemente imploso. La mobilità internazionale si è bloccata, rendendo impossibile ai lavoratori stagionali arrivare in Italia (più di 300.000 persone ogni anno, secondo le stime di Coldiretti), mentre la mobilità interna ai confini nazionali è stata subordinata al possesso di documenti che, nella stragrande maggioranza dei casi, queste persone non hanno: il permesso di soggiorno e un contratto di lavoro. Da un lato è venuta a mancare la forza lavoro, dall’altro la forza lavoro presente si è venuta a trovare in una situazione incompatibile con le esigenze sanitarie del momento. Sono le conseguenze indesiderate di uno squilibrio che, invece, negli ultimi decenni è stato sempre più desiderato, e che riguarda principalmente il salario della manodopera impiegata in agricoltura. Perché così tanti stagionali dall’estero? Perché è possibile retribuirli con una paga che noi italiani in molti casi ci rifiutiamo di accettare. Perché così tanto lavoro nero? Perché così facendo è possibile abbattere ulteriormente il costo del lavoro, pagandoli molto meno di quanto previsto dai contratti locali e nazionali, come facevano i caporali arrestati ai primi di maggio nel Trevigiano nei confronti di lavoratori pakistani, fino ad arrivare ai 3 euro all’ora per giornate lavorative di 11 ore, come facevano i caporali arrestati a febbraio a Padova, Venezia e Rovigo ai danni di lavoratori marocchini.
Le aziende agricole italiane, in larghissima parte di piccole dimensioni, sono solo il primo anello di una catena molto più estesa
Il punto centrale, però, è che questo squilibrio risulta perfettamente visibile nei campi, ma nasce altrove. Le aziende agricole italiane, in larghissima parte di piccole dimensioni, sono solo il primo anello di una catena molto più estesa: la filiera agroalimentare, che con un fatturato totale di oltre 530 miliardi euro è il primo settore dell’economia italiana (cfr. il position paper pubblicato nel 2019 dalla Fondazione Ambrosetti: “La creazione di valore lungo la filiera agroalimentare estesa italiana”). All’estremità opposta troviamo i supermercati della Grande Distribuzione Organizzata (GDO), cioè le grandi centrali d’acquisto che canalizzano più del 70% della spesa fatta dagli italiani (come rilevava nel novembre 2018 l’Oxfam nel rapporto “Al giusto prezzo”). Questa concentrazione conferisce alla GDO un vero e proprio potere ricattatorio nei confronti del resto della filiera, a cui può imporre prezzi e condizioni di vendita il cui fine è la massimizzazione del proprio profitto e che i produttori sono costretti ad accettare, pena l’esclusione dal mercato – ma finendo poi con il rivalersi sull’unica variabile dipendente a loro disposizione, cioè il costo del lavoro. Il caporalato e il lavoro nero, dunque, che fanno sempre – e giustamente – tanto scalpore sui giornali, non sono derive marce e criminali di un sistema altrimenti sano, ma costituiscono una modalità di organizzazione del lavoro che ha una valenza strutturale nella filiera agroalimentare, e dal loro “buon funzionamento” dipendono i profitti non solo delle aziende agricole, ma di tutta quanta la filiera. La GDO non potrebbe imporre i suoi prezzi ai coltivatori, se non sapesse che questi, a loro volta, possono scaricare tutto abbattendo il costo del lavoro, cioè alzando il tasso di sfruttamento.
Dai campi ai supermercati, più diritti meno sfruttati
Sullo striscione preparato dagli attivisti padovani di Potere al Popolo! – che li ha accompagnati mentre volantinavano davanti all’Interspar di via Pontevigodarzere, all’Alì di via Saetta e al Lidl di via del Plebiscito – campeggia la scritta “Dai campi ai supermercati, più diritti meno sfruttati”, che racchiude tutto il senso della giornata di oggi e delle azioni di supporto che, a Padova come in tutta Italia, hanno accompagnato oggi lo sciopero dei braccianti. Una vera regolarizzazione, pensando magari a un permesso di soggiorno di emergenza, come proposto dal Movimento Migranti e Rifugiati di Napoli, avrebbe costituito un primo passo verso il riequilibrio della situazione in tutta la filiera, ma così non è stato.