Alle metafore di guerra in questo periodo di pandemia abbiamo finito per abituarci. Così come ai racconti della vita in trincea, cioè in corsia, nei momenti culminanti delle varie «ondate»: i turni massacranti, l’abbigliamento scomodissimo, i pannoloni usati per l’impossibilità di andare in bagno in orario di lavoro: un dispositivo adottato inizialmente dal personale sanitario di Wuhan, destando l’orrore occidentale, e in seguito sdoganato anche dalle nostre parti. Quella dell’«esercito» che deve combattere «in prima linea» contro il virus traspare come una vita tutta volta ad uno sforzo sovrumano, tanto da generare fin da subito una proliferazione di discorsi sull’«eroismo» coronati dal conferimento di opportune onorificenze da parte del Presidente della Repubblica.
A prima vista questa «chiamata alle armi», che ha coinvolto medici, infermieri e operatori socio-sanitari in un contesto d’altra parte segnato dalla «chiamata alla responsabilità» della popolazione intera, sembra un fenomeno naturale e inevitabile nello stato di emergenza. Attaccato il popolo reagisce: i militari vanno alla leva, la popolazione civile si adatta alle esigenze dell’economia di guerra. Affascina anche, inizialmente, questo rimettersi in moto della storia: dalla testimonianza di una dottoressa veneta scritta nel marzo scorso traspare l’orgoglio dell’«esercito blu» all’interno del quale si sono «azzerate le differenze» perché «tutti lavorano con tutti», al di là di reparti e specializzazioni.
Ma alla «chiamata alle armi» non tutte le professionalità coinvolte hanno risposto con lo stesso entusiasmo. Innanzitutto, e nei luoghi colpiti per primi dal virus c’è chi l’ha capito subito, nel caso di una pandemia la metafora bellica non regge affatto: pensare di reagire alla malattia in primo luogo intensificando il lavoro degli ospedali è semplicemente sbagliato e inefficace. Per di più l’«esercito» dei sanitari è potentemente attraversato dalle linee del potere e del censo e soggiace ai meccanismi spesso disfunzionali del mondo del lavoro. Per questo non tutte le figure coinvolte si sono trovate nella posizione materiale e psicologica di potere o voler compiere atti di «eroismo».
Quest’analisi si propone di fare una ricognizione dei modi in cui le categorie sanitarie hanno reagito alla «chiamata alle armi» contro il virus e alle retoriche che l’hanno attraversata, in particolare in Veneto. Una premessa tuttavia è necessaria. Alle differenze di prestigio e di classe che strutturano il mondo del lavoro sanitario corrispondono determinati gradienti di visibilità: le testimonianze e le prese di posizione «dall’interno» relative alla gestione della pandemia pubblicizzate dai mezzi d’informazione non riguardano allo stesso modo infermieri, medici, OSS e altri dipendenti di ospedali e strutture sanitarie. Gran parte degli interventi proviene dalle voci considerate più autorevoli dei medici. Non è altrettanto facile venire a sapere quel che ne pensano «gli altri».
***
La prima reazione dei sindacati di medici e personale sanitario alle mutate condizioni di lavoro è stata la richiesta di maggiori assunzioni. Il problema della mancanza di personale negli ospedali, nelle strutture territoriali e nelle case di riposo riguarda in primo luogo la categoria degli infermieri, penalizzata dal numero chiuso nelle facoltà universitarie e da una politica del lavoro che favorisce l’esodo verso l’estero o (nel caso del Veneto) anche verso le altre regioni italiane. Gli infermieri, che costituiscono quasi la metà della forza lavoro negli ospedali e sono richiestissimi anche nelle RSA, guadagnano in Veneto poco più degli OSS e meno rispetto a quasi tutte le altre regioni, con il primato negativo della provincia di Padova.
Si tratta di un problema ben più antico del Covid, per risolvere il quale – tuttavia – si sarebbe potuto agire diversamente, almeno nella finestra tra la prima e la seconda ondata. E invece non è stato così, come denunciato dal sindacato Nursing Up – che ha condannato il proposito della Regione Veneto di integrare i professionisti mancanti con OSS – e dalla Cgil che, per far fronte alla carenza di infermieri nelle RSA nella nostra regione, ha proposto senza successo che il personale necessario fosse assunto da Azienda Zero e poi «inviato» nelle case di riposo. Poco efficace anche l’iniziativa della laurea «abbreviata» per gli studenti di infermieristica, pubblicizzata come una misura per far fronte alla seconda ondata, che poi – come ci raccontano gli studenti stessi – tanto abbreviata non è stata.
La carenza di personale, però, riguarda anche i medici, per ragioni non diverse da quelle degli infermieri (il numero chiuso, i tagli alla spesa sanitaria negli scorsi anni, la scarsa appetibilità del posto di lavoro rispetto ad equivalenti all’estero) ma anche, e soprattutto, a causa dell’imbuto delle scuole di specializzazione, che vedono una carenza di posti e borse di studio rispetto ai laureati. Oltre ad essere gestite come serbatoi di lavoro a basso costo anziché come percorsi formativi: ma questo è un altro problema.
A fronte di questa carenza generalizzata di personale hanno fatto scalpore le dichiarazioni di metà dicembre della direttrice generale di Azienda Zero, Patrizia Simionato, secondo cui dall’inizio della pandemia oltre quattromila tra medici, infermieri, tecnici e OSS avrebbero rifiutato l’assunzione da parte del sistema sanitario regionale: «Non manca la volontà di assumere. Ciò che manca è la disponibilità di medici e personale sanitario in genere […]. Quando li troviamo spesso rifiutano di firmare il contratto quando scoprono di essere destinati a reparti di trincea contro il virus». Una narrazione che il sindacato medico Anaao Assomed Veneto ha immediatamente contestato, sia avanzando dubbi sulla sua veridicità, sia fornendo ottimi motivi per spiegare le eventuali rinunce all’assunzione: «Se qualcuno ha pensato in Regione che questi colleghi, peraltro in attesa di poter entrare nelle scuole di specializzazione, potessero essere tutti disponibili a lavorare per alcuni mesi e per pochi euro, in turni massacranti, a rischiare la loro vita, senza tutele, malattia, ferie, coperture assicurative e previdenziali […] si è proprio sbagliato».
Per ammissione della stessa Simionato, infatti, le rinunce riguardano la quota di professionisti a cui è stato proposto un contratto di tipo libero professionale con partita IVA o co.co.co. Si tratta perlopiù dei medici neolaureati, che fino a dicembre erano in attesa degli esiti degli esami di ammissione alle scuole di specializzazione, e degli specializzandi. Ovvero in gran parte di persone già inserite, o in procinto di essere inserite, in un percorso di formazione dagli esiti «sicuri» ed evidentemente non sempre desiderose di ingabbiarsi nel frattempo in un lavoro ad alto rischio ed estremamente precario.
***
La «chiamata alle armi», insomma, nel caso del lavoro sanitario incontra minore entusiasmo quando i contratti proposti si rivelano vistosamente inadeguati. Ma le carenze contrattuali non sono state l’unico problema segnalato dalle categorie interessate. L’altra criticità che emerge a compensare, e sconfessare, la dannosa retorica dell’«eroismo» è rappresentata dalle condizioni di lavoro pericolose e scoraggianti. Un problema che si è manifestato a partire dalla prima ondata, durante la quale in tutta Italia mancavano i dispositivi di protezione individuale necessari ad evitare il contagio dei dipendenti, e – nonostante il successivo reperimento del materiale necessario – non è stato affrontato in modo efficace durante la pausa estiva in preparazione alla seconda ondata.
Ad inizio novembre 2020 Anaao prendeva le distanze dalla decisione di Azienda Zero di formare il personale all’utilizzo dell’ossigenoterapia ad alto flusso tramite video tutorial su YouTube. Nel periodo successivo emergeva il caso dei tamponi rapidi utilizzati, in Veneto, per il monitoraggio delle categorie a rischio, tra cui il personale sanitario: ne abbiamo già parlato qui su Seize The Time. Questi ed altri elementi di rischio si sommano alla sospensione delle ferie e dei permessi, allo smembramento dei reparti, allo stress estremo del personale che a volte si è visto avanzare perfino la richiesta di non far sapere «all’esterno» come venisse gestita l’emergenza. E mettono in pericolo la sicurezza non solo dei lavoratori, ma anche dei pazienti, e della popolazione generale perché possono causare una maggior diffusione del virus.
Lavorare duramente e in condizioni insicure è difficile, ma deve esserlo ancora di più in presenza della sensazione che una simile quantità di lavoro potesse essere evitata. Alla denuncia delle condizioni in cui si lavora negli ospedali nei momenti «di punta», le categorie impegnate nel settore sanitario veneto hanno associato fin dall’inizio un diffuso impegno nel sollecitare maggiori misure di contenimento del contagio sul territorio, tra le persone. Contribuendo anche a diffondere la consapevolezza dei trucchi e degli inganni a cui, nella nostra Regione, si è fatto ricorso per evitare di inasprire le restrizioni: è il caso della denuncia portata avanti da Anaao Assomed riguardo alle dichiarazioni secondo cui in Veneto ci sarebbero mille posti attivi in terapia intensiva – una falsità, per diversi motivi: anche di questo abbiamo già parlato.
***
Sulle rivendicazioni viste finora il comparto sanitario, con l’eccezione dei dirigenti di nomina più o meno politica come Simionato o il direttore generale Luciano Flor, si è mosso fondamentalmente in maniera compatta. Tutti d’accordo sulla necessità di maggiori assunzioni, sull’opportunità di garantire sicurezza e ritmi più umani sul lavoro, sulla denuncia delle insufficienti misure per ridurre la diffusione del virus tra la popolazione. Esistono però altri ambiti in cui le distinzioni gerarchiche, gli squilibri di potere presenti all’interno del mondo degli ospedali e delle ULSS si fanno sentire, e le prese di posizione si fanno contrapposte.
Quando in gennaio le farmacie del Veneto, grazie ad un protocollo regionale, hanno potuto iniziare ad eseguire tamponi rapidi per la ricerca del Covid-19, l’Ordine dei medici di Padova ha disposto un’interrogazione alla Società italiana di medicina legale. L’ipotesi? «Esercizio abusivo della professione» medica. «È un esproprio della nostra attività: per legge gli unici abilitati a refertare un accertamento diagnostico siamo noi e, in alcuni casi, i biologi. Va da sé, quindi, che nemmeno i farmacisti sono autorizzati a firmare il referto del tampone, né lo possono fare gli infermieri che a loro volta sono stati incaricati dalle farmacie di occuparsi concretamente dell’esecuzione del test rapido».
Molto simili i toni adottati dall’Ordine degli infermieri (in questo caso di Belluno) di fronte alla proposta di integrare gli infermieri mancanti nelle RSA con OSS specificamente formati. In questo caso la proposta è forse infelice e può servire a coprire l’incapacità delle strutture di procurarsi, o di trattenere, il personale infermieristico necessario alla loro funzionalità. Quel che colpisce, tuttavia, è il ritorno della stessa espressione: «Esercizio abusivo della professione», con il riferimento all’articolo 348 del Codice penale. Toni forti che non tengono conto del fatto, di cui si parla in questo articolo, che in molte strutture gli infermieri sono chiamati a svolgere mansioni che sulla base delle ultime direttive dovrebbero essere svolte da OSS.
Al parere degli e delle OSS, in quest’ultimo caso, non sembra essere stato dato alcuno spazio sui giornali (evidentemente la categoria non gode di grande visibilità). La risposta dei farmacisti alle denunce dell’Ordine dei medici, invece, non si è fatta attendere: «È la legge a legittimare i tamponi in farmacia: la ratio che sottende i recenti provvedimenti normativi in materia è quella di affrontare il momento straordinario con misure straordinarie e con l’aiuto di tutti» affermano da FarmacieUnite; simile la posizione di Federfarma.
Questi episodi potrebbero sembrare di poco conto: semplici scosse di assestamento di un sistema, quello sanitario, che si è visto sconvolgere da un’emergenza senza precedenti. Ma potrebbero anche essere letti come segnali di qualcosa di più profondo: forse la crisi sanitaria attuale mette in crisi alcune dinamiche di potere e di prestigio consolidate all’interno degli ospedali e delle strutture sanitarie territoriali; forse alcuni privilegi rischiano di essere messi in discussione. Considerato che questa emergenza non è ancora alla fine, e che potrebbero seguirne altre simili, forse è legittimo chiedersi in che modo il sistema sanitario dovrebbe cambiare per essere più equo per chi ci lavora e più efficace per le persone in generale.