In questi giorni sui giornali nazionali si stanno affollando le letture più improbabili dello sciopero generale lanciato da CGIL e UIL per il 16 dicembre. Si dice, ad esempio, ed è un discorso già sentito, che si tratterebbe di un atto di irresponsabilità, soprattutto in questo momento in cui ecc.; che prima di affrontare il problema della spartizione della torta, bisognerebbe crearla; che – ed è una lettura davvero tendenziosa – se si spendesse il tempo che si usa per parlare dello sciopero generale per parlare del terzo settore, cioè di quel soggetto che davvero si occupa di affrontare i problemi delle persone, al contrario dei sindacati, ecco, allora si potrebbe fare qualcosa. Che la sinistra che parla del conflitto come «sale della democrazia» è rimasta al Novecento.
Il Corriere della Sera, il Giornale, la Stampa, cioè le testate su cui sono apparse queste letture, sono giornali schierati a favore di un certo modello economico, che non sembra essere stato intaccato dagli avvenimenti degli ultimi due anni. Parallelamente a queste considerazioni sullo sciopero viene difesa la necessità dell’ultima riforma fiscale con un ragionamento di questo tipo: dato che, con le risorse disponibili, detassare i redditi bassi avrebbe portato a un vantaggio minimo, si è preferito agire sui medio-alti. Cioè: i poveri sono troppi, non possiamo farci niente, piuttosto che niente diamo un vantaggio tangibile a chi prende 50000 euro l’anno: almeno si farà un Natale più lieto. Chi ha paura di uno sciopero generale, quindi? Una simile campagna ci dà la prima risposta: gli imprenditori, Bonomi in testa, e le destre del paese.
D’altra parte, la CGIL non poteva affrontare questo sciopero in modo più leggero e titubante. Dopo mesi in cui da più parti si richiede un’azione decisa del maggior sindacato italiano, l’azione viene fatta con scarso anticipo, «apprezzando l’impegno e lo sforzo del premier Draghi e del suo Esecutivo», senza una capillare diffusione nelle aziende e senza una vera volontà di mobilitare. Si poteva osare di più. Uno sciopero sull’uso delle risorse del PNRR che non mette al centro ciò che un sindacato dovrebbe mettere al centro, il lavoro, e la differenza di interessi che oppone padroni e salariati. La paura della CGIL fa perno su un punto: un vero sciopero generale significherebbe mettere in discussione tutta la propria politica sindacale almeno degli ultimi 30 anni, e infatti non si sono messi davvero i lavoratori e le lavoratrici nella condizione di scioperare.
La situazione che viviamo noi è quella del Veneto. Il problema qui è evidente: non si parla soltanto di distribuzione delle risorse, ma soprattutto di lavoro sottopagato, sfruttamento, erosione del potere di acquisto. Centinaia di migliaia di lavoratrici e lavoratori, in questi ultimi anni, si trovano con delle difficoltà insormontabili ad accedere alla casa, ad avere un tenore di vita confortevole, a fornire ai figli una vita dignitosa. Per un affitto si chiedono garanzie, contratti a tempo indeterminato, fideiussioni. I mutui sono lontani anni luce. Si vive in quattro, in cinque, con uno stipendio di 1500 euro al mese? Quello che, sotto forme diverse, si continua a fare, è chiedere sacrifici, chiedere di comprendere come il tempo determinato e la precarietà siano inevitabili conseguenze di una situazione, che bisogna capire le ragioni di tutti.
Attenzione però ai dati: siamo in una fase di ripresa economica, in regione il tasso di disoccupazione è in netto calo nell’ultimo anno, nonostante i problemi oggettivi del settore turistico in relazione al Covid e la parziale crisi di alcuni settori, ad esempio quello dell’occhialeria. Le fabbriche iniziano a faticare a trovare lavoratori, in particolare per quel che riguarda agricoltura, istruzione, metalmeccanico, edilizia in generale. Certo, c’è contratto e contratto, c’è lavoro e lavoro: la ripresa dell’occupazione procede parallela a un peggioramento sia delle condizioni contrattuali (il precariato che ancora aumenta) che salariali, in assenza di piani economici che non siano di facciata (vedi la tanto millantata svolta green).
In una situazione di questo genere, però, i lavoratori potrebbero anche diventare meno ricattabili e la contrattazione potrebbe ricevere una spinta reale da una presa di posizione politica del sindacato. Il sindacato confederale, certo, è presente solo in determinati settori, e anche in questi settori è possibile ottenere diritti e salario solo attraverso una politica che esca dalle posizioni di difesa che abbiamo conosciuto negli ultimi decenni. Ma forse quello attuale è il momento in cui questo può avvenire, e in questo caso i settori più sindacalizzati potrebbero avere un ruolo trainante. Questi cambiamenti però non avverranno da soli, ci sarà bisogno di un impegno chiaro in questo senso, e della forzatura dei meccanismi della contrattazione come sono stati pensati a partire dalla metà degli anni Novanta.
Un’ultima considerazione: una delle questioni cruciali, oggi come dieci anni fa, è quella delle delocalizzazioni. In Italia la risposta alla volontà delle aziende di delocalizzare è la contrattazione in regione o al ministero, e c’è diffidenza nel far dialogare le vertenze con tutti i soggetti che potrebbero dar loro forza. È quello che sta accadendo a Santa Maria di Sala, alla Speedline, con 600 dipendenti più 200 dell’indotto a rischio: il sindacato più rappresentativo della fabbrica, CISL, ha dichiarato la chiusura a ogni confronto che non sia con le istituzioni e con la proprietà. Questa è la norma, e spesso purtroppo non finisce bene – lo si è visto con alcune delle vertenze aperte dopo lo sblocco dei licenziamenti. Però in Italia c’è anche un’eccezione: il caso GKN rappresenta quell’anomalia. Una lotta di ricomposizione che non accontenta nessuno dello scenario del sindacato organizzato, di base e confederale. Dall’esperienza GKN è anche uscita una proposta di legge contro le delocalizzazioni, che si sta discutendo in questi giorni. C’è insomma qualcosa di nuovo, da cui si può imparare.
In questo contesto sfilacciato e, in fin dei conti, molto timoroso, lo sciopero generale va però rivendicato, fatto proprio e rilanciato per un potere sui luoghi di lavoro e sulle proprie vite. Per dirla alla GKN: per convergere e insorgere.