di Alice Boni e Filippo Gobbo
Come abbiamo raccontato nelle scorse settimane, la situazione abitativa a Padova è critica. La speculazione immobiliare e l’aumento della domanda di case hanno ormai fatto salire alle stelle il mercato degli affitti; la guerra e i sommovimenti dell’economia internazionale hanno contribuito a far lievitare le spese condominiali, soprattutto nei casi di edifici che necessitano di ristrutturazioni, come accade in molte case a gestione ATER. A questo panorama si aggiungono le deboli risposte delle politiche istituzionali che delegano per buona parte ai capitali privati le azioni di politica abitativa.
Ma una domanda sorge spontanea: come si è arrivati a questo punto? È vero, come afferma Francesca Benciolini (l’assessora alle politiche abitative del comune di Padova), che il problema sta tutto nel mancato investimento a livello nazionale?
Per capirlo facciamo un passo indietro e vediamo qual è la storia delle politiche abitative in Italia: una storia in cui possiamo distinguere sostanzialmente due fasi.
1. Costruire per garantire il diritto alla casa: la prima fase delle politiche abitative
La prima è quella che va dal Secondo dopoguerra alla fine degli anni Novanta. Un cinquantennio, questo, contraddistinto da politiche abitative in cui la parola d’ordine era una sola: costruire. Questa logica costruttiva trovava una sua ragione d’essere nel contesto socioeconomico dell’Italia del Dopoguerra dove bisognava assicurare, oltre al diritto alla casa, posti di lavoro a milioni disoccupati attraverso il rilancio del mercato edilizio. Su questa linea, per esempio, si muoveva il primo piano nazionale post-conflitto, il «piano INA-casa», meglio conosciuto come «piano Fanfani», i cui frutti si possono ancora osservare passeggiando per Padova, in via Salerno per esempio o a Paltana (Fanfani qui venne a inaugurare tre villette, erette grazie ai fondi provenienti proprio da questo piano).
Piani come quello Fanfani (o i successivi Piani Decennali per l’Edilizia residenziale pubblica – ERP) erano orientati a garantire sia case ERP sia di edilizia convenzionata (cioè case che, in linea con la cultura italiana della casa di proprietà, sarebbero state vendute direttamente ai cittadini in difficoltà). Per permettere la regolare attuazione di queste politiche abitative erano stati istituiti fondi dotati di risorse finanziarie ingenti (come il fondo Ina-casa poi convertito in fondo Gescal) e alimentati direttamente dai contributi dei lavoratori stessi, delle imprese e in parte dai finanziamenti governativi. Pur con tutte le criticità, la presenza di queste risorse permetteva una reale programmazione delle politiche abitative, a differenza di quanto accade oggi.
2. La riforma del titolo V: Un passaggio di competenze, ma senza finanziamenti
Ma non corriamo troppo e fermiamoci a quel periodo a cavallo tra anni Novanta e anni Zero, dove la storia che stiamo raccontando prende una svolta che meglio chiarisce la situazione attuale.
Il primo aspetto da tenere presente è di carattere finanziario, ossia la chiusura dell’ultimo fondo che permetteva un finanziamento stabile delle politiche abitative: il fondo Gescal che viene definitivamente abolito a partire dal 1998. Sebbene rimangano tutt’oggi dei fondi residui, da questo momento in avanti iniziano a mancare fonti di finanziamento stabili per programmare le politiche abitative. A complicare il quadro, sul fronte affitti, ha contribuito la liberalizzazione del mercato con la legge n. 431 del 1998 che, eliminando la formula dell’equo canone (un meccanismo che serviva a fissare il valore di un immobile da affittare), ha eliminato anche la possibilità che ci fosse un maggiore controllo sul mercato degli affitti. Con la consapevolezza che una tale misura avrebbe portato a un aumento dei canoni di locazione sono stati istituiti, inizialmente, il Fondo sostegno affitto (FSA) e, in un secondo momento, il Fondo Morosità Incolpevole. Due fondi che non sono mai stati adeguatamente e costantemente alimentati da risorse pubbliche (la loro consistenza dipende dalle leggi di bilancio) e che solo parzialmente, anche a causa dell’estrema restrittività delle regole di accesso, riescono a soddisfare l’enorme platea di domande presente sul territorio.
Il secondo evento legislativo, che fa in un certo senso da spartiacque, è la riforma del Titolo V della Costituzione (legge costituzionale n. 3/2001). Questa riforma sovverte i tradizionali rapporti tra governo centrale ed enti periferici e attribuisce anche la materia dell’edilizia pubblica alla competenza esclusiva delle regioni. È un passaggio importante che però avviene contestualmente alla chiusura di fondi stabili destinati all’edilizia pubblica e che ha una conseguenza evidente: le regioni si trovano ad avere molte deleghe e competenze, ma senza avere forme di finanziamento costanti per poterle utilizzare. A differenza di quanto avveniva in precedenza, le politiche abitative da parte delle regioni (e, a cascata, dei comuni) sono così sempre più vincolate a quanto deciso annualmente dalle singole leggi di bilancio e, di conseguenza, private di qualsiasi possibilità di una programmazione efficace. Effettivamente, mancando un piano stabile di finanziamenti a livello nazionale, come dice Benciolini, regione e comuni sembrano avere le mani legate.
3. Verso la crisi abitativa: nuovi (e insufficienti) modelli di risposta
Accanto a questi passaggi legislativi, gli anni Novanta segnano anche l’abbandono di quella logica costruttiva che aveva contraddistinto i quarant’anni precedenti. Da più parti si è iniziato a pensare che l’edilizia residenziale pubblica non fosse più la soluzione, che costruire fosse diventato inutile («ci sono più case che famiglie») e che, al massimo, il problema da risolvere fosse quello di avvicinare meglio domanda e offerta. Alla luce di questa convinzione, le risorse finanziare sono state orientate non più sull’edilizia residenziale pubblica, le case, ma sugli spazi che la ospitano ossia i quartieri. Programmi sperimentali di recupero urbano (come i Contratti di quartiere e altri programmi integrati) sono stati finanziati negli ultimi vent’anni proprio nel tentativo di affrontare problemi sociali, di sicurezza e, più in generale, di degrado urbano che solitamente vengono associati ai quartieri ERP. Tuttavia, queste politiche, rischiano di risultare sostanzialmente inutili e parziali in una situazione di crisi come quella attuale dove il problema è ben più grave e dovrebbe essere trattato con politiche strutturali che investano tanto nel recupero dell’esistente quanto, soprattutto, nella creazione di una nuova offerta abitativa accessibile alle fasce deboli della popolazione.
A fronte di un disagio abitativo generalizzato le regioni, competenti in via esclusiva in materia di politiche abitative, ma vincolate finanziariamente allo Stato centrale, come rispondono? Da una parte con aiuti economici alle famiglie per sostenere i canoni di locazione sul libero mercato, spesso sotto forma di bandi varati in modo non strutturale (a volte le risorse vengono stanziate, altre no) e quindi non in funzione di una effettiva domanda rilevata sul territorio; dall’altra attraverso programmi che seguono il modello dell’housing sociale. Questo modello consiste nell’offrire alloggi e servizi abitativi alla cosiddetta fascia grigia della popolazione, ossia a tutte quelle persone non abbastanza ricche per permettersi una casa di proprietà, ma non abbastanza povere per rientrare tra i beneficiari delle assegnazioni ERP. È, in altri termini, un’offerta riservata a una fascia di popolazione considerata medio bassa: “meritevole” sia dal punto di vista sociale che dal punto di vista economico. Da una parte infatti si cercano inquilini vocati alla costruzione di relazioni sociali: secondo un implicito processo di selezione che scarta qualsiasi elemento potenzialmente critico al contesto abitativo in cui verrebbe inserito. Dall’altra la condizione reddituale di chi beneficia di questi alloggi deve assicurare il pagamento del canone di locazione (i più precari e poveri vengono quindi esclusi), dal momento che il finanziamento di questi piani edilizi avviene non solo grazie a risorse pubbliche, ma anche alla compartecipazione di capitali privati che hanno tutto l’interesse a rientrare dall’investimento iniziale.
Anche a leggere il Pnrr, la strada sembra ormai essere tracciata: il social housing, così cool e moderno, sta sostituendo il vecchio e obsoleto modello delle case popolari (di cui, invece, non si fa menzione nel piano). La logica costruttiva, che animava le politiche abitative della seconda metà del Novecento, viene ormai considerata fallimentare. Si dice che le case popolari abbiano solo ghettizzato i poveri (ma le politiche di oggi non rischiano di fare peggio, ignorandone i bisogni primari?), che siano oggi di difficile manutenzione (ma non si può ragionare intorno a modelli gestionali innovativi come in altri paesi?) e gravato inutilmente sulle casse dello stato (ma quanto inutilmente se hanno permesso, e permettono ancora oggi, di garantire un diritto fondamentale?).
Viene allora il dubbio che tutta questa retorica che si respira sia a livello centrale che a livello locale sia figlia di un calcolo politico, più che di una riflessione seria. Diciamo questo perché sembra ci sia una certa ritrosia a parlare di povertà abitativa. Trattare il tema delle case popolari, ipotizzarne un incremento, insomma, significa trattare un tema poco gradito all’opinione pubblica; un tema che non porta consenso. Almeno così sembrano pensarlo le grandi coalizioni di centro-destra e di centro-sinistra nelle cui agende politiche non si trova traccia di un programma di rilancio delle politiche abitative pubbliche, nonostante l’esistenza di gravi situazioni di disagio abitativo e di evidenti difficoltà di risposta da parte degli enti pubblici responsabili,.
Eppure, non dobbiamo dimenticare una cosa: pur con tutte le sue criticità, l’edilizia residenziale pubblica nel nostro paese continua a rappresentare una risorsa preziosa e fondamentale per quelle persone escluse completamente dalla possibilità di accedere a un mercato dell’affitto e della proprietà perché vivono in una situazione di temporanea o strutturale di fragilità sociale ed economica. Investire nell’edilizia residenziale pubblica, in modo serio, innovativo e sostenibile, imparando dagli errori del passato e intervento quanto più possibile sul patrimonio esistente, contribuirebbe a tenere più bassi i prezzi delle case e degli affitti. È quanto accade in paesi come l’Austria dove è presente una consistente offerta abitativa a canoni calmierati e in altre città d’Europa. Al contrario, destinare risorse atte a rendere sopportabile il canone di mercato agli inquilini in difficoltà contribuisce a tenere alti i prezzi o, addirittura, a innalzarli. Un aumento dei prezzi delle abitazioni che in questi anni è stato costante e non è corrisposto a un aumento dei salari, i quali, a causa delle politiche deflattive sul costo del lavoro attuate nel corso dell’ultimo trentennio, sono di fatto rimasti congelati, diversamente da quanto accaduto in altri paesi. Quella che emerge sembra allora una miopia generalizzata, incapace di vedere i problemi sistemici e di individuare una parziale soluzione a essi, anche con rinnovate forme di edilizia Erp.
4. Responsabilità
Ma allora, tornando a Padova e, in particolare, all’affermazione della sua assessora alle politiche abitative, il comune non ha nessuna responsabilità? Effettivamente, essendo il terminale ultimo di politiche abitative decise a livello regionale e centrale (dal punto di vista finanziario), sembra non avere sufficienti leve politiche e finanziarie per poter rispondere alle gravi situazioni di emergenza abitativa presenti sul territorio. Si conferma quindi un quadro dove i livelli di governo superiori intenzionalmente scaricano su quello più basso la gestione dei problemi senza però fornire gli strumenti per farlo in modo adeguato. Eppure, il Comune non può voltarsi dall’altra parte, è l’ente con il più stretto contatto con i cittadini ed è quello che ha maggiori responsabilità legali e costituzionali nei confronti dei soggetti fragili (persone non autosufficienti come anziani, persone con disabilità e minori) che non può lasciare senza casa. Cosa può fare dunque per affrontare questa situazione? Margini di manovra esistono e devono essere sfruttati in maniera intelligente, strategica e corale, facendo innanzitutto pressione a livello regionale, in modo tale che poi lo stesso venga fatto a livello nazionale. Richiamando ogni livello di governo alle sue responsabilità. Ogni politica, e quella abitativa non fa eccezione, è frutto di conflitti e successive contrattazioni che possono essere promosse anche dal basso, come hanno dimostrato gli inquilini delle case Ater a Padova o gli studenti dell’università. Parallelamente può sviluppare in autonomia una propria idea di politica abitativa e un’attività di programmazione basata sulle risorse e sulle leve che ha a disposizione e che autonomamente può attivare (per esempio utilizzando i canali di finanziamento della comunità europea), nella direzione di promuovere azioni pubbliche innovative per la casa. Credere che il comune di Padova, come altri comuni, possa solo subire la politica regionale secondo una dinamica esclusivamente verticistica significa, implicitamente, ammettere l’inutilità dei suoi rappresentanti.