di Cecilia Beretta
Il 29 novembre è morto in un incidente d’auto un ragazzo che frequentava l’Università di Padova. I genitori pensavano che il giorno seguente si sarebbe laureato ma l’Università, secondo quanto ha riportato Il Gazzettino, ha fatto sapere che lo studente non sosteneva esami da un po’ di tempo e successivamente le indagini hanno dimostrato che lo schianto era stato effettivamente causato di proposito dal conducente.
Il fatto che l’Università abbia avuto la sensibilità di fare una dichiarazione di questo tipo a ridosso di un evento tanto tragico non verrà ulteriormente esaminato.
In questa sede non vorrei ricercare i perché di un gesto che non può essere spiegato, ridotto, incasellato a nessuna motivazione univoca ma indicare come la maggior parte delle testate nazionali non solo rinunci ad ogni senso del pudore, ma esplicitamente violi ogni possibile deontologia professionale quando tratta questi temi.
Trascrivo due incipit che ho ritenuto esemplificativi perché raccontano in maniera totalmente irrispettosa la morte volontaria di due studenti iscritti all’Università di Padova. I nomi sono stati rimossi perché ritengo che il dovere di cronaca troppo spesso si trasformi in un alibi per suscitare l’ennesimo click compulsivo.
ABANO TERME (PADOVA) – Come Jean Claude Romand, il protagonista de L’avversario di Emmanuel Carrère, la sfortunata serie di bugie R l’aveva disseminata per trovare la sua strada. Ma non è durata decenni. Il capolinea doveva essere qui, al ristorante Peraretto, un agriturismo nella quiete gentile dei colli euganei. Era tutto pronto per la sera di martedì 29 novembre: tavolata per quindici, menù del territorio; Cabernet e Serprino per innaffiare, il brindisi (La Repubblica, novembre 2022)
PADOVA. Sei uno studente fuori sede, hai 21 anni e ti ritrovi l’appartamento libero nel weekend di Capodanno a Padova. La cornice assume una colorazione diversa a seconda della prospettiva da cui la guardi. C’è chi avrebbe fatto carte false, L invece ha deciso che quella sarebbe stata la sua tomba. Si è seduto alla scrivania dove fino a qualche giorno prima divorava i testi di Ingegneria Biomedica, ha aperto il portatile e si è collegato alla sua pagina Facebook. Il testamento di dolore di questo studente nel fiore della vita è un biglietto prima scritto a mano e poi letto davanti alla videocamera del pc. Un baratro personale annunciato con un post sul diario virtuale. Poche righe che cancellano in un attimo tutto ciò che c’era prima, le foto dei tramonti, i paesaggi e tutte le altre diavolerie scaricate in rete. (Il Mattino di Padova, 2014)
Non è possibile evitare di sottolineare la pochezza fuori contesto di un autore di un quotidiano nazionale che decide di scomodare Carrère per indorare il proprio attacco da sciacallo, ma soprattutto vorrei che fosse messo a fuoco lo spiegamento di forze retorico che è qui dipanato. La punteggiatura a effetto, la visione astratta e bucolica di un Veneto pacificato, quieto e gentile come i suoi colli. La faciloneria strappalacrime del riferimento alla festa, al brindisi (cerca nomi di vini dei colli Euganei, per dare un tocco di contesto e di colore), la citazione del nome dell’agriturismo. Tutto concorre a provocare un senso di fastidio e di ingiustizia.
Anche nel secondo caso la sensazione non muta. L’utilizzo del tu generico per coinvolgere il lettore, il paragone tra l’appartamento e la trasformazione in tomba, l’utilizzo vomitevole della frase fatta “nel fiore della vita” e una conclusione altamente opinabile. Il gesto di L non cancella nulla, nessun tramonto, nel dolore, fortunatamente. Tutto rimane lì, non solo a causa del funzionamento dei social media, ma anche perché è questo quello che accade. Le cose belle restano.
Si potrebbero fare centinaia di esempi come i precedenti, non solo in Veneto e non solo in articoli riguardanti suicidi, ma anche di femminicidi e delitti di sangue. Viene da chiedersi: perché una notizia tragica deve essere trattata in questo modo? A beneficio di chi?
Lo scopo principale dei giornali, lo sappiamo, è vendere. A questo concorrono le 5 esse della notiziabilità (evidentemente un neologismo nato in ambito massmediale): Sesso, Sangue, Soldi, Spettacolo e Sport. Più la notizia sarà sordida, sanguinolenta, coinvolgerà del denaro, oppure degli sportivi che guadagnano molto denaro o, ancora, delle persone note a cui è successo qualcosa, qualsiasi cosa, più sarà vendibile. La stampa italiana non a caso è esplosa nel racconto del divorzio Blasi-Totti che coinvolgeva almeno 4 delle 5 esse a disposizione.
Tuttavia viene da chiedersi se i giornali non dovrebbero esistere anche per altro, per educare le persone ad informarsi senza titillare il nostro senso del macabro, la nostra curiosità indecente. Soprattutto quando si racconta una scelta totalmente privata come quella di togliersi la vita. Una scelta che resta opaca e inaccessibile anche per chi vive sotto lo stesso tetto, dorme nello stesso letto, è iscritto nella stessa classe.
Lavorare nella cronaca nera è evidentemente tremendo. Tutto il giorno i giornalisti che se ne occupano sono tenuti ad avere a che fare con carabinieri, ospedali, infermiere alle quali cercare di rubare un numero di telefono per contattare una nonna in lacrime, un padre in pezzi. Per non parlare delle ore spese appostati fuori dalla casa di una babysitter allibita o di un vicino di casa che muore dalla voglia di esporsi. Senza mai smettere di rincorrere le frasi pre-confezionate e i generici discorsi di uno psicologo locale o le vaghe dichiarazioni sul disagio giovanile di qualche malcapitata psichiatra che raramente hanno la possibilità di essere dirimenti, in poche righe e di fronte ad una situazione individuale di cui nulla realmente possono sapere.
Non ho una soluzione da proporre ma mi chiedo se esista il modo in cui il dovere di cronaca non diventi una violazione, soprattutto nei casi che coinvolgono i minori, minori di cui molto spesso non viene citato il nome, ma che vengono resi perfettamente riconoscibili attraverso l’inserimento pietistico di dettagli che nulla significano e nulla importano.
Vorrei capire se il dovere di cronaca possa incontrarsi con una sorta di delicatezza che non faccia ricorso ad una sensibilità presa in prestito, ma che trovi le sue radici al di fuori del senso di sollievo dovuto al fatto che “fortunatamente non era mio figlio” ma che si basi sull’idea che potenzialmente avrebbe potuto esserlo. Forse, con uno sforzo immaginativo che va di moda chiamare empatia, il o la giornalista avrebbe, ad esempio, potuto evitare di parlare dei vini con i quali si sarebbe innaffiata la festa che evidentemente non potrà mai esserci.
Vorrei concludere con una notazione sul modo in cui quest’articolo è stato scritto. Ne abbiamo parlato durante una riunione di redazione a ridosso dei fatti e inizialmente voleva essere un articolo contro l’Università-azienda, non solo di Padova, che sforna persone schiacciate dal senso di competizione, che modella studenti infelici, che instilla un senso di inadeguatezza o di sconfitta nei confronti di ogni ritardo, fallimento, disfatta.
Volevamo scrivere che sì, se l’Università è cambiata, è anche colpa del capitalismo ed è ad esso riconducibile il motivo per il quale le persone sono clinicamente depresse, ansiose e intollerabilmente angosciate. Sottolineando l’influenza simbolica e materiale che il sistema di produzione in cui siamo inseriti suscita su di noi, in alcuni casi fino a stritolarci.
Ovviamente crediamo anche in tutte queste cose. Ma al tempo stesso vogliamo fare informazione in maniera diversa e sappiamo che la “reductio ad capitalismum” non può funzionare. Che una scelta tanto drammatica non deve essere spiegata, forse nemmeno raccontata, ma solo ascoltata.
Come ci insegna il bel documentario di Marco Bellocchio Marx può aspettare, la sofferenza individuale non sempre è politica, non può essere sempre ridotta ad un malessere sociale. I sintomi soggettivi non sono, necessariamente, indotti dal neoliberismo.
Il dolore che alcune vite manifestano dovrebbe piuttosto metterci davanti alla profondità della nostra soggettività spaccata che non può essere spiegata tramite la famiglia in cui siamo nati, la scuola o l’università che abbiamo frequentato, i condizionamenti collettivi ai quali siamo stati sottoposti.
Accogliendo l’enigma radicale che non ci soddisfa, il puzzle delle spiegazioni possibili che non si completa, la vita che non può essere chiarificata e che non dovrebbe essere né drammatizzata, né edulcorata. E così la sua fine, soprattutto quando autonomamente decretata.
Senza caccia al colpevole, senza sensi di colpa imposti o attribuiti. Perché, come afferma il personaggio interpretato da Michel Piccoli in Gli occhi, la bocca dello stesso regista: “Ma chi ti credi di essere per sentirti responsabile? Dio?”