di Palestra Popolare Chinatown
Ritorna la nostra rubrica alla scoperta dello sport popolare diffuso e resistente nel Veneto. Stavolta abbiamo chiesto all3 ragazz3 della Palestra Popolaree Chinatown di raccontarci la loro esperienza all’interno di questo grande progetto che coinvolge sport e politica: lo sport popolare.
Cominciamo dal nome. “Quartiere cinese” era il modo in cui fin dalla prima metà del secolo veniva chiamato il rione Palestro, appena fuori dal centro storico di Padova; lo si usava per riferirsi spregiativamente, non tanto ad una presunta comunità asiatica, che non ha mai, di fatto, vissuto qui, quanto alle condizioni di sovraffollamento, povertà e scarsa igiene in cui versavano l3 abitanti della zona. Un quartiere popolare, dunque, che, trovandosi oggi al centro delle contraddizioni tipiche delle moderne logiche di valorizzazione dello spazio urbano, può per certi versi ancora dirsi tale: le case popolari sorgono poco lontane da eleganti villette, vecchi negozi e bar di quartiere sopravvivono in mezzo ai segni dell’incipiente gentrificazione, ragazzi e ragazze migranti si incontrano e giocano nella piazzetta in fondo alla strada centrale, mentre su tutto incombe la minaccia sempre più pressante della speculazione immobiliare.
Chinatown, un nome che vorrebbe racchiudere e risignificare questa storia e questo presente, di cui classe e razza continuano evidentemente ad essere due delle direttrici fondamentali.

La nostra palestra è nata nel febbraio 2018 con l’occupazione di un magazzino di proprietà dell’INPS abbandonato da anni. Parola d’ordine: sport per tutt3, contro ogni discriminazione ed esclusione. Abbiamo cominciato con la Boxe, poi ha lentamente preso forma il corso di Muay Thai, poi Brazilian Jiu Jitsu e infine è arrivata anche la danza con il corso di Salsa. Da quel piccolo nucleo di persone che hanno deciso di forzare una saracinesca abbassata da troppo tempo, siamo arrivati alla chiusura dell’anno scorso con circa un centinaio di iscritti all’associazione.
Ma in cosa si esprime, concretamente, il nostro essere una palestra popolare? L’aspetto più immediato, anche se non per questo scontato, è appunto quello dell’accessibilità economica: la palestra si autosostiene con le donazioni libere e spontanee dell3 atlet3, e la possibilità per tutt3 di allenarsi e partecipare in qualunque misura alla vita dello spazio viene prima di ogni altra considerazione. Molta gente che arriva qua, specialmente ragazz3 stranier3 del quartiere, non avrebbe modo di avvicinarsi al mondo delle arti marziali e forse di praticare sport in generale, se non fosse per palestre come questa (o, nel caso del calcio, per squadre come il Quadrato Meticcio, nostra vicina di casa). Offrire questa possibilità, specialmente nella misura in cui può rappresentare una via di uscita anche solo temporanea dalle dinamiche di marginalizzazione, razzializzazione e microcriminalità che affliggono parte di questo quartiere, significa già aprire un orizzonte, per quanto minimo, di intervento sociale.
Volendo essere precisi, però, “intervento” è una parola inadeguata per descrivere ciò che facciamo qua: essa veicola infatti una certa idea di esteriorità, di qualcuno che arriva “da fuori” per agire, magari in forza di un profilo professionale, all’interno di un contesto problematico. Questo è semmai ciò che dovrebbero fare le istituzioni, ma in un quartiere in cui un numero esorbitante di immobili appartenenti ad enti pubblici viene lasciato sfitto o inutilizzato per fini puramente speculativi, è abbastanza evidente che le istituzioni e i loro rappresentanti non abbiano particolare interesse a farsi carico dei problemi dell3 abitanti. In questo vuoto, dunque, e, pur continuando ad aprirsi a tutta la città, la nostra palestra vorrebbe radicarsi il più possibile nel tessuto sociale del quartiere, divenirne una componente familiare, rispondere come meglio può ai disagi dell3 abitanti più giovani, ma sempre tenendosi ben lontana da ogni sguardo paternalistico o puramente assistenziale.

Non è un compito facile e i progressi non sono affatto lineari: incomprensioni, litigi, delusioni capitano, ma ci consentono di continuare ad interrogarci sul senso di ciò che facciamo e sul modo in cui lo facciamo. Insieme ai fallimenti, del resto, arrivano anche le soddisfazioni: ragazze e ragazzi che si appassionano alle varie discipline, nuove persone che prendono parte all’assemblea della palestra, o semplicemente iscritt3 che anno dopo anno si affezionano e continuano a presentarsi. Nel complesso, un senso di crescita, di graduale trasformazione collettiva, di relazioni impreviste che nascono: nel medio-lungo periodo, spendere tempo, energia ed affetti qui cambia qualcosa dentro chiunque.
Tornando allo sport in sé e per sé, non è solo l’accessibilità economica che fa la differenza rispetto alle strutture tradizionali. Il come si fa sport, e specialmente sport da combattimento, qua dentro, per noi è un punto decisivo. L’immagine che comunemente si ha del mondo delle arti marziali è infatti satura di preconcetti e stereotipi che contribuiscono a tenere a distanza moltissime persone, convincendole di “non essere tagliate” per quegli sport mentre sarebbero in realtà perfettamente in grado di praticarle e trarne grandi benefici. Discipline come Boxe o Muay Thai, purtroppo, passano come roba violenta per gente tosta, probabilmente repressa e disposta a farsi male gratuitamente. Tutto questo, ovviamente, è semplicemente falso: in linea di principio, le arti marziali insegnano anzitutto il rispetto del corpo proprio e altrui, l’umiltà, l’autocontrollo e la consapevolezza di sé. Tuttavia (ed è un grosso “tuttavia”), bisogna riconoscere che quegli stessi stereotipi non nascono dal nulla, ma sono alimentati da un modo di insegnare, praticare e vivere gli sport da combattimento che, ancora maggioritario, è imbevuto di machismo, spirito di sopraffazione e iper-competitività. E il boom di popolarità che le arti marziali stanno conoscendo grazie a circuiti miliardari e grondanti testosterone come UFC e One Championship non aiuta certo a sviluppare un’immagine alternativa di questo mondo.
E’ anche “da dentro”, insomma, che si finisce per fare delle arti marziali roba da super-uomini, o anche solo da maschi arrabbiati, bisognosi di sfogarsi e spaccare qualcosa o qualcuno. Questo processo, tuttavia, è non solo nocivo per tutt3, ma anche interamente evitabile: ecco perché il posizionamento transfemminista che ci sforziamo di mantenere (come molte altre realtà di sport popolare, per fortuna!) può davvero rappresentare una boccata di aria fresca. “Ci sforziamo”, appunto, perché tale posizionamento non rappresenta affatto un dato acquisito, ma piuttosto un obiettivo da guadagnare e costruire passo dopo passo nella pratica, in un processo che richiede la cura e l’attenzione di tutt3 e del quale senz’altro siamo solo all’inizio.

Come si traduce nel concreto questo posizionamento? Anzitutto nel tentativo di costruire un ambiente accogliente, solidale, privo di giudizi e pregiudizi, in cui ciascun3 possa prendere coscienza dei condizionamenti che ha interiorizzato nel rapporto col corpo proprio e altrui, per riscoprirne e goderne tutte le potenzialità, o, se vogliamo citare il Filosofo, la potenza. “ È stato pazzesco per me scoprire solo a quest’età che, come donna, oltre che figa, potevo essere anche forte”. Così ha riassunto il senso del suo percorso qui una compagna che ormai frequenta la palestra da diversi anni. A qualcuno potrà sembrare un’illusione, ma per noi una forza come questa, che prende vita in un processo collettivo, per quanto circoscritto, di liberazione, è ben diversa dalla forza che si sviluppa aspirando soltanto all’esaltazione dell’ego e alla sopraffazione dell’altro.
Ad ogni modo, sanzionare comportamenti e battute sessiste, omotransfobiche o abiliste (oltre che, ovviamente, razziste, ma il rischio in questo caso è più basso), così come criticare il ricorso a stereotipi di genere, è in quest’ottica il primo passo fondamentale. Ci si allena tutt3 insieme e allo stesso modo, indipendentemente dal genere, e le inevitabili differenze tra i corpi e le capacità sono qualcosa di cui ciascun3 deve di volta in volta farsi carico per la buona riuscita dell’allenamento. Come già dicevamo, gli sport da combattimento hanno più di altri il grande dono di aiutare a costruire una consapevolezza della propria fisicità, del proprio corpo e dello spazio che esso occupa. Allenarsi in maniera “mista”, mischiando cioè non solo genere ma anche fisicità ed esperienze, incoraggia anche l’atleta espert3 a confrontarsi con principianti, di modo che entramb3 possano percepire i propri limiti (se sono più forte di te mi controllo e vado al tuo passo) e crescere insieme.
Qualcuno potrebbe dedurre che questo significhi di fatto allenarsi in maniera blanda e poco rigorosa, per evitare di mettere a disagio chi è meno portato a faticare: non è così. Si fatica eccome, e allo stesso modo ci si esorta, ci si congratula, ci si aiuta, ci si corregge, e, quando serve, ci si prende anche in giro: imparare a non prendersi troppo sul serio è un elemento decisivo, specie per i maschi. Ma è altrettanto importante, dopo qualche mese, che quell’inconfondibile misto di dolore e profondo orgoglio arrivi per la prima volta a manifestarsi sui volti di chi osserva i lividi tipici della Muay Thai colorargli di nero le tibie dopo l’ennesima sessione di calci al sacco.

In tutto ciò, comunque, un rischio ben presente resta quello di perdere lentamente di vista la dimensione politica di ciò che si fa qui, e lasciarsi in qualche modo risucchiare dalla routine degli allenamenti, dal cristallizzarsi dei rapporti, dall’aspetto puramente organizzativo e gestionale che la palestra comunque richiede. Ci sono le pulizie settimanali, gli allenamenti da rinnovare e adattare, gli sparring day da organizzare. Non è facile trovare le energie e l’attenzione per evitare giorno dopo giorno che quanto abbiamo detto finora resti soltanto sulla carta e sicuramente da questo punto di vista, così come da molti altri, abbiamo ancora molto da imparare. Cinque anni di attività, in fondo, di cui circa due ostacolati dalla pandemia, non sono molti: rispetto ad altre realtà di sport popolare questa palestra è giovane e ancora in evoluzione.
A proposito di evoluzione, però, ci teniamo a concludere segnalando che belle novità sono spuntate proprio in questo autunno: la vena teatrale che da tempo percorre in maniera sotterranea la palestra, usata come spazio laboratoriale e per le prove da numerose compagnie, è infine emersa dando alla luce la prima rassegna di teatro popolare Chinatown, che si protrarrà con un appuntamento mensile fino a marzo. Inoltre, in occasione dei 50 anni del golpe in Cile, abbiamo organizzato il nostro primo cineforum: quattro serate dedicate all’approfondimento di questo grande spartiacque storico attraverso documentari di autori cileni.
Si trova un po’ di tutto qui, insomma; a qualcuno potrà apparire dispersivo, ma forse bisognerebbe soltanto gioire nel vedere un magazzino in disuso, sottratto alla speculazione e restituito alla collettività, animarsi di tutta questa vita. Noi, di certo, la prendiamo come un’ottima ragione per restare e continuare: è scritto sul muro fuori, del resto… aquí no se rinde nadie.
