di Caterina De Filippis e Valentina Lazzara
Ad agosto 2023 Lampedusa ha affrontato una nuova “emergenza” sbarchi, che ha comportato un rapido trasferimento dei migranti nel resto della Penisola. A Padova e provincia, per far fronte al numero degli arrivi, le persone sono state accolte in alcune palestre, nell’attesa di essere inserite nel sistema di accoglienza. I posti in accoglienza però mancano ed è per questo che è stato allestito un hub all’aeroporto Allegri, dove al momento le persone vivono e dormono in dei container. Ma come funziona il sistema di accoglienza in Italia, anche alla luce del nuovo Decreto Cutro? Per fare un po’ di chiarezza abbiamo deciso di parlarne con chi vive questa realtà ogni giorno, raccogliendo le voci di alcuni operatori di accoglienza che lavorano nel padovano tra il CAS e il SAI.
- Il sistema di accoglienza si compone di più livelli e figure. Esistono il CAS (Centro di Accoglienza Straordinaria) e il SAI (Sistema di Accoglienza e Integrazione), che con servizi più o meno mirati lavorano con le persone accolte e le accompagnano nel percorso di integrazione. Voi, in particolare, lavorate all’interno di un progetto CAS come operatori di accoglienza. Di che cosa vi occupate?
La risposta non è facile; a molti di noi, prima di iniziare a lavorare in accoglienza, non era ben chiaro come questa funzionasse. Come accennato nella domanda, quando si parla di sistema di accoglienza italiano, bisogna innanzitutto fare una distinzione tra progetto CAS e progetto SAI. L’ accoglienza in Italia, infatti, si struttura su due livelli, che rispondono a mandanti/organi differenti: nel caso del CAS, la cosiddetta prima accoglienza, l’ente deputato all’inserimento delle persone richiedenti nelle strutture adibite è la Prefettura. Nel SAI, invece, che è la seconda accoglienza, è l’ente locale che aderisce al progetto e tramite bando lo affida a realtà del terzo settore.
I Centri di Accoglienza Straordinaria sono progetti che non si occupano di vera e propria integrazione, ma si limitano a erogare dei servizi che aiutino la persona ad agire nel suo diritto. Al contrario di altre regioni, in Veneto si lavora in contesti di micro-accoglienza, le persone richiedenti non sono inserite in grandi hub, ma in appartamenti di massimo 8-9 persone, diffusi in tutta la città. Noi operatori CAS siamo il punto di giunzione tra la persona appena arrivata in Italia e il territorio in cui si inserisce. Il nostro è un ruolo di cura, ma non lavoriamo per i richiedenti, bensì con loro, affiancandoli nelle faccende quotidiane. Ci assicuriamo che gli appartamenti in cui vivono siano a norma, li accompagniamo agli appuntamenti sanitari e legali, compriamo le medicine di cui hanno bisogno; quando individuiamo situazioni di particolare vulnerabilità ci premuriamo di segnalarle ai servizi di supporto sociale e psicologico,li sproniamo a imparare la lingua e alla ricerca di un lavoro. Il numero di appartamenti che seguiamo varia, si va dai 3 ai 5, ma dipende anche dal numero di progetti in cui siamo inseriti e dalle ore che a questi dedichiamo da contratto.
Alcuni di noi lavorano sia in CAS che in SAI. Essere operatore SAI è diverso: non si è solo un collegamento tra persona e servizi, ma una vera e propria figura di riferimento, quello che si fa è affiancare la persona nella costruzione di una solida rete sociale. Assieme all’assistente sociale, il beneficiario compila un PAI, Piano Assistenziale Individualizzato, nel quale si cerca di costruire assieme un progetto che si rifaccia ai suoi bisogni e desideri e che abbia come obiettivo lo sviluppo di autonomia personale e indipendenza.
Ufficialmente i due progetti, CAS e SAI, dovrebbero essere consequenziali, ma la maggior parte delle volte uscire dal CAS non significa automaticamente un inserimento in SAI. I posti in CAS sono nettamente superiori a quelli del SAI, e ciò è dovuto anche alla natura volontaria di adesione degli enti locali a quest’ultimo. Il CAS nasce come qualcosa di emergenziale, in risposta alla mancanza di posti in accoglienza e alla necessità di “parcheggiare” le persone richiedenti nell’attesa che la loro domanda di asilo sia esaminata; solo una volta ottenuto lo status di rifugiato è possibile, infatti, accedere al SAI. In realtà questo primo livello di accoglienza è diventato strutturale: la maggior parte delle persone con cui lavoriamo è dentro da anni, tant’è che noi diventiamo dei veri e propri agenti di integrazione; non ci limitiamo a fornire i servizi di base, ma ne forniamo anche altri che vanno al di là delle nostre competenze, e spesso questo si traduce in una mole di lavoro superiore a quella prevista da contratto e da bando. Inoltre, come accennato in precedenza, accedere al SAI non è automatico, è un sistema ad imbuto, in cui pochi vanno avanti, e non è detto che comunque vogliano farlo: alcuni rifiutano l’ingresso in SAI perché hanno progetti migratori diversi.
- Questa estate i diversi servizi di accoglienza si sono trovati a gestire un afflusso emergenziale, con numerosi arrivi da Lampedusa. A Padova le persone accolte sono state smistate in tre palestre (Falconetto in Forcellini, Duca degli Abruzzi a Brusegana, Feriole a Selvazzano), nell’attesa di trovar loro un posto in accoglienza. Di fronte a eventi del genere, come cambia il vostro lavoro? Quali difficoltà incontrate, soprattutto nel riuscire a gestire non solo l’emergenza, ma anche l’accoglienza “ordinaria”?
In teoria parlare di emergenza è la narrazione meno opportuna. Il fenomeno migratorio è continuo da anni: basta lavorare in CAS un anno per capire che non si tratta di un evento straordinario, ma che gli arrivi sono continui. Semmai, quello che è accaduto questa estate è la rappresentazione della mala gestione dei flussi migratori, a cui si aggiunge un indirizzamento dei fondi errato. In più, le palestre non sono un luogo adatto, sono state scelte all’ultimo perchè non si è fatto il lavoro che a monte va fatto – creare in ogni territorio e città delle strutture già pronte ad accogliere degli arrivi non previsti. Il preavviso in CAS quando arrivano le persone è brevissimo: a volte si tratta di essere avvisati un giorno prima e con “l’emergenza” arrivano persone indipendentemente dalla presenza di posti liberi in accoglienza. Il lavoro di accoglienza non comincia solo con l’arrivo di queste persone, ma ha inizio prima, con l’allestimento delle strutture adibite ad accoglierle: nel caso delle palestre si è dovuto procedere in meno di 24h a recuperare brandine, kit di primo ingresso, che comprendono lenzuola, asciugamani e un cambio di vestiario; è stato necessario procurare anche prolunghe per caricare telefoni, essendo le prese in una palestra poche, e ventilatori che rendessero il caldo di agosto meno soffocante dentro quegli spazi. All’interno delle palestre ai ragazzi non poteva essere data autonomia e ci doveva essere una figura di sorveglianza 24h su 24h. La cosa paradossale è che quando le persone sono arrivate in palestra non sapevamo nemmeno se fossero libere di uscire a fare una passeggiata. Noi operatori ci scusavamo per le condizioni in cui queste persone venivano accolte dopo un viaggio durato anni e denso di sofferenze e ostacoli: alcune di loro necessitavano di cure mediche, perché presentavano ferite dal viaggio, cure fornite in parte dalla Croce Rossa; altre ci domandavano quanto sarebbero dovute restare in palestra e cosa ne sarebbe stato di loro. C’era una comune e grave mancanza di informazione. Logicamente a risentirne è stata anche l’accoglienza ordinaria: un’emergenza in pieno agosto, con metà del personale in ferie, con turni fissi di 6h, ha comportato una riduzione del tempo a disposizione per la gestione degli appartamenti: mancavano risorse fisiche e mentali per poter garantire un passaggio nelle case almeno una o due volte a settimana; alcuni operatori non sono riusciti a passare anche per due settimane.
Con la gestione delle palestre, il nostro lavoro è diventato più simile al modo in cui una persona si aspetta/immagina l’accoglienza: un servizio centralizzato di mera erogazione dei pasti in grandi centri da cui le persone poi vengono smistate. Oltre alle palestre era stata vagliata anche l’ipotesi di creare delle tendopoli in campi da calcio. Se alcune di queste persone sono state, poi, inserite nella micro-accoglienza, come quelle della palestra Falconetto, altre sono state spostate all’aeroporto Allegri, dove attualmente vivono in dei container, e dove probabilmente resteranno per tutto l’inverno; in un luogo lontano dal centro cittadino, privo di servizi e dismesso da anni.
- Come già dicevamo, in Italia, e in Europa, al fenomeno migratorio viene spesso data una risposta emergenziale; lo vediamo ad esempio con il recente decreto Cutro, all’interno del quale troviamo numerose modifiche, tra cui il taglio di operatori legali, psicologi e insegnanti di italiano all’interno dei progetti CAS. Che cosa comporterà questo? Quali sono gli strumenti che mancano per un’accoglienza che sia reale e tenga conto delle necessità delle persone che arrivano e dei territori che le accolgono?
Quello che manca è la volontà politica, non solo a livello nazionale, ma in primis a livello internazionale. Oggi in Europa continuiamo ad assistere a una continua violazione dei diritti delle persone migranti, dentro e fuori i nostri confini. A ogni strage in mare corrisponde un decreto emergenziale, e così via, in un cortocircuito. Inoltre, è bene specificare che i morti in mare sono solo una parte, forse la più visibile; ma di frontiere si muore quotidianamente anche sulla rotta balcanica. Finché non si cambieranno i Trattati Europei, a partire da quello di Dublino, che blocca le persone nei Paesi in cui fanno la domanda di protezione, che coincidono con quelli di primo approdo, come Italia e Spagna, e finchè non si creeranno vie legali di movimento, le persone continueranno a morire o, una volta arrivate in Italia, a restare bloccate nel limbo del sistema di accoglienza europeo.
In particolare, con il Decreto Cutro in Italia verranno tagliati numerosi servizi alla persona, fondamentali per fornirle gli strumenti necessari alla vita qui in Italia. Vengono tagliati i fondi per la scuola di italiano, per gli operatori legali, per gli psicologi. Al momento sul territorio padovano i CPIA sono pieni, togliere alle Cooperative la possibilità di erogare lezioni di italiano significa affaticare un servizio (quello pubblico) già in difficoltà. Nelle Questure facciamo fatica noi per primi a fare un passaporto; come possiamo pensare che persone arrivate da 1-2 mesi in Italia possano essere autonome nell’iter burocratico necessario a ottenere i documenti? Questo Decreto riduce l’accoglienza a vero e proprio assistenzialismo. Inoltre, promuove l’implementazione e la costruzione di nuovi CPR, Centri per Rimpatri, che sono luoghi di detenzione amministrativa: a finirci sono soprattutto persone il cui “reato” è la mancanza di un documento o di un suo rinnovo.
Il SAI, e il precedente SPRAR, rappresentano un modello virtuoso di accoglienza, che funziona, che non ha grandi costi per essere sostenuto, e questo non lo diciamo noi; è riconosciuto internazionalmente; eppure la direzione presa è un’altra.
Sempre a causa di questo decreto, tante persone si troveranno a non riuscire più a convertire i propri permessi di soggiorno: prima alcuni di questi potevano essere convertiti in permessi di lavoro, adesso questo non sarà più possibile; ci saranno persone che hanno iniziato il loro percorso di integrazione, che si sono costruite una rete sul territorio, che improvvisamente si ritroveranno in un impasse legale, con l’unica conclusione che molte di queste finiranno per strada. Quello che si vuole creare è illegalità: agendo politicamente in questo modo, viene tolta la speranza e la possibilità di fare un progetto che faccia vera integrazione, si perde il senso di quello che noi operatori facciamo; anche perchè i soggetti interessati dal decreto sono persone che non hanno gli strumenti – linguistici e materiali – per capire cosa sta succedendo loro e trovarsi senza documenti significa non avere accesso ad alcun tipo di servizio statale. Viene creato un problema che poi diventa terreno fertile per una retorica di tipo securitario.
- A 10 anni da una delle stragi più gravi del mar Mediterraneo, quella del 3 ottobre 2013, che ha visto la morte di 368 persone, la situazione non sembra migliorata. Le persone continuano a morire in mare, i confini continuano a essere esternalizzati e i fondi per l’accoglienza tagliati, secondo voi quali sono le possibili prospettive future dell’accoglienza territoriale?
A 10 anni dalla strage del 2013, abbiamo assistito a un’altra strage, quella di Cutro, che ha visto la morte di quasi 100 persone, di cui un terzo bambini; la situazione non è migliorata e finché verrà portato avanti un certo discorso politico, anniversari come questo continueranno a succedersi.
Per quanto riguarda il nostro lavoro di operatori, le cose da migliorare nell’accoglienza territoriale sono tante. Bisogna creare dei luoghi dove l’accessibilità a tutti i processi burocratici sia facilitata, ammortizzando il peso delle Questure e delle Prefetture e accorciando i tempi di attesa per documenti e, nel caso di diniego, per ricorsi. Bisogna assumere personale e formare le persone che erogano servizi assistenziali, sanitari e scolastici, che devono essere a conoscenza di quali sono i canali e le procedure da seguire quando si parla di persone migranti, facilitando i rapporti tra uffici, istituzioni e servizi. Ti faccio un esempio: con l’Emergenza Ucraina erano stati stanziati dei fondi per l’inserimento scolastico dei bambini, grazie ai quali le scuole potevano richiedere dei mediatori culturali in supporto; ma molte scuole non lo sapevano e non ne hanno fatto richiesta. Anche gli ospedali hanno il diritto di richiedere mediatori per effettuare le visite, ma sono informazioni che spesso non passano, con la conseguenza che i servizi vengono erogati male.
Bisogna smettere di trattare la migrazione come un fenomeno emergenziale: è necessario investire nell’accoglienza diffusa, permettere a chi arriva di conoscere la città e la comunità che la abita, e di farsi conoscere, di essere visibile: non è nei grandi hub, lontani dai centri cittadini, che si fa integrazione. Bisogna investire in politiche sociali e abitative attive: un esempio a portata di mano, in Arcella, è quello della Casa di Quartiere del Marchesi, dove a servizi pubblici come anagrafe e CPIA, sono affiancati spazi che è possibile prenotare per attività. Non si tratta di creare posti per le persone migranti e basta, ma di creare spazi di socialità per tutta la comunità. E, infine, bisogna lavorare sulla comunicazione e sulla sensibilizzazione e ribaltare una narrativa che tende a criminalizzare e coltivare diffidenza.