di Caterina De Filippis e Valentina Lazzara
Dopo aver ascoltato le voci degli operatori di accoglienza, riprendiamo le fila del discorso intorno alle migrazioni e alle politiche governative attuate in risposta ai flussi. Riportiamo la testimonianza di chi si occupa di accompagnare le persone richiedenti nell’iter burocratico previsto per la richiesta e l’ottenimento della protezione. L’operatore legale è una figura di fondamentale importanza, che però, con la Legge 50 (Decreto Cutro) viene tagliata dai servizi CAS (Centri di Accoglienza Straordinaria), assieme alla scuola di italiano e alla figura degli psicologi, indebolendo un sistema già fortemente in difficoltà.
- Ci puoi spiegare in breve qual è l’iter burocratico per la richiesta di asilo in Italia?
Al momento dell’arrivo in Italia, che sia per via marittima o via terrestre, lo straniero che vuole chiedere asilo può manifestare verbalmente la volontà di richiedere la protezione internazionale alla polizia di frontiera; domanda che in nessun modo può essere rifiutata una volta manifestata. Da quel momento parte l’iter di richiesta asilo, indipendentemente dal fatto che sia stata formalizzata o meno; la formalizzazione infatti può avvenire in un secondo momento. Prendendo ad esempio gli sbarchi, che rappresentano la forma più evidente e mediaticamente coperta degli arrivi in Italia, una volta sulla terra ferma il richiedente svolge un colloquio di prima identificazione, al quale, sulla carta, dovrebbe presenziare un mediatore; la presenza di quest’ultimo, però, non è sempre garantita.
Durante il colloquio viene compilato il “foglio notizie” prestampato, in cui il funzionario, con l’aiuto del mediatore, trascrive i dati della persona e la volontà di chiedere asilo o meno. Da quel momento, la persona non può più essere espulsa.
In Italia gli sbarchi avvengono principalmente a Lampedusa; successivamente le persone vengono smistate nelle diverse regioni. A quel punto, avendo indicato non solo la richiesta di asilo ma anche lo stato di indigenza, quindi la necessità di essere accolti in un progetto di accoglienza governativo in quanto privi di mezzi di sostentamento, le persone vengono inserite nei CAS [Centri di accoglienza straordinaria, N.d.R.], di gestione della Prefettura. All’interno dei CAS l’operatore legale procede con dei colloqui insieme alla persona in questione; questi prevedono una prima informativa legale: viene spiegato in cosa consiste l’iter di richiesta asilo, si rivedono i passaggi già avvenuti fino a tutti i possibili esiti della domanda. Possiamo quindi affermare che l’operatore legale è una figura di supporto ed è il tramite tra la persona richiedente e la Questura.
A questo punto, l’operatore legale inoltra la richiesta di appuntamento per la formalizzazione del modello C3 e il fotosegnalamento. Il modello C3 è un modulo che viene dato dalla Questura al richiedente asilo e per mezzo del quale si formula ufficialmente la domanda di protezione internazionale. Spesso, prima dell’appuntamento, ne viene stilata una bozza assieme alla persona interessata, in modo che sia preparata al momento dell’incontro vero e proprio, quando le verranno fatte domande sui dati anagrafici, sullo stato di famiglia, sui motivi che l’hanno spinto a lasciare il Paese d’origine e sui motivi per cui non vuole fare ritorno.
Lo step successivo è la richiesta di essere ascoltati dalla Commissione Territoriale: i tempi dovrebbero essere brevi, ma ad oggi si aspettano mesi, in alcuni casi anni, a causa dell’elevato numero di domande. La Commissione Territoriale convoca la persona tramite Questura o Centro di Accoglienza e questa viene ascoltata, sempre alla presenza del mediatore linguistico culturale. Durante il colloquio può essere presente una figura di supporto (un medico, uno psicologo), purché il richiedente ne faccia richiesta esplicita e la Commissione accetti.
Gli esiti della Commissione possono essere diversi: il più roseo prevede il riconoscimento dello status di rifugiato (che consiste in un permesso di soggiorno di cinque anni, rinnovabile e convertibile, solo se la persona rientra in una delle cinque casistiche riconosciute dalla Convenzione di Ginevra del 1951); ma la richiesta può anche avere esito negativo.
- Cosa succede nel caso in cui la richiesta di protezione riceva esito negativo?
Se la Commissione Territoriale decide che il richiedente non ha diritto di protezione, l’esito negativo ha validità di decreto di espulsione, già attuabile. La persona, a questo punto, ha tempo trenta giorni per fare ricorso, aprendo un procedimento giurisdizionale, per il quale, quindi, si passa attraverso la valutazione di un giudice, con patrocinio gratuito. I ricorsi vengono presi in carico dal Tribunale Civile del capoluogo di Regione; nel caso del Veneto si tratta di Venezia. Viene richiesta una rivalutazione della domanda di protezione; è intuibile che le tempistiche per fare questo siano molto lunghe, per cui il richiedente, nel frattempo, continua ad avere diritto di restare in CAS, in qualità di ricorrente, e con il diritto a un permesso di soggiorno per richiesta di asilo di sei mesi, rinnovabile ogni sei mesi e che prevede la possibilità di lavorare.
Nel caso di ulteriore esito negativo, si può decidere di andare in Cassazione, anche se in tale procedura non è previsto il patrocinio gratuito, per cui si tratta di spese importanti, tra avvocati e bolli, che sono inaccessibili ai più per ovvi motivi economici. Altre due strade percorribili sono la domanda reiterata e il riesame, che prevedono una rivalutazione del caso, presentando una nuova domanda o riaprendo il fascicolo dall’esito negativo, alla luce di nuovi elementi sopraggiunti. Per accedervi, però, è necessario che la persona dimostri il motivo per cui non ha potuto presentare tali elementi in precedenza.
- Con l’emergenza di agosto, numerose persone sono state accolte provvisoriamente nelle palestre e negli hub distribuiti sul territorio, in attesa di essere inserite in accoglienza. Da un punto di vista legale, l’arrivo di tante persone in periodi molto brevi cosa comporta? In cosa consistono le procedure accelerate e qual è il loro impatto reale?
Le procedure accelerate hanno poco a che vedere con il numero di sbarchi, perché vengono applicate in presenza di particolari condizioni e hanno come obiettivo quello di assicurare una valutazione più rapida della domanda, prendendo in considerazione fattori a priori, come, per esempio, la provenienza da un Paese considerato sicuro. Provenire da un Paese sicuro può essere considerato motivo di infondatezza della domanda di protezione, poiché non sussistono le condizioni di pericolo collettivo, per cui il richiedente dovrebbe dimostrare la sussistenza di fattori che lo espongono a un evidente pericolo per la sua situazione particolare.
Quando parliamo di procedure per far fronte all’emergenza sbarchi, può essere più utile fare un parallelismo con l’esperienza dell’emergenza Ucraina. Nel caso di un numero di sbarchi particolarmente intenso e di difficile gestione la normativa prevede che lo Stato possa affermare che queste persone provengono tutte da una situazione più o meno analoga e quindi può dar loro un tipo di protezione che le accomuna, così da snellire le procedure burocratiche. Questo tipo di presa in carico era già avvenuta, anche se non proprio negli stessi termini, nel 2014 con l’emergenza Nord Africa: lo Stato non era preparato a un tale numero di arrivi, così che era stata data la protezione umanitaria a tutti. Nel 2014, però, mancava l’impianto di accoglienza del terzo settore come lo conosciamo oggi, per cui moltissime persone si erano ritrovate con in mano un titolo di soggiorno regolare, ma non in accoglienza, perché, una volta ricevuta la protezione, non avevano più titolo per starci; quindi prive di un alloggio o di una rete di sostegno, in gran parte sono finite per strada. Risolvendo un problema, insomma, ne è stato creato un altro. Con l’emergenza Ucraina, invece, ai richiedenti è stata applicata la normativa che, in caso di flussi massicci, prevede il rilascio di una protezione temporanea, che al momento della consegna non comportava automaticamente la revoca dell’accoglienza.
- Tra le numerose modifiche introdotte dall’attuale Legge 50 (Decreto Cutro) troviamo l’eliminazione della possibilità di convertire il permesso di soggiorno per protezione speciale, cure mediche e calamità in permesso per lavoro. Cosa significa questo per una persona che ha avviato un percorso di integrazione, trovando un lavoro e costruendosi una rete sociale sul territorio? A cosa rischia di andare incontro?
La Legge 50 ha apportato molte modifiche al Sistema di Accoglienza; è stata tolta, sì, la possibilità in toto di convertire il permesso per cure mediche in permesso di lavoro, ma lo stesso non si può dire del tutto per la protezione speciale: non è vietato convertire il permesso di soggiorno per protezione speciale in permesso di soggiorno per lavoro subordinato. Anche se molte Questure stanno seguendo questa prassi, negando quindi la possibilità di conversione, si tratta di una pratica illegittima. Mi spiego meglio: il permesso di soggiorno per protezione speciale può ancora essere convertito in permesso per lavoro; a non poter essere convertito è il pds di protezione speciale concesso successivamente all’entrata in vigore della Legge 50. Inoltre, bisogna vedere anche a cosa si riferisce la protezione speciale considerata. Il Decreto Salvini, infatti, ha eliminato la protezione umanitaria spacchettandola in diversi tipi di protezione speciale, come quella per calamità naturali, per azioni di particolare valore civile, per integrazione, per rinnovo da precedenti protezioni umanitarie. Questo rende la possibilità di rinnovo ancora più complessa. Lo scenario più plausibile è che il rinnovo della protezione speciale, di qualunque tipo essa sia, avvenga per gli stessi motivi che hanno portato il richiedente ad averla; si tratta comunque di rinnovi della durata di un anno, successivamente convertibili in permesso di lavoro; ma, ripeto, la possibilità di rinnovo è prevista solo per le protezioni speciali rilasciate prima della Legge 50.
- Con l’Emergenza Ucraina si è visto che attivare dei percorsi di accoglienza più rapidi ed efficaci è possibile, quali sono secondo te gli strumenti da mettere in campo per poter rendere l’iter di richiesta e ottenimento di un permesso più funzionali?
L’argomento è spinoso e complesso. L’emergenza Ucraina è stata diversa dai flussi migratori a cui siamo ormai abituati; è un fenomeno che è stato molto emotivo e che ha visto un’attivazione non indifferente di tutta la società civile (in primis per la vicinanza tra Ucraina e Italia, a differenza di altri paesi che vengono sentiti lontani sia geograficamente che culturalmente). Il percorso legale per loro è stato molto più snello, non solo per la direzione dall’alto, che ha spinto per accelerare le pratiche burocratiche, ma anche perché abbiamo saltato tutta la fase di richiesta asilo, C3 e convocazione in Commissione. L’attivazione di pancia delle persone ha permesso di trovare posti in accoglienza più agilmente e velocemente, perché, banalmente, il proprietario di casa è molto più disposto a dare in affitto l’appartamento all’utenza ucraina, che, per esempio, a un’utenza di origine nordafricana. Ma come possiamo prendere il buono di quello che è avvenuto per accoglienza ucraina e trasportarlo nel CAS ordinario? Un elemento interessante potrebbe essere quello di lavorare con l’utenza su aspetti legati alla gestione abitativa, come per esempio creare rapporti con il vicinato e una rete sociale attorno alla persona richiedente. Per quanto riguarda l’aspetto burocratico, le Questure sono sotto organico perennemente, sarebbe necessario assumere più personale: l’utenza non può aspettare mesi per avere appuntamenti e tutto questo è ben evidente; basti pensare che persone arrivate ad inizio agosto hanno ricevuto il primo appuntamento per fotosegnalamento e per la stesura del C3 per metà dicembre! Inoltre, il personale andrebbe formato adeguatamente, come avvenuto con le Commissioni: fino al 2016/2017 erano composte da persone provenienti da diversi enti e istituzioni (UNHCR, rappresentante ente locale, rappresentante questura, rappresentante prefettura) con un livello di formazione e competenze non omogeneo. È stato, quindi, indetto un bando nazionale per i funzionari delle Commissioni, con la stesura di una graduatoria di persone che avevano una buona base di formazione, più una specifica su aspetti psicologici ed emotivi (necessarie per l’approccio da tenere in Commissione). Ad oggi le Commissioni funzionano meglio e lo stesso dovrebbe accadere nelle Questure. In conclusione, si dovrebbe lavorare su più fronti, sulle formazioni burocratiche e sulla sensibilizzazione della società. Ma chi lavora nei CAS sa bene che non c‘è il tempo materiale per formarsi, e che le formazioni rimangono a discrezione della Cooperativa in cui si lavora; con la conseguenza che si creano disservizi che ricadono sulle persone accolte.