Le lavoratrici e i lavoratori di ArcelorMittal hanno detto basta.
Lunedì 25 maggio è stato indetto sciopero dai sindacati metalmeccanici per protestare contro le politiche industriali e la gestione autoritaria del gruppo siderurgico ArcelorMittal in concomitanza dell’incontro fra le parti avvenuto in videoconferenza.
La complessa questione riguardante il futuro dell’azienda siderurgica ex-Ilva determina ormai da anni l’operato e la progettualità industriale di ogni governo. Le contraddizioni e le profonde difficoltà che caratterizzano i grandi impianti sparsi per il territorio italiano (Genova, Novi Ligure) e, soprattutto, la mai risolta questione Taranto hanno portato, con l’emergere dell’emergenza sanitaria e sociale, all’acutizzarsi di problematiche occupazionali, produttive e ambientali.
Sin dalla sottoscrizione del primo accordo del 6 settembre 2018 tra sindacati, governo italiano e ArcelorMittal, l’azienda del magnate indiano ha disatteso ripetutamente le promesse fatte. Una gestione aziendale fondata sulla totale assenza di confronto con i lavoratori, la graduale espansione della cassa integrazione e la totale noncuranza nei confronti delle problematiche legate all’ambiente hanno da subito mostrato la possibilità non troppo remota che ArcelorMittal programmasse un graduale smantellamento e abbandono degli impianti.
Una politica, quest’ultima, non nuova per il gruppo franco-indiano.
Nell’ultimo periodo, complice l’emergenza sanitaria, il ricatto occupazionale e l’autoritarismo nelle scelte aziendali hanno condotto a una repentina impennata della cassa integrazione e all’accelerazione nei processi di smantellamento dei diversi impianti.
Siamo andati a Legnaro, sede di ArcelorMittal per la lavorazione dei laminati d’acciaio e gradualmente trasformata in magazzino di stoccaggio, dove la Fiom – Cgil ha organizzato un presidio a cui hanno partecipato tutte le persone occupate nel sito. Davanti all’ampia partecipazione delle maestranze, emergeva in modo ancora più stridente la totale assenza di rappresentanti delle istituzioni locali al fianco di operaie e operai in lotta.
La richiesta dei lavoratori e delle lavoratrici di Legnaro, da due settimane in cassa integrazione a zero ore, è quella di tornare a lavorare. La paura è che la cassa integrazione richiesta per il COVID-19 e il conseguente blocco della produzione siano delle scusanti per poter chiudere lo stabilimento violando gli accordi presi nel nostro paese per il mantenimento della produzione dell’acciaio:
«Gli operai sono davanti ai cancelli dell’azienda per evitare che ArcelorMittal utilizzi il coronavirus per chiudere gli stabilimenti» dice Loris Scarpa, segretario provinciale della FIOM di Padova; «pensiamo che con questo COVID-19 ne approfittino per chiudere qualche stabilimento» aggiunge Alessandro Morazzi, delegato della RSU aziendale.
I lavoratori e le lavoratrici dello stabilimento di Legnaro sono sull’attenti da diverso tempo. Prima dell’acquisizione l’impianto era un luogo di lavorazione finale dei prodotti e, soprattutto, di vendita diretta. Successivamente all’acquisizione, ArcelorMittal ha avviato una joint venture con CLN, dando vita ad ArcelorMittal CLN Vendite Italia, spostando così tutto il settore commerciale negli stabilimenti CLN (che in Veneto si trova a Marcon, in provincia di Venezia).
Lo stabilimento di Legnaro si è visto quindi privato della sua finalità principale, divenendo un luogo di semplice stoccaggio del materiale – con la relativa contrazione del fatturato. All’ennesima richiesta di spostare il materiale lì conservato nello stabilimento CLN di Marcon, operaie e operai si sono rifiutati, ben consapevoli che il rischio insito in quest’operazione era quello di rendere del tutto superfluo il loro lavoro, offrendo alla dirigenza l’opportunità di chiudere il sito.
La proprietà di ArcelorMittal è coincisa con la fine dei rapporti diretti tra lo stabilimento e i suoi clienti, e la conseguente eliminazione del reparto commerciale. In questo modo Arcelor Mittal gestisce il pacchetto di clienti spostandoli da uno stabilimento all’altro, da un paese all’altro come più gli fa comodo. Lo stabilimento singolo non ha più il controllo sulla vendita e il ciclo produttivo può essere bloccato senza reali giustificazioni. Da settembre le operaie e gli operai hanno denunciato questa situazione e a novembre – a Legnaro come in tutta Italia – sono scesi in sciopero contro il disimpegno degli stabilimenti ex-Ilva.
Ad oggi la situazione si ripete con la sola variante che il COVID-19 ha dato gli strumenti legali e la giustificazione pubblica per bloccare la produzione, creando un contesto generale favorevole per un’operazione di dismissione già in atto da tempo. Come sta avvenendo nella maggior parte dei settori della produzione e della riproduzione del valore, la crisi creata dall’emergenza sta offrendo l’occasione per un’accelerazione dei processi di ristrutturazione dell’organizzazione della forza-lavoro. Nonostante i lamenti che si alzano dai giornali, chi possiede grandi patrimoni si sta approfittando della situazione per incrementare il proprio fatturato ridefinendo il rapporto con le maestranze.
Dopo la mobilitazione di ieri lavoratori e lavoratrici si stanno preparando per intensi giorni di lotta, anche e soprattutto perché il tavolo nazionale che avrebbe dovuto decidere sulle loro sorti ha rimandato la decisione di una decina di giorni, assecondando per l’ennesima volta la volontà dell’Ad di ArcelorMittal Italia, Lucia Morselli.
È davvero incredibile come le istituzioni stiano ancora dando credito ad ArcelorMittal, nonostante abbia già mostrato di operare senza rispettare gli accordi presi, sfruttando le debolezze del nostro paese e la sua titubante politica industriale minacciando la fuga – con tutto l’interesse a farlo una volta mangiato quello che c’era da mangiare.
La presenza di ArcelorMittal, però, consente alle parti politiche coinvolte di non affrontare le proprie responsabilità, affidandosi al buon cuore di chi sulla mancanza di sicurezza, sui licenziamenti all’ingrosso e sull’inquinamento ambientale ha fondato un impero.